Una spietata organizzazione creata durante la seconda guerra mondiale
per dare impulso alla sforzo bellico tedesco. Lavoratori ridotti in schiavitù
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LA DEPORTAZIONE DEGLI OPERAI
ITALIANI NELLE FABBRICHE NAZISTE
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"Ci sono mille e mille storie della deportazione, ognuna diversa,
ognuna con le sue sofferenze, ma tutte hanno in comune
FAME, FREDDO, MORTE, PIDOCCHI, MALATTIE, MALTRATTAMENT"
(B.Bolognesi, Diari di un deportato. 25 luglio 1943-26 luglio 1945)
La nascita del Reimahg
La sera del 15 aprile 1945 una compagnia della 89ª divisione fanteria statunitense giunse nei pressi di Hummelshain, un piccolo paese situato nelle vicinanze della cittadina di Kahla, in Turingia. Il soldato americano Harold Mathews ha ricordato di essersi trovato di fronte ad una scena di vero e proprio "pandemonio": per le vie del villaggio frammenti e piume di pollo erano sparsi ovunque, un maiale era stato macellato nei bagni pubblici mentre alcuni uomini del luogo, precedentemente aggrediti, giacevano in una condizione di grande confusione e paura. Interpellando i cittadini locali su quanto era accaduto, le truppe americane appresero che i responsabili erano arrivati da un campo di lavoro dislocato sopra la collina. Il campo era uno dei tanti che si trovavano in quella zona e che gravitava attorno al complesso industriale Reimahg.
Dietro questa sigla, acronimo di REich MArshall Hermann Goering, si nascondeva un cartello di circa novantacinque aziende che sfruttarono per un anno intero circa 15 mila lavoratori stranieri provenienti da almeno nove diversi paesi europei. Questo complesso non è incluso in alcuna lista ufficiale relativa ai campi di concentramento ed è perciò uno dei numerosi luoghi di prigionia edificati dal sistema nazionalsocialista caduti nell'oblio. Il tentativo di tratteggiarne la storia appare opportuno per almeno due ragioni. Innanzitutto, seppure nel corso della sua breve esistenza, esso conobbe un'evoluzione che lo pone assai vicino alla tragica realtà dei più conosciuti e studiati KZ (Konzentrazionlager); in secondo luogo, presso questa vera e propria fabbrica della morte, circa un terzo delle persone che vi furono deportate erano italiani i quali, inoltre, costituiscono il gruppo nazionale che ha avuto per lo meno a livello ufficiale il più alto numero di decessi: 441 su un totale di 991. Queste cifre, ad ogni modo, sono assai lontane dalla realtà dato che, presso Kahla, è stato eretto un sacrario in memoria di ben 6 mila morti.
Una delle ragioni che portarono alla nascita e allo sviluppo del Reimahg va rintracciata nella sempre più precaria situazione militare in cui si venne a trovare il Reich con il procedere del conflitto. Gli incessanti bombardamenti alleati, che nel 1944 rispetto all'anno precedente erano addirittura quintuplicati, spinsero la Germania, al fine di proteggere la produzione bellica dalle incursioni aree, nella direzione di una crescente bunkerizzazione.
Nelle sue memorie, il ministro degli Armamenti Albert Speer, ha ricordato che fino al dicembre del 1944, a causa delle azioni dell'aviazione alleata, il Reich aveva perso un milione e 149 mila tonnellate di carburante per aerei, mentre la produzione dei cuscinetti a sfera, elemento indispensabile per le forniture militari, si era contratta fra l'aprile del 1943 e lo stesso mese dell'anno seguente del 58 percento, passando da nove a tre milioni e 800 mila ogni mese. La necessità di difendere gli impianti industriali, pertanto, comportò la creazione di un vastissimo sistema di difesa antiaerea e il diffondersi di campi di lavoro e di concentramento muniti di gallerie e cunicoli ove avrebbero dovuto essere poi trasferite le industrie ritenute nevralgiche. In totale le aree di produzione sotterranee previste, avrebbero dovuto coprire una superficie pari a 3 milioni di metri quadrati. Nel 1945 ne furono resi disponibili 425 mila distribuiti in 15 diverse località. Il piano difensivo fu contemporaneamente accompagnato da una strategia offensiva che consisteva nell'incrementare la produzione di caccia e nell'avviare su vasta scala anche quella dell'apparecchio che Speer ha definito "la più importante" delle armi miracolose del Reich: l'aereo a reazione Me 262. Un apparecchio, quest'ultimo, dotato "di una velocità di oltre ottocento chilometri l'ora" e di una spinta ascensionale superiore a qualsiasi altro aereo dell'epoca.
Per ciò che riguarda il primo punto fu dato il via ad un piano che portò, fra il gennaio e il settembre del 1944, quasi a triplicare la produzione mensile di caccia: mentre a gennaio ne venivano prodotti 1017, a settembre i pezzi erano saliti a 2878. Diverse, invece, le vicende legate allo sviluppo degli Me 262. I piani per la produzione di un aereo a reazione furono avviati nell'autunno del 1938 quando il Ministero dell'aeronautica tedesca affidò alla ditta Messerschmitt A.G. il compito di progettare un apparecchio potenziato delle nuove turbine a gas allora in via di sviluppo. I disegni preliminari di quello che fu definito il progetto 1065, furono ultimati nel giugno dell'anno successivo e, nell'aprile del 1941, decollò il primo prototipo. Successivamente, prima di arrivare alla preserie nel febbraio-marzo 1944, furono creati altri nove modelli di prova. La progettazione dell' Me 262 fu ritardata da Hitler in persona che, inizialmente, ne sottovalutò le potenzialità e ordinò la sua produzione su vasta scala solo dopo aver appreso che l'aviazione britannica stava ultimando progetti simili.
