Negli archivi storici di Ekaterinburg il racconto degli ultimi mesi di vita
di Nicola II, zar di tutte le Russie, detronizzato dopo la rivoluzione bolscevica
DALL'UFFICIO DI LENIN VENNE
UN ORDINE: UCCIDETE I ROMANOV
(Prima Parte)
di MARINA ADRIANOPOLI
Sul fondo scurissimo di una vecchia foto ormai sbiadita dal tempo, risaltano i visi alteri e sognanti di quattro graziose adolescenti, vestite elegantemente con abiti chiari, perle e preziosi fermagli fissati su capelli lunghissimi. Non accennano ad alcun sorriso eppure i loro occhi sono pieni di speranze e risplendono di una luce inusuale, che manifesta innocentemente le loro ansie per l'avvenire. Quella foto ritrae i volti delle giovani granduchesse Olga, Tatiana, Maria e Anastasia Romanov, figlie di Nicola II, l'ultimo Zar di Russia.
Era il 1912, le giovani erano ignare del futuro che le attendeva. Vivevano tranquille nel lusso di una corte che era la loro ostrica ed erano assolutamente inconsapevoli del fatto che presto quel mondo dorato si sarebbe rabbuiato.
Il loro padre Nicola II, cresciuto all'ombra del reazionario genitore, Alessandro III, era stato incoronato Zar di tutte le Russie nel 1894. Aveva sposato la principessa tedesca Alessandra d'Assia ed insieme a lei aveva preso in mano le redini di un impero del quale interpretava i bisogni in modo del tutto sbagliato.
All'inizio del Ventesimo secolo la Russia aveva una composizione sociale molto diversa da quella dei paesi industrializzati in Europa. La popolazione agricola costituiva la grande massa umana, almeno tre quarti del totale, ed appariva del tutto lontana dal godere di qualunque forma di benessere. La povertà era dilagante e i contadini vivevano nella frustrazione di non poter acquistare i terreni che lavoravano poiché i prezzi erano in continua ascesa.

Inoltre il fisco imponeva loro di pagare imposte mediamente dieci volte più alte dei membri della nobiltà. Il sistema di produzione era arcaico e non erano previsti incentivi
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Olga, Tatiana, Maria, Anastasia,
le figlie dello zar Nicola II
statali per migliorarlo. Nella società contadina il germe dell' insoddisfazione e della acuta sfiducia verso il governo aveva attecchito profondamente.
Oltre ai contadini, si era formato un consistente proletariato industriale in seguito all'industrializzazione degli ultimi decenni del XIX secolo, il quale, distaccatosi dai piccoli villaggi, ora affollava le periferie delle grandi città. Le condizioni di lavoro e di vita nelle periferie erano massacranti, all'interno delle fabbriche gli operai subivano spesso soprusi, erano sfruttati e malpagati. Proprio da questi presupposti i proletari incominciarono ad organizzarsi in sindacati, dichiarati illegali e fortemente ostacolati dal governo di Nicola II, e diedero vita ai primi scioperi, il più importante dei quali culmino nella rivoluzione del 1905 e nella formazione del primo Soviet di Pietroburgo.
C'era anche una classe media che tuttavia era molto debole sia per consistenza numerica sia per peso politico. La borghesia industriale e commerciale aveva scarsissima autorevolezza, mentre invece tra i professionisti, grazie all'ottenuto riconoscimento di alcuni diritti politici, c'era un gran fermento liberale.
Naturalmente l'unico gruppo i cui interessi erano largamente favoriti dal governo, era l'aristocrazia, che costituiva la percentuale più bassa della popolazione dell'impero zarista.

Nicola II si mostrò incapace di analizzare e fronteggiare i bisogni della collettività e guardava con orrore verso ogni sovvertimento dell'assetto statale. Era stato educato al più totale rispetto della disciplina e dell'ordine, della integrità fisica e morale. Questa formazione, unita al carattere sommesso e mansueto di Nicola, aveva generato una personalità del tutto inadatta al governo della Russia in quella fase storica.
Per dirla con Steinberg, la Russia all'alba del XX secolo non conosceva parola che avesse maggior valenza magica di "rivoluzione". I russi sentivano di aver bisogno di un inversione radicale dello status quo ed erano ormai già sulla strada del cambiamento. Nicola era sordo a questi richiami. Dedicava il suo tempo alla cura del corpo, all'esercizio fisico, trascorreva le sue giornate con la famiglia, trascurando gli affari di stato se non per occuparsi delle parate militari che tanto gli erano care e che lo proiettavano in quel mondo in cui era cresciuto, dove si sentiva al sicuro, oppure di lanciarsi in disastrose campagne belliche, come la guerra contro il Giappone. Ambiva a vivere una vita tranquilla e armoniosa in famiglia, lontano dalla mondanità alla quale era costretto.
Alla fatale debolezza del sovrano si aggiungeva l'influenza che la moglie esercitava su di lui. La zarina aveva una mentalità bigotta e retrograda che poggiava su un carattere irritabile, pessimista e tendente alla depressione.

