IL MONDO FEMMINILE NEL REGIME FASCISTA: condannate tutte
le pratiche sociali come l'emancipazione, il voto, il lavoro extradomestico
DONNA ITALIANA NAZIONALIZZATA
DALLA DITTATURA DI MUSSOLINI
(Prima Parte)
di STEFANIA MAFFEO
Il clichè della donna moderna nasce in Italia con gli anni del regime fascista. Prima di allora la condizione femminile non era mai stata parte integrante delle politiche di governo e le donne erano state relegate ai margini delle istituzioni. A sollevare i temi dell'emancipazione femminile era stato il movimento socialista, che, però, ne aveva fatto l'emblema di una battaglia d'opposizione. Soltanto col fascismo le cose cambiarono, nel quadro di un'impostazione dei fenomeni della modernità ispirata ad un governo autoritario. Questo obiettivo richiese che si individuasse una particolare e distintiva identità femminile, da valorizzare e promuovere, cui indirizzare il complesso delle politiche istituzionali, sociali e culturali poste in atto in direzione del genere femminile.
Non si può parlare delle donne all'epoca fascista come di un soggetto unico, in quanto forti erano le differenze di classe e di cultura. Nonostante alcune differenze legate al loro trattamento, soprattutto in relazione alle campagne eugenetiche, lo zelo antifemminista delle dittature fascista e nazista, le leggi tese a relegare la donna al focolare domestico, la pubblica esaltazione della maternità a sostegno della forza dello Stato nazionale furono sufficientemente simili da poter parlare di una comune politica verso le donne. La giornalista Irene Brin ha osservato: "La generazione della donne italiane giunta a maturità negli anni Trenta era rumorosa, ingenua e triste; sebbene terribilmente cosciente di sé, era ignara di dover soggiacere alle costrizioni più assurde. Nel sentirsi libere da ogni vincolo morale, sentimentale e fisico da non accorgersi, se non troppo tardi, che avevano perduto la loro libertà".

Fu proprio l'apparente normalità delle limitazioni delle libertà femminili a renderle
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Manifestazione fascista
negli Anni Venti
particolarmente mistificanti, insidiose ed avvilenti. Da un lato i fascisti condannavano tutte le pratiche sociali connesse con l'emancipazione femminile, dal voto al lavoro extradomestico, al controllo delle nascite, cercando, per di più, di estirpare quegli atteggiamenti volti all'affermazione dei propri interessi individuali che sottostavano alle richieste di autonomia ed eguaglianza da parte delle donne. Dall'altro lato, nel tentativo di accrescere la forza economica della nazione e di mobilitare ogni risorsa disponibile - inclusa la capacità riproduttiva delle donne - i fascisti finivano, inevitabilmente, per promuovere quegli stessi cambiamenti che cercavano di evitare.
La mobilitazione di massa, la modernizzazione dei servizi sociali ed, infine, il militarismo degli anni Trenta ebbero l'effetto imprevisto ed indesiderato di intaccare la concezione tradizionale della donna e della famiglia. In altre parole, mentre le istituzioni fasciste restauravano nozioni antiquate di maternità e paternità, femminilità e virilità, richiedevano, al contempo, nuove forme di coinvolgimento sociale. Comunque la nazionalizzazione delle donne italiane proseguì con decisione e fu realizzata in termini autoritari, non liberaldemocratici. Il fascismo prese le mosse dall'assioma della diversità naturale tra uomini e donne per affermarla anche in campo sociale e politico a vantaggio degli uomini. Su questa base fu eretto un nuovo sistema particolarmente repressivo e pervasivo: ogni aspetto della vita delle donne fu commisurato agli interessi dello Stato e della dittatura, dalla definizione della cittadinanza femminile al governo della sessualità, alla determinazione dei livelli salariali e delle forme di partecipazione alla vita sociale.