Senza tenere in considerazione l'opinione dei tecnici, inoltre, si ostinò nel pretendere che i nuovi aerei, anziché essere sfruttati secondo il progetto originario come caccia da combattimento, fossero utilizzati anche come bombardieri. Questa decisione rallentò così la loro realizzazione in serie che, per altro, risultava già ritardata dalla scelta di concentrarsi anziché su un unico modello sulla fabbricazione di diverse versioni. Secondo quanto riferito dal ministro degli Armamenti la produzione avrebbe dovuto accrescersi in modo esponenziale passando dai 40 apparecchi previsti per l'aprile del 1944, agli 800 mensili per l'ottobre 1945. Una seconda fonte afferma invece che già nell'aprile del 1945 gli aerei disponibili avrebbero dovuto essere ben 1250 ogni mese. Al termine della guerra il numero degli Me 262 prodotti fu molto più modesto delle previsioni: in totale 1433 esemplari dei quali solo un centinaio furono utilizzati in combattimento. In un primo momento il luogo per la loro lavorazione fu la sede della Messerschmitt ad Augsburg, in Bavaria, una località che era assai vicina sia al centro di sperimentazione di Oberammergau sia alla pista di lancio di Lechfeld.
La ditta fu però colpita da un pesante bombardamento nel febbraio del 1944 che, pur non danneggiando la produzione del nuovo jet da combattimento, spinse in direzione di una delocalizzazione degli impianti. Nel corso del marzo del 1944, perciò, dietro intervento del Gauletier della Turingia e Plenipotenziario per la manodopera Fritz Sauckel, fu scelto di trasferire parte del progetto a Kahla. La presenza nella zona di numerose miniere quarzifere per l'estrazione del caolino, utilizzato per la produzione di porcellana, avrebbe permesso di adattare velocemente tali luoghi alle nuove esigenze belliche tedesche. I lavori per la costruzione dei primi campi, finanziati dalla banca di Weimar, ebbero inizio nell'aprile del 1944 e, a quella data, risultavano già impiegati 187 italiani. Alcuni provenivano dal vicino campo di concentramento di Buchenwald, altri erano stati arruolati in forme più o meno coatte dall'Italia. Fra di loro vi era anche una percentuale di lavoratori volontari, difficilmente quantificabile, alcuni dei quali, però, saliti su un "treno libero" scoprirono al Brennero di essere bloccati come tanti prigionieri e di trovarsi sottoposti all'arbitrio dei tedeschi. Per realizzare un progetto che richiedeva l'utilizzo di migliaia di braccia e per far fronte alle identiche esigenze industriali della Germania, è comunque conveniente tenere in dovuta considerazione la politica del reclutamento di manodopera che il Reich adottò in tutti i territori occupati.
La fame tedesca di manodopera e i piani di deportazione dall'Italia
La massiccia politica di riarmo attuata dopo l'ascesa al potere di Hitler permise alla Germania il raggiungimento dell'obiettivo della piena occupazione. Questo risultato ebbe come conseguenza una forte mobilità interna che determinò una fuga dalle campagne in direzione delle città e, conseguentemente, l'apertura di un vuoto di manodopera nel settore agricolo che poté essere compensato solo facendo ricorso, mediante una politica d'immigrazione gestita dall'alto, a quote di lavoratori stranieri. Il numero dei lavoratori europei immigrati in Germania, ed impiegati per lo più stagionalmente, rimase ad ogni modo abbastanza basso: alla vigilia della guerra, infatti, la forza lavoro straniera complessiva ammontava solo al 2 percento degli occupati. Con lo scoppio del conflitto e l'invio di numerosi classi al fronte uno dei primi obiettivi del Reich fu quello di reclutare per il proprio fabbisogno produttivo interno lavoratori in tutti i territori occupati. Il fenomeno del rastrellamento, pertanto, raggiunse livelli impressionanti e, nel 1944, in Germania si ritrovarono a lavorare ben 13 milioni di cittadini stranieri.
Di questi 8 milioni erano civili, 4 milioni risultavano essere prigionieri di guerra mentre la quota di 1 milione e mezzo era costituita da deportati politici. Nel 1944, quest'afflusso, fece sì che il 26,5 percento dei lavoratori impiegati in Germania fosse costituito da manodopera straniera. Il ricorso al trasferimento coatto non fu l'unica forma utilizzata dai tedeschi per procurarsi forza lavoro. Lo sfruttamento economico dei paesi occupati, infatti, doveva essere tale da spingere le popolazioni ad abbandonare i propri territori per trasferirsi a lavorare nel Reich in maniera spontanea. In un colloquio tra Goering e i rappresentanti delle autorità di occupazione, tenutosi nell'aprile del 1943, il direttore del piano quadriennale si espresse nei seguenti termini: "Le forniture in natura dai territori occupati devono essere così elevate da abbassare il tenore di vita di quei paesi tanto al di sotto di quello nel Reich, in modo da incentivare l'accettazione di un lavoro nel Reich stesso".
Al momento dell'armistizio gli italiani che si trovavano già al lavoro in Germania erano circa 100 mila e, per via degli accordi italo tedeschi e dell'alleanza tra i due paesi, godevano di uno status in un certo senso privilegiato.