Si prodigava in opere filantropiche, spesso si recava negli ospedali per curare i malati ed infatti molte fotografie la ritraggono con la divisa da infermiera, ma tale fervore caritatevole deve essere attribuito ad uno sfrenato fanatismo religioso e reazionario. Con queste premesse la zarina, che possedeva un temperamento più autoritario del marito,
Il monaco Grigorj
Rasputin, ambiguo
personaggio
proveniente
da un piccolo villaggio,
esercitava
un carisma oscuro
impose la sua linea conduttrice al governo, sostituendosi spesso al consorte in ciò che considerava a tutti gli effetti una missione: la guida della Russia.
Un'esaltazione mistica che spesso sfiorò il delirio, considerando che Alessandra Fëdorovna aveva eletto a consigliere privilegiato, una figura assurda come Rasputin.
Il monaco Grigorj Rasputin, ambiguo personaggio proveniente da un piccolo villaggio, esercitava un carisma oscuro, personale e politico, su Alessandra che vi si era affidata inizialmente per le cure del giovane zarevic. Lo zarevic Aleksej, ultimo figlio dello Zar e unico maschio, concepito dopo quattro figlie femmine e lunghe attese per poter assicurare un erede, era affetto da emofilia, una malattia del sangue che gli procurava dolorose emorragie interne in seguito ad urti o cadute anche di scarsa entità. La preoccupazione dei genitori e delle sorelle verso questo bambino così fragile, aveva reso la famiglia esposta agli influssi di Rasputin che li confortava e li sollevava, dandogli false speranze di guarigione ed esortandoli a confidare in lui. Inoltre spronava Alessandra a mantenere posizioni politiche anacronistiche, e ciò accentuò ulteriormente la frattura tra i Romanov e i loro sudditi, tra i valori di corte e la necessità di un ragionevole cambiamento.

Chiaramente i vantaggi che Rasputin ne traeva erano notevoli e i privilegi di cui godeva a corte erano guardati con invidia dalla maggioranza dell'entourage imperiale. Fu così che nel dicembre del 1916 venne ordito un complotto ai suoi danni che si concluse con la sua uccisione.
Agli inizi del 1917 comunque gli animi russi erano ormai esacerbati. La partecipazione della Russia alla prima guerra mondiale aveva generato un'insanabile frattura tra l'autorità e la gente; la guerra stava stremando il popolo e aveva provocato la perdita di almeno 1.650.000 uomini. Il proletariato acquistò coscienza di sé aprendosi alla solidarietà di classe e organizzò un movimento rivoluzionario fondato sui dogmi del socialismo.
Con tali premesse la rivoluzione scoppiò l'8 marzo del 1917 a Pietrogrado, si formò un governo provvisorio che vedeva L'vov presidente del consiglio dei ministrie e Kerenskij ministro della giustizia. Nicola tentò in un primo momento di agire con la repressione ma la rivoluzione si era già diffusa in Russia, cosicché decise di abdicare in favore del fratello Mikhail, il quale il giorno seguente, il 16 marzo, rinunciò al trono ponendo fine al dominio dei Romanov in Russia dopo oltre trecento anni.
Nicola II e la sua famiglia furono fatti prigionieri del Soviet e condotti nella splendida residenza estiva di Tsarskoe Selo, vicino Pietrogrado. In questa dimora la prigionia dei Romanov si svolse per cinque mesi in un clima sereno.

Le immagini delle granduchesse erano nonostante tutto distese. Le foto le ritraggono ancora con quella speranza nello sguardo, come pochi anni prima. Sembrano davvero non avere alcun sentore. «L'imperatore» secondo la testimonianza di Maurice Paleologue, ambasciatore di Francia in Russia, «era sempre placido e indifferente in modo davvero straordinario».
In seguito alle giornate di luglio che acuirono i disordini a Pietrogrado, la famiglia imperiale, con trentacinque persone che facevano parte del seguito, lasciarono la reggia per trasferirsi in una cittadina asiatica, Tobolsk. Le condizioni di prigionia continuarono ad essere miti e le guardie del governo provvisorio erano molto indulgenti con i Romanov. Ma ad ottobre il governo provvisorio fu abbattuto, il Soviet di Pietrogrado a maggioranza bolscevica aveva preso in mano il potere.
A Tobolsk venne eletto un Soviet composto da solleciti bolscevichi strettamente connessi a Pietrogrado, molti dei quali erano personalmente ostili allo Zar. Il Soviet di Tobolsk era perciò molto attento alla questione dei prigionieri e non si lasciò sfuggire le voci che circolavano in città, secondo le quali alcuni esponenti del movimento monarchico stavano tramando per far fuggire i Romanov. Da tutti i rapporti che arrivavano al Comitato Esecutivo Centrale risultava che i Romanov avevano la possibilità di evadere poiché alcune guardie preposte alla loro sorveglianza erano state corrotte con del denaro e i contadini della zona spalleggiavano i monarchici. Per questo motivo il Comitato Centrale iniziò a pensare seriamente ad un trasferimento dei prigionieri in un posto più sicuro, lontano da chi ordiva tentativi per liberarli.