In questo sistema, il riconoscimento dei diritti delle donne in quanto cittadine andò di pari passo con la negazione dell'emancipazione femminile, mentre le riforme volte alla protezione sociale delle madri e dei bambini si intrecciarono con forme brutali di oppressione. Nel dicembre del 1925 il fascismo mise mano alla prima riforma sulla questione femminile con la creazione dell'Omni (Opera Nazionale per la Maternità ed Infanzia) per la tutela della madre e del bambino. Nel 1927 partì la campagna per l'aumento delle nascite, ma il primo serio sforzo per la creazione di organizzazioni di massa femminili si attuò all'inizio degli anni Trenta. Per sfruttare il desiderio delle donne di identificarsi e di servire la comunità nazionale il regime cercò un difficile equilibrio tra modernizzazione ed emancipazione.
Mentre si crearono nuovi tipi di organizzazione che consentissero di soddisfare il desiderio di impegno pubblico delle donne, si reprimevano le varie forme di solidarietà femminile ed i valori di libertà, individuale e politica, in precedenza promossi dalle associazioni femministe. Queste ultime, in particolare quelle di origine borghese, sebbene prive di una forte organizzazione o di un vasto consenso, sopravvissero per circa un decennio all'avvento di Mussolini. Costrette a rinunciare alla battaglia per il suffragio femminile, dopo il 1925, le femministe di un tempo volsero il loro impegno al volontariato sociale o all'attivismo culturale, dando vita ad una nuova subcultura femminile di dimensioni nazionali.

Questo fenomeno venne definito "sano femminismo" da contrapporre al "vano femminismo". Come sosteneva la femminista socialista Laura Cabrini Casartelli, "il
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Sport anche per le giovani donne
movimento delle donne non aveva mai raggiunto una grande coscienza propria vivendo sempre un po' di vita riflessa"
. Ciò lo trovò impreparato alla contesa con l'onda alta della rivoluzione fascista. Ancora la Cabrini Casartelli: "Erano l'autentico amore per la Patria, un largo umanitarismo ed un vivo sentimento sociale a spingere le donne a simpatizzare con il programma fascista di valorizzazione della vittoria, di esaltazione della guerra nazionale, di opposizione ad uomini ed a metodi". Per quanto diffidenti nei confronti dell'esaltazione della forza operata dal fascismo, le donne erano, nondimeno, attratte dal suo forte spirito di sacrificio.
Anche se non potevano fare politica, le donne comparivano anche nelle squadre punitive (anche se fu una presenza di breve periodo). Un dato interessante: nel 1921, l' "Almanacco della donna italiana" di Silvia Bemporad registrò i neonati gruppi femminili nazionali e fascisti. Venticinquemila nei vecchi gruppi (Cndi, Unione Donne Cattoliche ed altri gruppi socialisti) e solo poche centinaia iscritte ai gruppi fascisti. Fino alla marcia su Roma del 28 ottobre 1922 le aderenti al movimento non furono più di qualche centinaio. Tra le fasciste della prima ora ricordiamo alcune vecchie compagne di lotta del Mussolini socialista, come Margherita Sarfatti, Regina Terruzzi e Giselda Brebbia. Altre provenivano dai ranghi dannunziani delle "fiumane", come Elisa Majer Rizzioli, la fondatrice dei Fasci femminili; Angiola Moretti, segretaria dell'organizzazione dal 1927 al 1930, e Rachele Ferrari Del Latte.

Uno sparuto gruppetto era costituito dalle sostenitrici sul campo di battaglia delle prime squadre fasciste, come la spavalda fiorentina Fanny Dini. Queste donne avevano in comune il disgusto per la presunta mancanza di valori della società liberale, il rifiuto del socialismo riformista, il desiderio di uno Stato forte ed ordinato. Le linee guida per l'attività dei gruppi femminili, rese pubbliche il 14 gennaio 1922, sottolineavano il ruolo subalterno riservato alle donne nella rivoluzione fascista. Dovevano partecipare alle riunioni ed ai raduni, guadagnare consenso al movimento attraverso attività caritative, occuparsi di propaganda, assistere i malati ed i feriti, fare da madrine ai nuovi fasci di combattimento. Ma era loro esplicitamente interdetta ogni autonoma iniziativa politica.
Dopo il 1925 le donne organizzate non furono mai più considerate un interlocutore della politica fascista. La dittatura riconobbe solo due "movimenti"delle donne: le organizzazioni femminili fasciste ed i gruppi cattolici, le prime sostenute, le seconde tollerate. Ciò non significava che le donne non fossero oggetto di una politica. Negli anni Trenta, le Italiane erano diventate "importanti", in quanto mogli e madri esemplari, angeli del focolare, madri di pionieri e di soldati, milizia civile al servizio dello Stato. Sono questi solo alcuni dei titoli onorifici che la dittatura appiccicava alle donne, a testimonianza dei loro doveri verso il regime e dei presunti diritti che il regime stesso concedeva loro.