Secondo una circolare diramata da Himmler nel dicembre del 1941, era infatti prevista una scala gerarchica articolata in quattro gruppi. Gli italiani, in quanto amici nella lotta comune, occupavano il gradino più alto; al livello più basso erano invece collocati gli slavi e i non germanici destinati ad un trattamento severo e tenuti separati da tutti gli altri popoli. Il crollo del fascismo prima e la firma dell'armistizio poi, mutarono radicalmente questa situazione spingendo gli italiani al grado inferiore della scala gerarchica vigente nel Reich e proibendo, tra l'altro, il loro volontario rientro in patria. A costoro, nel breve periodo, si andarono ad aggiungere tutti i soldati catturati in seguito all'8 settembre che costituirono uno degli ultimi massicci contingenti di manodopera di cui riuscirono ad impadronirsi i tedeschi per le proprie fabbriche. Contemporaneamente, con l'occupazione tedesca della penisola, prese anche il via un'autentica caccia all'uomo sintetizzata nel motto adottato dalla decima armata della Wehrmacht "il tedesco combatte l'italiano lavora per lui". Secondo i piani esposti a Roma il 30 settembre del 1943 dal Plenipotenziario della manodopera Sauckel, in Italia avrebbero dovuto essere reclutati per il lavoro nel Reich 3 milioni e 500 mila lavoratori. Un numero esorbitante che fu ridotto nel gennaio successivo alla più "modesta" cifra di 1 milione e mezzo di persone. I programmi di Sauckel, ad ogni modo, non poterono essere realizzati e furono contrassegnati da continui fallimenti.
Il Plenipotenziario della manodopera, oltre che a scontrarsi con la tenace resistenza passiva della popolazione italiana, dovette fare i conti con un'accentuata conflittualità esistente fra i diversi organi preposti ai compiti di reclutamento. Anche in Italia, infatti, si vennero a scontrare almeno tre logiche differenti. Alle deportazioni indiscriminate patrocinate da Sauckel, si opposero la linea del ministro per gli Armamenti Speer, che intendeva sfruttare in favore della Germania il potenziale produttivo delle fabbriche italiane e che quindi era contrario ad una eccessiva riduzione del personale, e i piani della stessa Wehrmacht la quale puntava invece all'impiego della manodopera in loco adibendola alle fortificazioni e ai lavori di carattere militare. Alla poliarchia tedesca in materia si aggiunsero inoltre le strutture create dalla Rsi e il sopraggiungere in territorio italiano di reclutatori privati che aumentarono così le difficoltà di coordinamento della macchina germanica.
Dal canto suo la Rsi seguì una linea che si poneva in continuità con la politica dell'emigrazione attuata nel periodo 1938-1943. Se allora l'invio di quote di italiani in Germania, oltre che allentare la pressione sociale, era servito come moneta di scambio per ottenere maggiori forniture di materie prime, ora soddisfare le richieste tedesche di manodopera aveva come scopo quello di riannodare i legami con l'alleato riguadagnando ai suoi occhi il prestigio perduto con il crollo del fascismo e l'uscita dalla guerra dell'Italia. Il 19 marzo del 1944, pertanto, Mussolini telegrafò a tutti i capi provincia invitandoli a "mettere in atto tutte le misure necessarie perché il contingente di operai richiesto dalla Germania" fosse raggiunto, e sottolineando come tale obiettivo fosse importante sia per "fornire una prova concreta e doverosa di solidarietà coll'alleato", sia perché intimamente connesso con la riorganizzazione e la ripresa militare della Rsi.
La speranza di conseguire tale obiettivo si mantenne in vita a lungo tanto che, nel maggio, il segretario del Partito fascista, Alessandro Pavolini, inviò ai capi provincia una comunicazione affinché fossero rese disponibili per il lavoro in Germania, mediante chiamata militare, le classi dal 1900 fino alla 1921 inclusa. L'ordine prevedeva anche la chiamata della classe 1926 metà della quale, almeno 40 mila uomini, avrebbe dovuto essere messa a disposizione per l'impiego nell'agricoltura germanica. Il 1° marzo del 1945, infine, il "Corriere della Sera" dava notizia di un decreto in corso di pubblicazione che prevedeva l'istituzione, presso ogni azienda che doveva provvisoriamente ridurre manodopera, di liste di temporanea disponibilità. Gli elenchi avrebbero dovuto essere trasmessi agli uffici di collocamento competenti e i lavoratori, da utilizzarsi in lavori di pubblica utilità, sarebbero stati esonerati dal servizio di leva e da qualsiasi impiego al di fuori del territorio nazionale. E' però facile intuire che queste liste avrebbero potuto essere utilizzate dai tedeschi per altri scopi e, comunque, è lecito dubitare della capacità di contrattazione della Rsi di fronte ad eventuali richieste germaniche. I risultati di tale politica, come si vedrà più specificatamente per il caso di Milano, furono però tutt'altro che lusinghieri.
I rastrellamenti per il Reimahg
Il totale degli italiani che furono deportati nel Reimahg ammonterebbe a circa 3 mila e 200 persone. Ricostruire una minuziosa dinamica dei loro trasferimenti è un lavoro alquanto difficile il cui risultato non può che essere ancora largamente incompleto. La prima grossa ondata di lavoratori deportati al Reimahg, con molta probabilità, fu quella proveniente dalle Marche e risale al maggio del 1944. Una preziosissima fonte è rappresentata dai ricordi di un cittadino di Esanatoglia, Balilla Bolognesi. Secondo la sua testimonianza, nonostante i bandi per il lavoro volontario, nella zona delle Marche solo pochissimi giovani avevano risposto alla chiamata. A partire dalla seconda metà di marzo la regione fu investita da massicci rastrellamenti. Il 26 aprile furono colpiti i paesi di San Severino Marche, Castelraimondo e Matelica mentre il 5 maggio fu la volta di Esantoglia. In pochi giorni furono rastrellate nell'intera zona mille e 500 persone che poi vennero concentrate nel campo di Sforzesca in attesa di essere smistate per i lavoro in Germania o per l'Organizzazione Todt. Le selezioni ebbero inizio l'11 maggio con un primo gruppo di 700 persone. Il giorno 16, invece, Bolognesi con altri 170 uomini fu trasferito a Firenze dove a tutti fu sottoposto il foglio d'ingaggio, ossia il "libero" contratto di lavoro.