Erano intanto trascorsi alcuni mesi dalla presa di potere dei bolscevichi e in tutta la Russia vi erano movimenti di opposizione al regime. Il ceto agiato contadino si lamentava della pressante "commissariocrazia" bolscevica. I partiti socialisti non bolscevichi, i circoli
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La famiglia imperiale
conservatori di destra e i liberali cominciarono a caldeggiare la contestazione ad un regime che consideravano usurpatorio. Il bolscevismo era stato aspramente umiliato dai termini del trattato di Brest-Litovsk che lo stesso Lenin definì "osceni" ma del resto inevitabili per poter uscire dalla guerra. Ragion per cui le scelte politiche del governo vennero duramente disapprovate. A ciò si aggiunsero ben presto i fermenti autonomisti fra i cosacchi del Don e contemporaneamente la volontà di autodeterminazione dell'Ucraina.
Una guida autoritaria dello stato, che la Russia conosce da sempre pur sotto diverse bandiere, ha fatto in modo da arginare le spinte centrifughe delle varie popolazioni nel corso dei secoli, anche nel momento storico che stiamo ora descrivendo. Come si può notare lo sfaldamento del grande impero russo, poi sovietico, che si compì con il crollo dell'URSS, presenta cause che affondano le radici proprio negli impulsi autonomisti delle varie etnie che si affacciano in tutto il corso della storia della Russia unificata, si può dire da Ivan il Terribile ad oggi, senza però conoscere una schiacciante disunione come quella avvenuta negli anni Novanta.

Infatti il congresso Panrusso dei Soviet del gennaio 1918 sancì che il principio dell'autodeterminazione fosse interpretato come diritto delle masse lavoratrici di avere una nazione, quindi subordinato ai principi del socialismo; una scelta che espresse l'intenzione di mantenere salda l'unione del paese sotto la leadership bolscevica a qualunque costo.
Tuttavia, forse proprio per questo motivo, le forze controrivoluzionarie, cioè quelle contrarie al regime bolscevico instauratosi all'indomani della rivoluzione del 1917, si unirono in una resistenza contro il governo originando la guerra civile che dal 1918 durò per quasi tre anni.
La compagine controrivoluzionaria fu inaspettatamente rafforzata dalla Legione Cecoslovacca, una unità militare di ex prigionieri di guerra cecoslovacchi, prima utilizzati come fanteria nel conflitto contro le potenze centrali e poi, dopo la firma del trattato di Brest-Litovsk, disarmati e dichiarati di nuovo prigionieri. Il provvedimento scatenò in essi una reazione immediata. La Legione, che era stata spedita in treno verso Vladivostok per ordine di Trockij, si ribellò e occupò l'intera linea ferroviaria, alimentando i fuochi agitatori controrivoluzionari. Sull'onda di questo supporto improvviso, il governo antibolscevico, costituitosi a Samara nella tarda primavera del 1918 decise di procedere per obiettivi ed occupare una città alla volta cominciando dalle zone di confine, lontane dai centri di potere bolscevichi. Iniziò cosi l'avanzata dei "Bianchi" da est verso ovest, puntando su Mosca. Su tali presupposti fu deciso il trasferimento della famiglia imperiale da Tobolsk a Ekaterinburg.

La scelta di Ekaterinburg era dettata da ragioni politiche. Il Soviet degli Urali, di cui Ekaterinburg faceva parte, era guidato da esponenti del partito molto vicini a Mosca e desiderosi di ottenere prestigio politico con l'esecuzione di incarichi ufficiali. Si può infatti far notare che Ekaterinburg non possedesse affatto i requisiti di luogo sicuro per dei prigionieri cosi importanti. Quando i Romanov vi furono trasferiti, l'esercito dei Bianchi era vicino alla città e ogni decisione era destinata ad esser presa sull'onda della fretta e dell'isteria provocata dalle continue pressioni nemiche.
In ogni caso le sollecitazioni del Soviet degli Urali che si muoveva sotto l'ala protettrice di Sverdlov, membro dell'esecutivo di Mosca e smaliziato collaboratore di Lenin, fecero si che lo Zar, la sua famiglia ed il loro ridotto seguito fossero in fine trasferiti a Ekaterinburg. Il temerario trasferimento avvenne nell'aprile del 1918 e ne fu protagonista il commissario Vasilij Jakovlev.
Costui si presentò al Soviet di Tobolsk come inviato straordinario del Sovnarkom (Consiglio dei Commissari del Popolo) autorizzato a trasferire lo Zar da Tobolsk a Mosca e non a Ekaterinburg. Aveva con sé un permesso firmato da Lenin e Sverdlov in persona. Malgrado qualche sospetto i bolscevichi di Tobolsk gli permisero di comunicare allo Zar di prepararsi per l'imminente partenza. Così Nicola, l'imperatrice Alessandra Fëdorovna e una delle loro figlie, la granduchessa Maria salirono sul treno nella notte del 14 aprile 1918 diretti a Mosca. Il resto della famiglia rimase a Tobolsk poiché lo zarevic era stato colpito da una crisi di emofilia e le altre tre sorelle Olga, Tatiana e Anastasia avevano deciso di rimanere con lui per accudirlo.