Le associazioni femminili fasciste (Fasci Femminili, Piccole (8/14 anni) e Giovani Italiane (4/17 anni), dipendenti dall'Opera Nazionale Balilla, e Massaie Rurali, costituite da donne che risiedevano in Comuni a carattere rurale o che appartenevano a famiglie di proprietari terrieri, coltivatori diretti, coloni, mezzadri, con lo scopo di promuovere l'educazione e l'istruzione delle donne della campagna, di incrementare l'autarchia economica, di favorire l'allevamento igienico della prole) erano organismi nuovi, ma poco vitali, la cui funzione principale stava nel valorizzare le virtù domestiche della donna, nel ribadirne l'immagine tradizionale di "angelo del focolare" diffusa attraverso la stampa, la letteratura fascista ed i testi per la scuola. I Fasci Femminili (il primo fu costituito a Monza il 12 maggio del 1920 da Elisa Savoia) erano composti da donne italiane di sicura fede fascista e buona condotta morale che avessero compiuto il ventunesimo anno di età.
L'organo centrale era la Consulta, presieduta dal segretario del Partito e composta dalle ispettrici nazionali, dalla ispettrice della Gil, dei Guf, dal vice segretario del Partito, dall'ispettore del Partito per i Fasci Femminili e dalla Commissaria nazionale dell'Associazione Donne Artiste e Laureate. Il suo compito era indirizzare e coordinare tutta l'attività delle organizzazioni femminili del Partito. Il Fascio Femminile era istituito presso ciascun Fascio di Combattimento ed era retto da una segretaria. Quelli provinciali erano inquadrati nelle Federazioni di provincia, rette da Fiduciarie nominate dal segretario del Partito.

Una Consulta provinciale, presieduta dal Segretario federale, aveva il compito di
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Allieve di una scuola sportiva
coordinare e di dare un indirizzo unitario a tutte le attività femminili delle singole province. Interessanti figure erano le Visitatrici, ossia donne di particolare attitudine che visitavano le famiglie bisognose a scopo di assistenza morale e materiale, con speciale cura per ciò che riguardava la maternità e l'infanzia, riferendo periodicamente alla Segretaria del Fascio di appartenenza. In effetti, la fondazione delle organizzazioni di massa delle donne comportava il riconoscimento che, in una forma o nell'altra, lo Stato moderno doveva soddisfare il desiderio di impegno sociale delle donne.
Le emancipazioniste italiane dovettero fare i conti con la "donna nuova" del primo dopoguerra, imparando a rapportarsi alla gerarchie maschiliste, agli atteggiamenti militaristi, come rispondere al determinismo biologico ed alla concezione angusta delle maternità, come rendere compatibile il volontariato, praticato sotto l'egida delle organizzazioni cattoliche o femministe, con le burocrazie pervasive del nuovo Stato sociale e la pretesa scientificità della loro azione. Anche l'atteggiamento delle donne non organizzate evidenziava come le Italiane, sotto il fascismo, non fossero vittime passive e prive di speranza. Furono, invece, capaci di protagonismo e di scelte, seppur limitate. Erano diffuse l'inquietudine, la ribellione, la dissimulazione, lo scetticismo ed una consapevolezza crescente dei loro diritti di donne e di cittadine. Per quanto riguarda il consenso al fascismo, le donne non ebbero a disposizione canali con i quali esprimere i propri interessi o il malcontento.

Sicuramente la grande maggioranza delle donne, negli anni Trenta, sostenne il regime ed il Duce, ma furono le stesse che si sarebbero rifiutate, più tardi, di rispettare le norme sul razionamento dei beni di prima necessità, o di consegnare i figli alla leva, e che avrebbero lottato per impedire la deportazione dei loro uomini nei campi di lavoro forzato in Germania. La deferenza verso il Duce andava di pari passo con l'ironia verso le prescrizioni del regime sulla condotta femminile. La consegna della fede d'oro o d'argento non impediva l'esplicita condanna dei programmi demografici della dittatura. La famiglia poteva farsi permeabile alle ingerenze dello Stato ed, al contempo, accentuare il privatismo per resistere alle pressioni crescenti di un regime sempre più bellicoso.
La dittatura mussoliniana ridefinì i confini tra pubblico e privato, modificando i rapporti tra intervento pubblico ed iniziativa individuale, tra impegno collettivo e vita privata. Come risposta, le donne cercarono nuove forme di espressione autonoma, che andavano dallo scrivere romanzi alla cura ed all'abbellimento della casa. Il discorso del Duce dell'Ascensione (26 maggio 1927), che pose l'enfasi sull'incremento del tasso di natalità, segnò un punto di svolta nella politica sessuale della nazione. Ogni residua illusione di poter giocare un ruolo attivo nella costruzione del nuovo ordine andò in frantumi. La maternità, che definiva potenzialmente ogni aspetto dell'essere sociale femminile, veniva ridotta all'atto fisico di produrre bambini.