Da Firenze fu poi trasferito nel campo di Suzzara e infine in Germania dove arrivò con un gruppo di suoi concittadini il 28 maggio. Secondo i dati in possesso dell'associazione Reimahg & V, gli originari di tale area giunti nel Reimahg ammonterebbero a circa un centinaio di persone. Il reclutamento coatto aveva contemporaneamente luogo in altre regioni. In Piemonte risale sempre a maggio la deportazione di un nucleo di cittadini di Coazze, nella Val Sangone. L'occasione per la loro deportazione fu data dal fallimento del richiamo delle classi dal 1920 al 1926. All'ordine delle autorità di Salò risposero solo una cinquantina di persone delle quali, fra l'altro, una buona parte fu scartata in quanto ritenuta non idonea per il lavoro nel Reich. Nelle retate che seguirono la mancata presentazione, almeno 23 furono gli uomini reclutati e deportati a Kahla. Nei medesimi giorni era colpita un'altra zona del Piemonte, distante solo una trentina di chilometri dalla precedente, precisamente l'alto Canavese. A metà maggio truppe delle SS giunsero nei pressi di Courgné, Salasso e Castellamonte ordinando a quanti erano in possesso di patenti di libera circolazione di presentarsi al Comando tedesco per il rinnovo dei documenti. Coloro che ebbero la sventura di recarsi al Comando furono prima rinchiusi nella palestra di Castellamonte e poi concentrati alle casermette di Borgo San Paolo, a Torino. La maggior parte dei rastrellati del Canavese finirà poi nei campo di lavoro del Reimahg.
Il momento più significativo della deportazione per Kahla fu quello dell'estate del 1944 con le truppe tedesche che da un lato erano impegnate nel predisporre una nuova linea difensiva, la Gotica, e dall'altro facevano ricorso a durissime azioni contro il movimento partigiano colpendo senza remore anche le popolazioni civili. Entrambi gli obiettivi furono accompagnati dal reclutamento forzato di uomini da inviare al lavoro in Germania. Il binomio repressione antipartigiana-reclutamento di forza lavoro trovò la sua massima espressione nella zona dell'Appennino emiliano. Nel giugno del 1944, nell'arco di una decina di giorni, le formazioni partigiane dell'Emilia si impadronirono di una zona montana estesa 1.000 chilometri quadrati la quale costituirà la prima delle cosiddette repubbliche partigiane sorte nel corso dell'estate. Dopo aver tentato invano di giungere ad un accordo con il Comando della zona libera, i tedeschi prima diedero il via a brevi incursioni nella montagna reggiana e parmense, poi fecero convergere sulla Repubblica di Montefiorino un ingente spiegamento di forze per sferrare l'attacco che ebbe inizio la mattina del 31 luglio.
L'operazione, denominata Wallenstein III, si concluse nel giro di pochi giorni con l'occupazione e l'incendio di Montefiorino, ma molti altri furono i paesi che conobbero la medesima sorte: "In poche ore - ha scritto Ermanno Corrieri - il risultato di secoli di lavoro [fu] completamente distrutto". L'azione antiguerriglia fu accompagnata da una vera e propria caccia all'uomo che si risolse con la cattura e il trasferimento in Germania di 7 mila persone di cui, almeno mille e 500 destinate al Reimahg. Ecco la testimonianza di uno di loro, Onilio Ori, cittadino di Cerredolo:
"Ci hanno preso del '44, agli inizi di agosto. (.) Siamo rimasti a La Rotella quattro o cinque giorni, in attesa che passasse questa ondata di rastrellamenti, perché si sentiva dire ne erano morti di qui e di là da ambo le parti, anche dei partigiani. Poi ci siamo decisi a tornare a casa. Il mattino che siamo venuti a casa ripassa un'altra ondata di tedeschi e ci hanno presi".
Dopo una breve pausa le operazioni tedesche sull'Appenino ripresero alla fine di settembre. Il colpo di coda dei rastrellamenti in quest'area si registrò con gli avvenimenti di Castelnuovo ne Monti. Il 6 e 7 ottobre diversi civili furono catturati e concentrati nel teatro della piccola comunità montana. Per impadronirsi di ulteriore forza lavoro, poi, i tedeschi sbarrarono le vie d'accesso del paese e diffusero la voce che per poter entrare ed uscire da Castelnuovo fosse necessario un lasciapassare rilasciato dalle autorità germaniche.
Attraverso questo stratagemma, usato già in precedenza nelle operazioni nel Canavese, tutti gli uomini del paese e quelli degli abitati limitrofi furono costretti a presentarsi in teatro. La sera del 10 ottobre 80 di loro intrapresero il viaggio che li avrebbe condotti in Germania passando per Fossoli, Peschiera ed Erfurt dove furono poi smistatati nei vari campi di lavoro. Nel corso dell'estate, nel frattempo, altri due cospicui reclutamenti avevano avuto luogo prima in Piemonte e poi in Toscana. A fine luglio due reparti della divisione tedesca Bradenburg effettuarono una manovra a tenaglia nell'alta Valle Tanaro con l'intento di colpire duramente le formazioni partigiane della zona. Nel corso dell'operazione le truppe tedesche si abbandonarono ad ogni sorta di violenza cui fece seguito un imponente rastrellamento condotto casa per casa e conclusosi con la deportazione di centinaia di civili. Il 29 luglio cominciò il loro trasferimento che li portò dapprima a Celle Ligure, dove furono effettuate le visite e compilati i relativi fogli d'ingaggio, e successivamente al carcere di San Vittore di Milano dove rimasero circa una decina di giorni. Poi, il 12 agosto, 60 di loro furono condotti allo scalo Farini e da lì deportati in Germania con destinazione Reimahg. Il giorno antecedente la loro partenza era invece stata colpita la Lucchesia. Fra luglio ed agosto interi paesi a ridosso della linea Gotica erano stati fatti sfollare e diversi erano stati anche gli eccidi. Numerosi anche i rastrellamenti fra cui quello che ebbe inizio il 10 agosto e che portò alla cattura di varie centinaia di uomini destinati o al lavoro obbligatorio nella Todt o alla deportazione in Germania. Anche in questa circostanza molti ebbero la sventura di essere reclutati per la fabbrica della piccola cittadina della Turingia.