Durante la notte il convoglio imperiale deviò e si diresse verso Omsk, ad oriente nel cuore della Siberia. Tuttavia gli atteggiamenti del commissario Jakovlev avevano molto
Il piano di Jakovlev
venne sventato
sebbene continui
ad apparire come
un episodio mai
chiarito in tutti
i suoi particolari
insospettito i soldati di Tobolsk che avvertirono il Soviet degli Urali circa il trasferimento in corso. Fu emesso così l'ordine di bloccare immediatamente il treno dello Zar e di riportarlo a Ekaterinburg.
Il piano di Jakovlev venne sventato sebbene continui ad apparire come un episodio mai chiarito in tutti i suoi particolari. La storiografia avanza dubbi sulla natura delle manovre del commissario; infatti, sebbene possedesse tutti i permessi accordatigli dalla leadership bolscevica, si sospettò che Jakovlev fosse stato in realtà una spia inglese e che l'Inghilterra attraverso il suo agente avesse inteso dare segretamente ospitalità allo Zar. La questione resta comunque controversa. Jakovlev sostenne di essere sempre stato portato a credere che la destinazione finale dei Romanov era Mosca per portare lo Zar davanti ad un tribunale aperto e processarlo, ma nonostante le sue affermazioni, emerge dai documenti ufficiali che l'unico membro del Consiglio dei Soviet favorevole a concedere allo Zar il diritto ad essere giudicato era Trockij. Il Sovnarkom, e Lenin per primo riteneva che nel caso in cui il processo si fosse risolto con una condanna a morte, il governo bolscevico avrebbe subito una propaganda negativa. In più, era solo lo Zar a dover essere sottoposto a giudizio e non tutta la sua famiglia, per cui non si può credere che Mosca fosse incline a celebrare un pubblico processo. L'incongruenza di tali eventi ha permesso il generarsi di molte leggende sul conto di Jakovlev

E' chiaro che la decisione di Mosca di portare i Romanov via da Tobolsk era dovuta non solo ai timori per una loro probabile fuga ma soprattutto all'interesse espresso dal Soviet di Ekaterinburg di detenere il "cittadino Romanov", come presero a chiamarlo i bolscevichi. L'ostilità che molti dei rivoluzionari al potere, e anche dei comuni cittadini, nutriva nei confronti di Nicola II andava al di là di una semplice rivalità politica. Era invero un sentimento analogo al rancore, ad una vendetta privata, una "questione personale". Per questo motivo, spogliare l'ex Zar del suo titolo per chiamarlo "cittadino Romanov" significava certo una stretta osservanza delle regole, che imponevano l'uguaglianza di ogni cittadino, ma anche una rivalsa su chi aveva per così tanto tempo e così spudoratamente tiranneggiato sul paese.
In un'ottica di antitesi abbiamo voluto iniziare il nostro racconto, descrivendo una fotografia delle giovani Romanov. I loro abiti cosi bianchi ed eleganti, i loro sguardi inconsapevoli, ci sono parsi come un terribile contrasto con ciò che sarebbe successo pochi anni più tardi. Nell'aprile del 1918 i convogli imperiali arrivarono alla stazione di Ekaterinburg. Proprio in aprile, quando il disgelo della neve rende le strade fangose, le giovani granduchesse scesero dal treno. I testimoni che descrissero la scena ci pongono di fronte ad un quadro ben diverso da quello della foto; erano ormai persone comuni, prigioniere, donne vestite sobriamente che scendono dal treno senza nessun aiuto, sono costrette a portare da sé i bagagli, essendo loro negata qualsiasi assistenza, trascinano le loro vesti nel fango della strada e la nitidezza dei loro abiti da quel momento sparirà per sempre. Tre mesi più tardi moriranno tutti.

Alla stazione di Ekaterinburg quella mattina c'era molta gente ad attendere la famiglia imperiale. Erano furenti; alcuni anarchici chiedevano a voce alta l'immediata esecuzione dello Zar, insinuando che il Soviet aveva perso già troppo tempo e che avrebbe dovuto infliggergli la punizione che meritava.
Bisogna tener conto che Ekaterinburg era una roccaforte bolscevica. Il Soviet locale era amministrato da abili leader che avevano reso la città il punto di riferimento politico della regione degli Urali. Tra questi vi era Filipp Goloscekin, diventato ne febbraio di quell'anno
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Ekaterinburg: la villa-prigione
dello Zar e dei parenti
Commissario militare del Soviet degli Urali, che manteneva stretti contatti con Sverdlov a Mosca. Oltre alla leadership politica, la popolazione di Ekaterinburg e degli Urali in genere era fortemente orientata verso il modello bolscevico.
Ekaterinburg era la capitale degli Urali dove grazie alle estrazioni di consistenti quantità di ferro, oro, rame, malachite e marmo vi era stato un abbondante flusso di denaro che aveva reso possibile la costruzione di diverse opere di interesse pubblico. La città era ricca e attiva e la presenza di una grande quantità di lavoratori ne aveva probabilmente indirizzato gli interessi politici.
In ogni caso Ekaterinburg significò per lo Zar e la sua famiglia l'ultimo passaggio verso la morte.
Il 27 aprile una delegazione del Soviet si recò nella abitazione privata dell'ingegner Nikolai Ipatiev, una villa in stile borghese costruita sull'ampio viale Voznesenskij che attraversava il centro della città, per ordinagli di fare le valigie e lasciare l'alloggio entro ventiquattro ore.