Le Italiane, pertanto, non dovevano solo affrontare l'esclusione dalla politica (in cui il loro diritto di partecipare era stato, almeno formalmente, riconosciuto con la concessione del voto amministrativo del 1925: formalmente perchè furono abolite le elezioni locali quasi in contemporanea), ma rischiavano l'allontanamento dall'intera sfera pubblica: i loro diritti sul lavoro, il contributo alla cultura, persino il volontariato erano messi in discussione dal messaggio ufficiale che il loro dovere preminente era procurare figli alla Nazione. E le
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Saggio di esercizi a corpo libero
autorità statali si mossero per istituzionalizzare questa concezione ristretta del ruolo femminile. Il primo passo in questa direzione fu la rimozione della sessualità illegittima dagli spazi pubblici con l'intento di spazzar via dalle strade le prostitute, che entrarono nei bordelli controllati dallo Stato, in cui erano soggette a controlli medici obbligatori.
Solo segregando il sesso illecito lontano dagli occhi del pubblico, e tracciando una netta linea di demarcazione tra le donne cattive e quelle buone, lo Stato poteva preservare il luogo e la finalità del sesso legittimo, che doveva svolgersi nel matrimonio, su iniziativa dell'uomo, allo scopo di procreare. Il culto della maternità era pervasivo. Nel doposcuola producevano fiumi di corredini per le mogli di emigranti, rimpatriate con l'aiuto del governo per far nascere figli in patria. Le scuole bombardavano le allieve con le storie delle loro eroiche madri d'Italia: Cornelia, madre dei Gracchi; Adele Cairoli, madre degli eroi del Risorgimento; le due Rose, Guitoni e Maltoni, mamme, rispettivamente, di Garibaldi e Mussolini. Il supremo sacrificio era stato quello della madre di Nazario Sauro, che aveva finto di non riconoscere il figlio, nel tentativo di salvarlo dal boia austriaco.

Il passo successivo fu quello di dar vita a politiche maternaliste ad ampio raggio: criminalizzazione dell'aborto, assegni familiari, assicurazione di maternità, prestiti per matrimoni e nascite, titoli di preferenza nella carriera per padri di famiglie numerose, istituzioni per l'assistenza sanitaria e sociale alla famiglia ed all'infanzia. Esempio tipico fu l'istituzione, nel 1933, della Giornata della Madre e dell'Infanzia, stabilita per il 24 dicembre, la vigilia di Natale, una scelta che sfruttava il culto cattolico della Vergine Maria. In questo modo il regime accostava la madre italiana alla Madre di Dio, alla castità della Vergine, alla gioiosa nascita di Gesù, al supremo sacrificio dell'unico figliolo. Doveva essere un'occasione di riflessione sull'antico culto italico della Matuta Mater e sull'esempio di abnegazione della Madonna.
Non a caso, il vero oggetto della celebrazione non erano le madri qualsiasi, ma quelle prolifiche. Il momento più alto del cerimoniale del primo anno fu l'adunata nazionale a Roma, alla presenza del Duce, nel corso della quale le madri più prolifiche di ciascuna delle novanta province italiane furono passate in rassegna come i migliori esemplari della razza. L'altoparlante non le chiamò per nome, ma per numero di figli: quattordici, sedici, diciotto. Il pro-natalismo fascista categorizzò due tipi di genere femminile: la donna-crisi, cosmopolita, urbana, magra, isterica, decadente e sterile; e la donna-madre, patriottica, rurale, florida, forte, tranquilla e prolifica.