Nel complesso di Kahla, in quel momento, i lavori di scavo della collina di Walpersberg procedevano frenetici così come il livellamento della stessa al fine di costruire la pista di lancio dell'Me 262. Proprio in quel periodo alcune centinaia di Internati militari italiani, impiegati fino ad allora in una raffineria di Colonia, furono trasferiti ad ingrossare le fila della manodopera coatta nel Reimahg affiancandosi così ai civili. L'arrivo dei soldati italiani coincideva con il momento della loro "civilizzazione" che avrebbe dovuto aprire una nuova fase della loro prigionia dal momento in cui era formalizzato il loro passaggio da internati a lavoratori civili. In linea teorica questo mutamento avrebbe dovuto significare un miglioramento delle loro condizioni.
Da quel momento, in effetti, i campi in cui furono inviati furono meno soggetti a critiche dei precedenti eccezion fatta per un certo numero di lager fra cui, appunto, il Reimahg dove - ha evidenziato Gabrielle Hammermann nel suo lavoro sugli Imi - continuarono ad essere "commessi gravi abusi", poiché "gli organi locali e i dirigenti aziendali ignoravano volontariamente le nuove disposizioni".
Il caso di Milano
Il 18 marzo del 1944, alla presenza del plenipotenziario Merkling e di monsignor Giordani, circa un migliaio di lavoratori lasciarono Milano per recarsi al lavoro in Germania. Nel dare notizia della partenza dello scaglione, La "Repubblica fascista" enfatizzò l'atmosfera di cameratismo che precedette il loro trasferimento. Quanti furono realmente i volontari è cosa impossibile da stabilire. Si tenga però conto che proprio in quei giorni, in conseguenza degli scioperi operai di marzo, centinaia di lavoratori milanesi furono arrestati e deportati verso i KZ mentre la volontà da parte della Rsi di concedere prontamente le quote di lavoratori richieste dal Reich per guadagnare un certo peso politico, trovava l'avallo dello stesso Mussolini con il telegramma precedentemente citato. Nei mesi seguenti i risultati del reclutamento nel capoluogo lombardo furono assai deludenti. Nell'aprile la Guardia Nazionale Repubblicana segnalava che solo il 20 percento dei lavoratori precettati aveva risposto alla chiamata, mentre a maggio fu lo stesso direttore provinciale dell'Unione sindacale a lamentare gli insuccessi per la chiamata delle classi 1914 e poi 1919, 1920 e 1921. Nella relazione avente per oggetto il richiamo della classe 1914 e inviata al capo della Provincia, il direttore provinciale si esprimeva nei seguenti termini:
"Segnalo che l'esito del richiamo è stato quasi negativo in quanto nei tre giorni stabiliti dal Ministero della Guerra si sono presentati soltanto 50 elementi, di cui 34 sono stati riformati per malattie veneree e T.B.C; 7 inviati all'ospedale militare di Baggio sotto rassegna e 9 idonei che sono in attesa di partire".
L'ostilità contro la politica della precettazione, oltre che costringere molti a darsi alla clandestinità e a collegarsi con le formazioni partigiane, fu anche all'origine di alcune vivaci proteste che culminarono in diversi scioperi nelle fabbriche della città e della provincia. Il reclutamento, del resto, era in alcuni casi osteggiato dalle stesse imprese che si vedevano sottrarre personale necessario alla propria attività. Il 23 marzo, ad esempio, fu richiesto alla ditta Pirelli di mettere a disposizione per il trasferimento in Germania il 20 percento degli operai, il 50 percento dei capi squadra e degli impiegati tecnici del ramo gomma. La richiesta rimase inascoltata, ma alla fine di maggio giunse una nuova domanda per 200 lavoratori, suddivisi fra operai e tecnici, del ramo conduttori elettrici. L'intervento di Alberto Pirelli riuscì prima a procrastinare la richiesta facendola slittare a fine giugno e poi ad annullarla completamente.
Sempre alla Pirelli non erano mancate neppure le cartoline precetto inviate a 54 operai e 2 tecnici che caddero nel vuoto solo grazie alle lunghe e delicate trattative condotte dai vertici aziendali. Di fronte a questi ostacoli il reclutamento fu portato avanti facendo leva da un lato su una martellante propaganda, dall'altro intervenendo con grande decisione. Il 30 maggio il Comando germanico, con il benestare del capo della Provincia, sollecitò il fermo di 57 operai della Edison di Melzo che non avevano risposto alla cartolina precetto. A tal fine furono date disposizioni per un'azione da svolgersi con "la massima energia" possibile.
Un sanitario avrebbe dovuto accertare sul luogo le condizioni dei lavoratori e coloro che fossero stati ritenuti idonei, sarebbero poi stati messi a disposizione dell'autorità germanica, gli altri invece avrebbero dovuto essere condotti a San Vittore per i provvedimenti relativi al reato di contravvenzione alla precettazione. Contemporaneamente il generale plenipotenziario della Wehrmacht, Toussaint, avanzò alcune proposte draconiane suggerendo l'introduzione della pena capitale, oltre che per disertori e renitenti, per tutti i sabotatori del reclutamento e invitò a compiere di sorpresa retate nei teatri, nei cinema e in tutti i luoghi di divertimento. A Milano la razzia indiscriminata ebbe il suo momento più significativo il 2 luglio quando 300 giovani, in occasione in un incontro di calcio, furono rastrellati all'Arena di Milano suscitando le vive proteste dello stesso capo della Provincia milanese. L'intervento di Parini non modificò certamente l'impostazione dei tedeschi che, tutt'al più, evitarono di ripetere azioni così clamorose.