Alle sue inutili proteste fu risposto che il Soviet aveva bisogno dell'edificio per "ragioni di stato". La casa di Ipatiev era stata scelta per alloggiare la famiglia dello Zar, sotto la sorveglianza di un gruppo di carcerieri.. Il tranquillo stabile sembrò rappresentare la soluzione più adatta alla detenzione dei prigionieri; era sufficientemente spazioso ed era situato al centro della città, in modo da poter essere sorvegliato più facilmente.
Una singolare coincidenza legava il nome di "Ipatiev" alla famiglia dei Romanov. Trecento anni prima, proprio nel monastero di Ipatiev, vicino all'antica città di Kostroma, Mikhail Romanov era stato proclamato Zar, dando origine alla dinastia dei Romanov; ora quello stesso nome stava per legarsi al loro definitivo tramonto.
Il 28 aprile i bolscevichi presero possesso della palazzina: imbiancarono i vetri delle finestre del primo piano in modo da impedire che si potesse guardare dentro e vedere fuori ed eressero un recinto in legno tutto intorno alla proprietà. Il Soviet degli Urali ribattezzò la dimora con l'inquietante nome di doma osobogo naznacenija, "casa a destinazione speciale".
Ciò che accadde nei sessantotto giorni di prigionia può essere ricostruito dai diari di Nicola, dalle lettere di Alessandra, dai memoriali delle guardie, dai telegrammi con cui Mosca era costantemente aggiornata sulla situazione dei prigionieri e dai documenti degli ordini sul regime che bisognava mantenere all'interno di Dom Ipatiev, la casa di Ipatiev. La famiglia imperiale fu confinata al primo piano della casa dove aveva a disposizione numerose stanze.

Dall'ingresso principale una grande scala di legno intagliato conduceva al primo piano. Analizzando la pianta di questo piano si nota che la prima stanza era occupata dal comandante delle guardie Avdeed, le stanze accanto dal resto delle sentinelle, in fondo al corridoio vi era un salotto doppio e una camera da pranzo. Sullo stesso piano si trovavano le camere da letto destinate alla famiglia imperiale, costretta a dormire in pochissimo spazio, e a ciò che era rimasto del loro seguito: il dottor Botkin che si occupava del piccolo Aleksej e la signora Demidova, dama di compagnia dell'imperatrice.
A differenza del trattamento riservato precedentemente ai Romanov, la realtà della prigionia a Ekaterinburg iniziò a mostrarsi in tutta la sua durezza. Dom Ipatiev era sorvegliata da dieci guardie armate disposte in modo da avere una visuale complessiva del viale Voznesenskij (in russo vuol dire "Ascensione") e di tutti gli ingressi del villino. Il corpo di guardia era formato da operai scelti nell'ambito delle fabbriche locali; questi uomini mostravano mancanza di educazione e di rispetto nei confronti dei prigionieri ma c'è da presumere che il loro comportamento fosse anche il frutto di ordini severi impartiti da Mosca. In un fonogramma riguardante le condizioni del confino imperiale, inviato da Sverdlov a Ekaterinburg il 13 maggio 1918, si indica in chiari termini che la volontà del Comitato Centrale di Mosca era quella di mantenere Nicola II sotto stretta sorveglianza.

Ai primi di luglio avvenne uno strano episodio: risultò che il commissario della casa, Avdeed, insieme con il suo assistente Moshkin, era stato sorpreso a rubare gli effetti personali della famiglia imperiale e perciò era stato prontamente arrestato. Tutto il corpo di guardia fu sollevato dall'incarico e sostituito da una squadra di uomini appartenenti alla Ceka (Commissione straordinaria per la lotta ai controrivoluzionari e al sabotaggio, meglio nota come Polizia segreta, creata il 7 dicembre 1917). Che singolare "tempismo" ebbe Avdeed a farsi sostituire proprio nel momento in cui Mosca era decisa a mettere in casa uomini di fiducia!
Il nuovo commissario della casa divenne Jakov Jurovskij. I suoi uomini consideravano la loro missione con
Che singolare
"tempismo" ebbe
Avdeed a farsi
sostituire proprio
nel momento in cui...
orgoglio e vi attribuivano un peso politico: tenere lo Zar imprigionato era necessario per la salvezza della rivoluzione. Gli aspetti più simbolici ed espressivi della cattività di Ekaterinburg, che si manifestarono soprattutto la notte del massacro dei Romanov, assunsero tale valore anche perché questi uomini sentivano intensamente la responsabilità di dover trattare l'ex Zar come un prigioniero politico.
Da questo momento la disciplina e la sicurezza divennero la più alta priorità a Dom Ipatiev. Nicola II vide nella sostituzione delle guardie addirittura un buon segno e la sollecitudine con cui Jurovskij gli fece recapitare gli oggetti che gli avevano rubato sembrò confermare questa convinzione.

Tuttavia una volta preso il comando della casa, Jurovskij aumentò immediatamente il numero di guardie e impose regole ferree. Con una certa emozione abbiamo scovato nei vecchi archivi di Ekaterinburg i dossier sulle regole di Dom ipatiev, firmate dal pugno di Jurovskij. Prima fra tutte l'obbligo di non parlare con i prigionieri di tali regole e di poter comunicare con loro solo attraverso autorizzazioni del comandante. In nessun caso era consentito parlare di politica e mancare loro di rispetto. Non erano ammessi visitatori; se ne entrava qualcuno doveva avere il permesso nominale del capo del Soviet degli Urali, che nel frattempo era diventato Belobodorov in sostituzione di Goloscekin. Gli ospiti dovevano esprimersi in russo. Anche la corrispondenza era ridotta al minimo e controllata dal comandante. Fu redatta persino una lista dei vicini di casa, i loro nomi e le professioni. Le misure di sicurezza furono dettate da esigenze pratiche ma rispecchiarono anche gli ideali di ordine e disciplina che ispiravano i bolscevichi e soprattutto gli attivisti della Ceka in quegli anni.
Nonostante le regole rigorose in casa, si sa con certezza che quattro lettere segrete raggiunsero la famiglia imperiale. L'idea di organizzare una fuga da Dom Ipatiev sembrava occupare i pensieri di molti monarchici a Ekaterinburg ma la città era assediata da oltre diecimila guardie rosse e spie ad ogni angolo e in ogni casa. Fuggire era una follia. Ma probabilmente queste missive potrebbero esser state il frutto di un complotto ordito dalla Ceka per screditare i Romanov e fornire false prove sulla tentata fuga.