In pubblico, le Italiane raramente contestavano che le donne fossero diverse dagli uomini, che la maternità fosse la loro principale funzione sociale, che il benessere dei figli giustificasse qualsiasi sacrificio di cui fossero capaci. La politica dello Stato costituì un terribile handicap. Ma le donne italiane non furono del tutto disarmate di fronte alle immagini propagandistiche ed alle misure concrete che facevano della maternità un sacrifico senza tregua ed una irreversibile subordinazione. La concezione di madre poteva ancora essere compatibile con una miriade di altri doveri, vocazioni, ambizioni femminili perseguibili nella gestione della casa, nei ruoli di sposa, lavoratrice, aperta, attivista sociale, per non parlare dei sogni, degli amori e dei pensieri delle adolescenti. La perfetta donna fascista era un ibrido, nuovo ed interessante: serviva tutti i bisogni della famiglia e, al contempo, si faceva carico dell'interesse dello Stato.
Durante l'emergenza per la guerra d'Etiopia vi fu la raccolta dell'oro: le donne consegnarono la loro fede e qualsiasi altro ninnolo possedessero. Quest'adesione alla causa sembrò varare una nuova unione tra le donne italiane, le loro famiglie e lo Stato fascista. Nel momento in cui le mogli rinunciavano alle fedi nuziali per dimostrare la loro fiducia in Mussolini, e le madri sacrificavano i risparmi ed i più intimi ricordi di famiglia, l'emozione femminile si univa alla ragion di Stato, il nucleo familiare alla nazione, la domesticità pacifica al militarismo fascista. Oltre al peso simbolico, le cerimonie dell'offerta degli anelli ebbero importanti conseguenze pratiche. Determinarono un rastrellamento dell'oro in tutta la nazione e diedero forte impulso al proselitismo delle organizzazioni fasciste presso le donne comuni, con oltre mezzo milione di nuove iscritte alla fine del 1936, di cui duecentocinquantamila Massaie Rurali.

La loro organizzazione concentrò la sua azione nella promozione delle piccole industrie domestiche. Tradizionalmente, l'allevamento di conigli e galline, i cesti intrecciati, l'allevamento del baco da seta, la coltivazione dell'orto consentivano alle donne una certa indipendenza economica sia nei confronti del marito che del proprietario terriero. L'organizzazione si diede ad appoggiare con decisione queste abitudini, che fornivano cibi più nutrienti ed attività integrative per le stagioni morte, ma che, soprattutto, portavano un contributo alla lotta per l'autarchia. Sosteneva, pertanto, gli interessi elle associate sui mercati dei centri minori, contestava le piccole tasse ed i dazi imposti dai consigli comunali sulla singola gallina, sul mazzo di cipolle o sulle uova portate al mercato; pubblicava listini dei prezzi; cercava di ottenere per le massaie associate bancarelle libere da imposizioni fiscali alle fiere contadine.
Promuoveva, inoltre, le industrie rurali, la più importante delle quali era la seta. Il massaismo, promuovendo l'accesso al mercato, consentiva un reddito autonomo guadagnando autonomia le mogli ed alle figlie del reggitore. In buona parte, queste piccole somme venivano spese in prodotti cittadini: scarpe nuove, nastri e, soprattutto, stoffe di seta artificiale con le quali amavano vestirsi le donne di campagna alla metà degli anni Trenta. Forse l'organizzazione rafforzava l'orgoglio per i costumi e le tradizioni rurali, ma apriva, al contempo, canali di comunicazione tra donne di città e di campagna, che mettevano in luce le durezze della vita contadina.

Pertanto, paradossalmente, i legami intrecciati tra le militanti fasciste e le donne che tentavano di
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Incontro di scherma: uno sport
molto amato da Mussolini
organizzare, contribuirono allo sfilacciarsi del tessuto della società rurale. Per quanto riguarda l'esercizio di una nuova leadership all'interno del proprio nucleo familiare, esso consentiva la diffusione delle pratiche di gestione razionale delle donne appresa durante le lezioni di economia domestica (fortemente ritenuta come scienza dalla piemontese Maria Diez Gasca, che diresse il mensile "Casa e Lavoro" dedicato alla razionalizzazione del lavoro domestico). Tale insegnamento, in quanto organizzato da donne per altre donne, era anche lo strumento attraverso il quale le esponenti delle classi superiori, prive di altri canali di espressione politica, potevano legittimare la funzione guida tanto della loro classe che del loro sesso sugli strati sociali inferiori.
Una donna con più ruoli. In quanto madri, le donne dovevano far quadrare il cerchio: nutrire ed educare i figli con scarse risorse ed a fronte di livelli di inadeguatezza in crescita; trovare lavoro mentre le discriminazioni contro l'occupazione femminile aggravavano le condizioni della forza lavoro dequalificata, instabile e disorganizzata; orientarsi nel labirinto della burocrazia assistenziale agendo, per necessità e costrizione, come persone pubbliche, mentre l'ideologia ufficiale le dipingeva come angeli del focolare. In quanto spose, dovevano costituire un rifugio per i propri uomini, intimoriti ed abbattuti. In quanto sorelle o figlie non ancora sposate, era loro richiesto l'adempimento di funzioni materne, senza alcun tipo di riconoscimento sociale.