Gli invii al Reimahg da Milano, fino al mese di luglio, rimasero assai limitati. Per mezzo dei fogli d'ingaggio conservati presso l'Archivio di Stato di Milano e poi incrociando i dati in possesso dell'associazione R&V con il data base dei lavoratori coatti dell'Archivio stesso, è stato possibile ottenere un primo elenco delle partenze dal capoluogo lombardo verso il Reimahg che ammonta a 152 persone. I trasferimenti, suddivisi per mese, sono riportati nel seguente specchietto riepilogativo:
PARTENZE PER IL REIMAHG DA MILANO |
Mese e anno | N° persone deportate |
Marzo '44 | 2 |
Aprile '44 | 6 |
Maggio '44 | 3 |
Giugno '44 | 0 |
Luglio'44 | 1 |
Agosto '44 | 107 |
Settembre'44 | 3 |
Ottobre '44 | 0 |
Novembre '44 | 28 |
Dicembre '44 | 0 |
Gennaio '45 | 1 |
Febbraio '45 | 1 |
Totale | 152 |
Anche per Milano, il momento cruciale risulta essere quello dell'estate e in particolare il mese di agosto dove sono concentrati il 70,4 percento dei trasferimenti. Per le partenze di questo mese possono essere inoltre individuati, in base alle distinte forme di reclutamento, almeno tre diversi gruppi di persone. Alcuni uomini furono direttamente prelevati sul luogo di lavoro o rastrellati casualmente. Emblematici, in proposito, sono due casi. Alchieri Felice, falegname impiegato presso la società Fratelli Negri, fu costretto assieme ai suoi colleghi a recarsi al Palazzo di Giustizia con la scusa di compiere dei lavori in loco. Fu invece trattenuto e selezionato per il lavoro in Germania.
Un cittadino di Casorate Primo, invece, fu trasferito dopo che i fascisti fermarono il pullmann con il quale si stava recando regolarmente al lavoro. Un secondo nucleo è costituito da un certo numero di persone che, rinchiuse al San Vittore per reati comuni o per altre infrazioni, furono deportate in osservanza del decreto svuota carceri varato nei mesi precedenti. Un terzo gruppo, composto da 38 uomini, era invece stato rastrellato il 21 luglio a Robecco sul Naviglio, un piccolo paese della provincia situato nelle vicinanze di Magenta. Nei pressi di Robecco, il 20 luglio, si era verificato uno scontro a fuoco fra alcuni membri delle nascenti Squadre d'azione patriottica e un maresciallo tedesco che fu colpito mortalmente. Lo stesso giorno furono fucilati sul posto, e bruciati in un cascinale, un partigiano rimasto ferito unitamente al padre e a un fratello. L'indomani uomini guidati da Saevcke e accompagnati da elementi della Legione autonoma Muti, circondarono il paese e trascinarono tutti gli abitanti in piazza. Qui furono fucilate ancora 5 persone, alcune abitazioni vennero date alle fiamme e circa una sessantina di uomini furono arrestati e tradotti al carcere di San Vittore. Un cittadino di Magenta ha ricordato i successivi giorni di prigione in questi termini:
"Noi siamo stati venti giorni al San Vittore, al sesto raggio dove c'erano quelli che chiamavano ex badogliani e deportati politici. Di notte si sentivano i catenacci delle carceri. Quando non sapevano dove andare a prendere da fucilare venivano lì al sesto raggio. Poi dopo, il giorno prima [di partire], ci han portato al quarto raggio sotto i fascisti. Li ci hanno passato la visita tutti e quelli che sono stati abili, perché da 58/60 siamo stati fatti [abili] 38, gli altri li han mandati a casa perché.per vecchiaia o perché della classe 1927 e non erano ancora di leva e.mandavano a casa."
Il giorno seguente la rappresaglia, il podestà di Robecco si rivolse alla Prefettura chiedendo che fossero rilasciati almeno gli uomini necessari alla conduzione delle aziende agricole. A tale richiesta il colonnello Rauff rispose al capo della Provincia Parini in termini sardonici dicendosi meravigliato dell'intervento del podestà che, a suo giudizio, era meritevole di essere inviato anch'egli al lavoro obbligatorio. Aggiungeva inoltre che per lui l'innocenza della popolazione era cosa "molto problematica" e, oltre a minacciare nuovi interventi in caso di altri disordini, affermava che gli arresti erano da ritenersi una misura punitiva che investiva colpevoli e innocenti senza eccezione di sorta.
I provvedimenti adottati nella circostanza dall'esercito d'occupazione furono dettati da una molteplice serie di ragioni. Il rastrellamento si svolse in una zona prevalentemente agricola dove il movimento partigiano, pur stentando ad affermarsi, si stava organizzando e mostrava segni di crescita. Ma le autorità germaniche erano anche preoccupante per i risultati non incoraggianti ottenuti nelle campagne dalla politica degli ammassi. In un rapporto del comando militare tedesco, datato 13 agosto 1944, era infatti sottolineata come degna di nota sia l'azione di disturbo svolta dalle bande, sia gli scarsi risultati ottenuti che erano ben lontani da quelli dell'anno precedente. In secondo luogo, sempre secondo i rapporti tedeschi, nel mese di luglio solo il 9 percento dei precettati si era regolarmente presentato e di questi ben il 47 percento era stato giudicato non idoneo per il lavoro in Germania. L'intervento del 21 luglio, così, da un lato era volto a colpire le nascenti formazioni della zona, dall'altro puntava al conseguimento di precisi obiettivi economici: la protezione dei raccolti e il reclutamento coatto di lavoratori. Quest'ultimo tanto più necessario per via dei costanti fallimenti in cui si era imbattuta la politica di approvvigionamento di forza lavoro. I ritenuti abili al lavoro partirono dallo scalo Farini il 9 agosto e arrivarono a Kahla quattro giorni più tardi.