In ogni caso la corrispondenza venne interrotta a fine giugno e improvvisamente la sorveglianza si intensificò. La guerra civile stava scuotendo il paese, il regime era instabile, soprattutto dopo la firma di Brest-Litovsk e l'offensiva della Legione cecoslovacca minacciava il controllo dei bolscevichi negli Urali. Il governo si trovava di fronte ad una grave crisi politica e militare.
Ekaterinburg era diventata un obbiettivo delle forze controrivoluzionarie e i bolscevichi sentivano che presto sarebbe caduta, consegnando lo Zar nelle mani avversarie. Questa ultima possibilità era diventata un'ossessione per il Comitato Centrale. Durante i primi giorni di luglio del 1918 l'Armata cecoslovacca era arrivata a poche centinaia di chilometri da Ekaterinburg, il piano di evacuazione degli Urali era in atto, la città era nel caos. Mosca doveva liberarsi dei Romanov!
Le diverse teorie che attribuiscono la paternità della decisione ora all'una ora all'altra parte, sono considerate poco più che attraenti speculazioni. Alla luce dei documenti resi accessibili dopo la glasnost, si può affermare che la decisione di giustiziare la famiglia imperiale fu presa da Mosca e che proprio Mosca aveva richiesto il passaggio della responsabilità della custodia dei prigionieri dal Soviet degli Urali alla Ceka.
Numerosi telegrammi furono spediti durante l'inizio dell'estate tra Mosca e Ekaterinburg e da questi emergono le costanti pressioni esercitate vicendevolmente che poi spinsero alla soluzione definitiva. Eppure risulta incomprensibile il motivo dell'accanimento contro la famiglia dello Zar e il suo seguito.

Il movente dell'assassinio dello Zar e dello zarevic come diretto erede al trono è riferibile a chiari motivi politici, ma l'omicidio delle altre nove persone appare del tutto insensato. Il massacro di Ekaterinburg è da molti storici considerato come il preludio dei massacri del XX secolo.
Non intendiamo quindi giustificare il gesto dal punto di vista etico. Tuttavia, in un clima di totale incertezza vissuta dal governo bolscevico durante la delicatissima fase della guerra civile, i rischi connessi al mantenimento in vita dei Romanov parvero a Lenin troppo alti. In questa ottica pragmatica politico-militare possiamo in qualche modo afferrare le motivazioni di Mosca.
Il 16 luglio un telegramma inviato al Cremlino asseriva che non era più possibile aspettare, che bisognava notificare l'opinione di Mosca senza alcun ritardo e si invitavano Lenin e Sverdlov a mettersi in contatto con Ekaterinburg per occuparsi personalmente di tali questioni.
Ekaterinburg era ormai deserta, le truppe antibolsceviche accerchiavano la città, gli spari si sentivano in lontananza.
Il 17 luglio, mentre per i prigionieri la giornata trascorreva come tante altre, Jurovskij aveva convocato il suo braccio destro Medvedev per comunicargli la decisione ormai presa. Nella notte Jurovskij svegliò il dottor Botkin e gli chiese di avvisare la famiglia che la situazione di Ekaterinburg era a rischio e che quindi, per la loro incolumità, dovevano vestirsi immediatamente e passare la notte nei sotterranei. Nel podval, il seminterrato di Dom Ipatiev era stato predisposto un plotone di esecuzione formato da undici soldati, compreso Jurovskij.

Alle due di quella notte scesero nel podval Nicola con Aleksej in braccio, Alessandra e le
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Particolare della stanza che
vide la strage dei Romanov
figlie, la domestica Anna Demidova, il dottor Botkin, il domestico Aleksej Trup e il cuoco Ivan Haritonov. Scesero lungo ventitre gradini, entrarono nei locali dello scantinato e furono fatti sedere. Lì, mentre i prigionieri lo guardavano ansiosamente, Jurovskij lesse la loro condanna a morte: «Considerato il fatto che i vostri parenti continuano l'offensiva contro la Russia Sovietica, il Comitato Esecutivo degli Urali ha deciso di giustiziarvi ». Si iniziò a sparare. Dopo venti minuti di fuoco incessante alcune delle vittime erano ancora assurdamente vive. Le guardie erano sgomente, non riuscivano ad uccidere Aleksej che strisciava sul pavimento insanguinato, tre granduchesse si muovevano percettibilmente, i soldati le trafissero con le baionette ma non riuscivano a farle morire. Più tardi si scoprirà che i loro corsetti erano imbottiti di pietre preziose che le ragazze vi avevano cucito all'interno per non farsele sottrarre dalle guardie. Dunque le pallottole incontravano resistenza nel trapassare i corpi. Tutto il plotone di esecuzione aveva assistito incredulo alla inaspettata difficoltà nell'uccidere persone inermi. Gli uomini erano in uno stato confusionale. Le circostanze apparivano misteriosissime, inverosimili, pregne di infausti presagi e le guardie erano sconvolte. La portata emotiva dell'eccidio li aveva davvero colpiti.