Alle donne veniva imposto di mettere il cibo in tavola e fabbricare carne da cannoni. Nel momento in cui la dittatura fascista iniziò ad attuare una politica estera più aggressiva e la prospettiva del sacrificio dei figli e dei mariti si faceva minacciosamente vicina, le mogli, le madri, le sorelle e le figlie iniziarono a cercare nuovi motivi di solidarietà nei legami familiari e nelle associazioni religiose. Mai articolate in un movimento organizzato, le voci delle donne, che risuonavano alle fontane pubbliche, nei cortili delle case popolari, ai cancelli delle scuole ed alle bancarelle dei mercati, divennero mute quando Mussolini chiese sacrifici per la Patria. Un'attenzione particolare merita il rapporto del fascismo con la gioventù femminile. Le generazioni dopo la Grande Guerra avevano occasioni di divertimento completamente diverse da quelle delle loro madri, in quanto la cultura di massa le metteva a contatto con costumi sociali e sessuali maggiormente commercializzati ed apparentemente liberi.
Più precisamente, sotto il regime crebbero due generazioni di italiane: la prima divenuta adulta quando il fascismo salì al potere sulle macerie del terremoto sociale scatenato dal primo conflitto mondiale; la seconda giunta alla maturità all'apice della dittatura, sotto l'influenza dell'emergente cultura di massa. Le prime, disinibite dall'assenza degli uomini durante la guerra, con le prospettive matrimoniali distrutte o rinviate dagli avvenimenti bellici, erano deluse dall'Italia liberale. La seconda generazione era la componente femminile della Gioventù del Littorio ed erano toccate dalla cultura cosmopolita di massa proveniente dall'America attraverso film, canzonette, moda, romanzi.

Coincise in gran parte col periodo fascista la diffusione in Italia della nozione moderna di adolescenza, concepita come una fase di libertà. Il matrimonio, anche se visto come riduzione della stessa, era molto atteso. L'età media per le nozze delle ragazze si mantenne sui 24/25 anni. Solo nel caso in cui le ragazze dovevano accudire genitori anziani o fratelli disabili era probabile che non si sposassero. Una signorina che si avvicinava alla trentina non ancora fidanzata vedeva agitarsi dinanzi a sé lo spettro della zitella, un attributo che, nel senso comune, pesava più di uno stigma sociale. Denotava una condizione fisica e morale, un'incapacità ad ispirare i sentimenti, per difetti fisici, cattivo carattere o mancanza di dote.
(1 - Continua)
 
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BIBLIOGRAFIA
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  • Le donne nel fascismo, di Nunzia Messina.
  • Le militi dell'idea: storia delle organizzazioni femminili nel Partito Nazionale Fascista, di Helga Dittrich-Johansen - Olschki, Firenze 2002.
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  • Littoriali al femminile, in "Cultura a passo romano", a cura di U. Alfassio Grimaldi e Marina Addis Saba - Feltrinelli, Milano 1983.
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  • L'emancipazione femminile in Italia. Un secolo di discussioni, 1861-1961", di N. Federici - La Nuova Italia, Firenze 1963.
  • Fascismo e grande industria, di R. Sarti - Moizzi, Milano 1977.
  • La donna italiana dal primo al secondo Risorgimento, di Camilla Ravera - Editori Riuniti, Roma 1951.
  • La donna nei proverbi, di Mario Cuomo - Di Giacomo, Salerno 1931.
  • Come si viveva ai tempi del Fascismo, in "Focus Storia", edizione speciale N. 3, estate 2005.