Fra settembre e ottobre si registrano per il Reimahg solo altre 3 partenze. Un altro nucleo consistente, invece, fu deportato a novembre e fu prelevato dalla fabbrica Pirelli. Dopo gli scioperi del marzo 1944, la classe operaia milanese attraversò un lungo periodo nel quale ignorò il "protrarsi delle tensione sul fronte delle lotte operaie" che continuò a caratterizzare centri come Genova o Torino. Le agitazioni operaie a Milano ripresero con un certo vigore dopo la metà di settembre.
Nel corso dei due mesi successivi non mancò giorno ove non si registrasse il blocco parziale in qualche grande fabbrica anche se, le proteste, erano ben lontane dall'assumere le dimensioni registrate nel corso dell'autunno-inverno precedente. Si arrivò comunque alla proclamazione dello sciopero generale che scattò il 23 novembre. Alla Pirelli il segnale per il via dell'agitazione fu dato dallo squillo delle suonerie dello stabilimento e il lavoro fu fermato per un'ora. L'intervento dei reparti SS, guidati anche in questo caso da Saevcke, fu immediato e deciso risolvendosi nell'arresto di 183 operai non tutti, fra l'altro, coinvolti nell'agitazione. Come ebbe a ricordare un ex deportato nell'immediato dopoguerra, nello stabilimento si scatenò una vera e propria caccia all'uomo:
"Ero presso un tornio quando vidi entrare in officina un ufficiale tedesco ed altri armati di mitra. L'ufficiale si diresse verso il mio posto di lavoro, mi squadrò con occhi torvi e mitra puntato, mi spinse verso il centro dell'officina dove stavano già alcuni compagni vigilati da tedeschi e da un traditore in abito civile. [.] Vidi prendere così a caso altri operai e avviarli con la persuasione del mitra verso di noi; poi ci raggrupparono per avviarci fuori dal reparto in una via centrale dello stabilimento dove ci misero ad altri già schierati a ridosso di un muro. Assistemmo alla caccia all'uomo".
Nei giorni seguenti inutili furono i tentativi di Alberto Pirelli e della dirigenza dello stabilimento che, per ottenere il rilascio degli arrestati, insistettero cercando di far leva sull'argomento delle necessità produttive. I vertici tedeschi rifiutarono qualsiasi compromesso e, oltre ad accusare lo stesso Pirelli di "tolleranza e connivenza con gli scioperanti", minacciarono, come consuetudine, azioni ancora più pesanti nel caso di ulteriori agitazioni. Solo 16 operai, scartati per via dell'età, scamparono alla deportazione mentre tutti gli altri, il 27 novembre, partirono dallo Scalo Farini. Giunti a Erfurt furono poi smistati e 27 di loro finirono al Reimahg. Di questo gruppo faceva parte anche l'operaio Gervasoni Francesco che, a Milano, riuscì a lanciare un biglietto con un messaggio alla moglie: "Cara Maria io parto per il mio destino. Auguri (a) te (e) ai bambini". Morirà a Khala il 20 febbraio del 1945 .
Lo sviluppo dei lavori a Kahla e le condizioni dei deportati
Nel luglio '44, nonostante le realizzazioni fossero già allora imponenti, Sauckel impartì una disposizione affinché i lavori nel Reimahg "procedessero il più celermente possibile senza
scrupoli di sorta". Dall'11 aprile 1944, data di apertura del campo, al momento della liberazione furono realizzati 40 tunnel dalla lunghezza di 400 metri, 72 che raggiungevano la lunghezza complessiva di 32 chilometri, 7 capannoni per una superficie totale di 16 mila metri quadrati e 4 bunker da 2 mila metri quadrati l'uno con muri in cemento armato. Nel mese di giugno era inoltre stata avviata la costruzione della pista di lancio, 33 metri per 1.100 di lunghezza, collegata ad una ferrovia a cremagliera per il trasporto in superficie di un aereo completo. Dopo la fase iniziale nella quale era necessaria soprattutto manodopera generica, a settembre cominciò ad aumentare rapidamente il numero della componente operaia e, unitamente, avvennero i trasferimenti delle fabbriche nelle gallerie sotterranee. A novembre il complesso del Reimahg era composto da 10 lager principali e, a fianco dei campi per i lavoratori forzati, sorsero contemporaneamente un campo per la Gioventù hitleriana, un campo per le SS volontarie ed infine un lager di punizione.
Nel novembre '44
il complesso
del Reimahg
era composto da 10
lager principali |
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Il primo campo in ordine di tempo sorto a Kahla fu il Rosengarten dal quale dipendevano altre strutture situate a Bibra, Riesneck ed Eichenberg. I campi 1, 2 e 3 erano situati a sud di Kahla. Il lager 1 era quello più prossimo alla collina del Walpersberg ed era suddiviso su tre livelli: in alto vi erano le baracche comando e logistiche, ai lati gli alloggi delle SS e verso il basso tutte le baracche dei lavoratori forzati. Verso la fine della guerra il campo fu sgombrato per servire da centro di raccolta per quanti intendevano arruolarsi nelle truppe d'assalto. I lager 2 e 3 erano posti invece ai piedi di una seconda collina. Il numero 2, composto da 23 baracche, fu occupato da prigionieri prevalentemente di nazionalità russa e polacca. A sud est, nel triangolo fra le località di Klein-Eutersdorf, Linding e Schmolln, erano situati i campi 4, 5, 6 e 7. Gli italiani furono prevalentemente concentrati nel lager 5 e 6. Il primo di questi due, comunque, fu ultimato solo nel settembre del 1944. Il campo numero 7, soprannominato dai deportati lager dei morti per via dell'alto tasso di mortalità che si registrò nel corso dell'inverno, era invece riservato ai prigionieri di guerra e lì furono destinati gli Imi anche se poi, con lo sgombero del lager 1, vi giunsero anche civili italiani.