Solo alle tre del mattino, assicuratisi della morte di tutti i prigionieri, gli uomini deposero i cadaveri su un furgone Fiat e partirono alla volta della foresta dei Koptjaki a circa venti chilometri da Ekaterinburg. Costretto ad agire in fretta e senza ordini precisi, Jurovskij pensò di disfarsi dei corpi gettandoli nella vecchia miniera ma prima li cosparse di acido solforico per renderli irriconoscibili e per evitare le esalazioni delle salme. Poi, una volta sepolti i cadaveri, gli uomini di Jurovskij fecero esplodere qualche granata per colmare la buca che fu infine ricoperta di travi e fango. I cadaveri vennero danneggiati al punto di compromettere ogni futura analisi per la loro identificazione.
Tuttavia la morte dei Romanov, anche se portata a termine con la massima segretezza, aveva generato voci che si stavano diffondendo a Ekaterinburg e che tormentavano Jurovskij; ecco perché fu stabilito di cambiare il luogo della sepoltura e di dar fuoco a due dei cadaveri. Ma perché mai Jurovskij ordinò di bruciare quei corpi? Un fitto mistero avvolge i fatti di quella notte e molte domande rimangono insolute. Una di queste è direttamente collegata ad un'avvincente caso che ebbe luogo in Europa qualche tempo dopo. Accadde che il 17 febbraio del 1920, diciannove mesi dopo il massacro di Ekaterinburg, una giovane donna saltò da un ponte, nel canale di Landwehr a Berlino. Salvata miracolosamente e portata in ospedale, la Fräulein Unbekannt, la signorina sconosciuta, dichiarò di essere la Granduchessa Anastasia Romanov.

La storia di questa donna, che successivamente prese il nome di Anna Anderson, ritrae uno degli episodi più seducenti del mistero legato ai Romanov e ha lasciato il mondo sospeso nel dubbio. Solo molti anni dopo, attraverso la comparazione del suo DNA con quello del Granduca di Edimburgo, discendente dei Romanov da parte di madre, si accertò che Anna Anderson non apparteneva alla famiglia uccisa a Ekaterinburg.
Tornando a noi, il 17 luglio 1918, all'indomani della strage consumata nei sotterranei di Dom Ipatiev, un telegramma inviato dal Soviet degli Urali avvisava Sverdlov e Lenin che a causa dell'imminente arrivo dei Bianchi in città, "Nicola Romanov era stato giustiziato e la famiglia era stata evacuata e condotta in un luogo sicuro". Solo alcune ore più tardi giungerà agli stessi destinatari la notizia che "la famiglia aveva seguito le sorti del capo e ufficialmente doveva risultare morta durante l'evacuazione". La notizia del decesso dello Zar venne diffusa da Mosca in tutta la Russia ben due giorni dopo, il 18 luglio, attraverso l'emanazione di un ormai celebre ciclostilato che spiegava le cause della fucilazione di Nicola Romanov, specificando che la famiglia era nascosta in un posto sicuro e che la decisione di fucilare lo Zar era stata presa dal Soviet degli Urali. Ne derivò un pieno sostegno della stampa e della opinione pubblica locale all'operato dei bolscevichi. Ciò nonostante Ekaterinburg il 25 luglio cadde nelle mani dei Bianchi. Le loro avanguardie, una volta entrate in città si diressero immediatamente verso Dom ipatiev sperando di trovarvi lo Zar ma vi trovarono solo alcune delle loro icone.

Nel perlustrare la casa scesero nel podval dove le tracce del massacro erano ancora evidenti
Un fitto mistero
avvolge i fatti
di quella notte
e molte domande
rimangono insolute
così cercarono inutilmente i cadaveri intorno all'abitazione. Dopo l'ingresso a Ekaterinburg i Bianchi decisero di avviare un'istruttoria sulla misteriosa morte di Nicola II condotta sotto la direzione del magistrato Nikolai Aleksevich Sokolov. La mole di lavoro che egli svolse tra gli Urali e la Siberia fu davvero amplissima. Sokolov portò avanti le sue indagini anche all'estero dove si trasferì dopo la pubblicazione del suo libro Ubijstvo Carskoi Cem'i, L'assassinio della famiglia dello Zar, posto sotto censura permanente per oltre mezzo secolo (la nuova edizione di questo elaborato fu pubblicata nel 1991). Sokolov cercò di imprimere un modello giurisprudenziale alle sue conclusioni che poi assunsero un significato politicamente grave. In base all'analisi delle testimonianze delle guardie egli concluse, smentendo le dichiarazioni ufficiali, che tutta la famiglia era stata fucilata e designò Mosca come promotrice di ogni decisione riguardo la famiglia imperiale; in effetti Sokolov pose la delicata questione del come poteva essere stato possibile per il Soviet di Ekaterinburg dare esecuzione all'omicidio di propria iniziativa se non poteva neppure diffonderne l'annuncio senza il consenso di Mosca.
Coerentemente con queste conclusioni, il principale responsabile dell'esecuzione dei Romanov è stato sempre indicato in Sverdlov che dopo aver ricevuto il telegramma con la notizia della morte iniziò a festeggiare e a manifestare soddisfazione. Fu un grave errore da parte sua perché la maggior parte dei libri di storia sovietica lo indicarono dall'ora come il mandante della strage.

Il materiale fornito da Sokolov servì come supporto ad altre istruttorie come quella Diterikhs, convinto antibolscevico e Pierre Gilliard, tutore dello zarevic.
Un'altra interessante analisi fu condotta da Pavel Bykov, membro del Comitato Esecutivo del Soviet degli Urali. La sua versione risulta verosimile grazie alla profonda conoscenza che egli aveva del contesto politico e sociale degli Urali a quel tempo. Nonostante la sua fede bolscevica egli propose una esposizione paradossalmente somigliante a quella di Sokolov. Bykov sostenne infatti che tutti i Romanov furono uccisi, che in seno al Consiglio degli Urali gli unici favorevoli alla morte erano gli Eseri, un gruppo di rivoluzionari socialisti e che dunque il ruolo giocato da Mosca fu quello principale. Per questo motivo, anche lo scritto di Bykov fu posto sotto rigida censura e venne pubblicato in Russia solo dopo la glasnost, mentre in Europa fu possibile leggerlo già negli anni Settanta.
L'estate del 1918 fu un periodo estremamente critico per il regime bolscevico. La rottura delle relazioni diplomatiche in Europa ne aveva determinato non solo l'isolamento ma aveva anche favorito il sostegno di Inghilterra e Francia ai Bianchi. Fortunatamente per loro l'aggressione dei Bianchi non superò mai le aspettative. Trockij fermò l'avanzata nemica su Mosca lanciandosi in una furiosa controffensiva. Nell'autunno del 1919 le ambizioni dei Bianchi furono drasticamente represse in seguito al fallimento della conquista di Pietroburgo, nonostante il sostegno di Parigi.

L'armata Rossa, con Trockij al comando inseguì le truppe Bianche fino al lago Baikal estendendo così il potere bolscevico fino ad Irkutsk già all'inizio del 1920.
Nello stesso periodo arrivavano buone notizie dal fronte occidentale: l'Ucraina era rimasta passiva alle sollecitazioni dei Bianchi e dunque era decisa ad appoggiare l'Armata Rossa contro la vicina Polonia che stava ne tentando l'invasione. I polacchi furono così scacciati dell'Ucraina.
Nel 1921 la guerra civile in Russia era finita. La vittoria dei bolscevichi poteva essere attribuita al grande impatto di violenza e terrore affiancato ad un programma semplice ed essenziale.
Con la fine della guerra Ekaterinburg si trovò esausta e in rovina come il resto della Russia. La siccità e una terribile carestia sconvolsero il paese. Ekaterinburg, un tempo fiorente centro industriale, ricca di estrazioni di metalli era in ginocchio. Le attività commerciali private, principale motore finanziario degli Urali, erano state dichiarate illegali e lo stato era incapace di assolvere sufficientemente le sue funzioni. Nell'area di Ekaterinburg la produzione si ridusse al 20% del livello prebellico. Anche l'agricoltura risentì enormemente della crisi; la produzione era calata al 37% e i contadini reagivano alle requisizioni rifiutandosi di coltivare la terra. Si ebbero scioperi nelle fabbriche violente sollevazioni represse dall'Armata Rossa. Su questo sfondo di profonda insoddisfazione Lenin nel 1921 varò la "Nuova Politica Economica", NEP, destinata a stimolare l'interesse dei contadini alla produzione e a regolarizzare l'andamento economico del paese.

Tuttavia la NEP rappresentò per Lenin un compromesso per via del riconoscimento di benefici di stampo
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Jurovskij, comandante della Ceka
ed esecutore dell'eccidio
capitalista accordati ai contadini, quindi da un lato lo stato mantenne il controllo dei maggiori motori economici del paese e dall'altro non contrastò lo sviluppo dei privati. Per cui le attività dei contadini furono incentivate (anche se già nel 1925 ritornarono ad essere frenate).
In questa fase il governo bolscevico conobbe la vera affermazione, Mosca era il centro di un potere la cui autorità cresceva a ritmo serrato. Il mondo intero cercava di rialzarsi dalle distruzioni della grande guerra e nuovi scenari mondiali prendevano il posto dei vecchi.
Per evitare che il potere bolscevico potesse essere oscurato dai fantasmi del passato, il nome dei Romanov fu cancellato da ogni luogo e da ogni scritto. Era vietato parlarne e farvi ogni tipo di riferimento. Mosca non intendeva misurarsi con errori ancora troppo recenti e ferite aperte.
In questo panorama internazionale e interno costellato da vorticosi cambiamenti e punti focali per la storia del Ventesimo secolo, la vicenda di Dom Ipatiev, teatro della morte dell'ultimo Zar di Russia, rimase forzatamente ai margini di tali centri d'interesse. Nonostante ciò, nel corso del settantennio sovietico vari avvenimenti tornarono più volte ad accendere i riflettori sulla misteriosa casa, restituendoci un singolarissimo scorcio di Russia ancora poco noto.
(1 - Continua)
 
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BIBLIOGRAFIA
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  • Dvadzat'tri stupieni vniz, [Ventitré gradini in basso], Kasvinov M.K., Mosca, 1990
  • La rivoluzione Russa, Pipes Richard, Mondadori, Milano, 1994
  • L'ultimo Zar: vita e morte di Nicola II, Radzinsky Edward, Baldini e Castoldi, Milano, 1992
  • Storia della Russia dalle origini ai giorni nostri, Riasanovsky Nicholas, Oxford University Press, Oxford, 1984
  • Ubijstvo Carskoi cem'i, Sokolov Nikolai Aleksevic, Mosca, 1921, Parigi, 1925