Il lager E sorse nelle vicinanze di Eichenberg ed era un campo di rieducazione al lavoro, composto da 13 baracche, dove venivano inviati quei lavoratori accusati di non produrre sufficientemente. Qui le possibilità di sopravvivenza erano quasi nulle. Nei suoi pressi aveva sede anche il terribile Lager 0, ossia il campo di punizione gestito direttamente dalle SS. Queste erano le strutture principali, ma le località e i luoghi di prigionia furono molto più numerosi. I campi per i coscritti tedeschi sorsero invece ad ovest di Kahla e, rispetto ai quattro previsti, ne furono realizzati solo due. Un terzo, nella primavera del 1945, era in fase di ultimazione. Nel settembre del 1944, infine, ad Hummelshain furono avvitati i lavori per la costruzione dell'ospedale. Per i ricoveri fu sfruttata una parte del castello della cittadina e furono costruite 6 baracche, ognuna con una capacità di 89 letti. A novembre vi giunsero i primi malati e, dal dicembre 1944 al luglio successivo, vi furono ricoverate 1.088 persone. E' bene precisare, comunque, che nessun lager prima dell'arrivo dei deportati era di fatto ultimato. Nei primi mesi, nelle baracche, mancavano persino i letti e i lavoratori forzati furono costretti a dormire per terra su della paglia oppure sulla segatura.
Mancavano inoltre le più elementari strutture igieniche e pertanto, fin dall'inizio, i prigionieri del Reimahg conobbero il degrado e l'abbruttimento personale. Come è facile comprendere erano condizioni che, oltre che sul piano strettamente materiale, colpivano duramente i deportati anche nello spirito minando fin dall'inizio la loro capacità di resistere in un ambiente loro ostile. Quanti furono rastrellati subirono una prima selezione in carcere o nei diversi luoghi adibiti dai tedeschi a centri di raccolta e di smistamento. Gli uomini erano scelti in base all'età, alla loro salute, alla potenzialità economica. Le selezioni erano condotte da medici tedeschi, ma anche da italiani, e puntualmente compariva il foglio d'ingaggio, che era impossibile rifiutarsi di firmare, e che suonava come uno scherno perché attestava la volontarietà del trasferimento nel Reich. "Un bel mattino ci hanno detto di andare a passar la visita, ho passato la visita, lì, han visto quelli da scartare, tutti troppo giovani [.] Quelli che han scelto, siamo andati in Germania" (O.R.). "Qui fu effettuato su tutti un controllo sanitario da parte di un medico tedesco ed uno fascista. [.] Tra l'altro ci fanno firmare in bianco un contratto di lavoro, quale volontari per la Germania e ci sembra di avere il danno e le beffe" (G.C.). Nel corso dei trasferimenti le fughe non furono un fatto raro anche se molti non colsero tale opportunità sia per timore di eventuali rappresaglie sui familiari, sia perché era loro impossibile immaginare la realtà con la quale avrebbero dovuto presto confrontarsi:
"Noi eravamo giovani, non vedevamo il pericolo, perché se sapevo a quello che andavo incontro mi facevo fucilare, ma non andare in Germania!" (M.A). Più il viaggio proseguiva e più i deportati si rendevano conto di essere diventati ormai semplice merce umana: "Ricordo che da Monaco ci spedirono come merce, con un grande indirizzo scritto in gesso sul vagone" (F.M.). Giunti in Germania furono poi sottoposti ad un'ulteriore selezione, condotta dai diversi capi azienda che si procuravano manodopera, secondo metodi che ricordano le pratiche schiaviste: "Ci fanno rimanere in fila mentre passa tra noi un tedesco, poi un altro e tutti ci toccano, ci sentivano i muscoli, le gambe, la bocca proprio come al mercato dei cavalli" (M.B.). "Fummo [.] venduti come al mercato ad un'impresa che ci rilevò come manovali addetti agli scavi di gallerie dentro una montagna" (ROB). Inizialmente i lavoratori furono impiegati in tutte quelle opere necessarie al funzionamento del complesso come la costruzione delle baracche, delle strade e degli alloggi per il personale tedesco. Poi furono avviate le attività per sfruttare al meglio la collina di Walpersberg dove dovevano essere allocate le fabbriche sotterranee. Uno dei lavori più pesanti cui furono utilizzati i deportati fu il livellamento della collina in modo da creare una pista di lancio per il decollo degli aerei: "Siamo in tanti, una moltitudine, forse più di mille persone. Il nostro primo lavoro è stato l'abbattimento degli alberi (betulle?), tutto manualmente senza seghe a motore o altri mezzi meccanici. Delle squadre sono addette all'abbattimento degli alberi, che vengono segati alla base da due persone; altri lavoratori stendono le piante abbattute e staccano i rami, altra gente sega i tronchi in pezzi di circa 2 metri di lunghezza" (B.B.).
Il progetto, avviato in estate, proseguì per tutto l'inverno quando la spianata dovette poi essere asfaltata: "Sentivo sulla collina che sovrastava il nostro lager, il cupo rombo delle betoniere che sfornavano notte e giorno il calcestruzzo che serviva per la gettata della pista" (B.F.). Molti lavoratori erano contemporaneamente impiegati in galleria dove avrebbero dovuto essere prodotti in serie gli apparecchi: "Appena arrivati a Kahla fummo sistemati in un gruppo di case di campagna in una frazione vicina e andavamo a lavorare nelle gallerie ed a mano a mano che si avanzava, portavamo indietro il materiale per farne dei blocchi di cemento" ( L.C.). I progetti tedeschi, per chi ebbe l'opportunità di conoscerli e di comprenderli, furono accolti con grande incredulità: "Mi dicono: 'Qui vogliono fare uno stabilimento, tutto sotto la collina [.] per gli aerei a reazione e mi dice il tedesco: 'Apparecchi senza l'elica'. Noi abbiamo detto: 'Voi siete matti'. E lì dopo abbiam cominciato a forare tutta la collina [.] abbiam fatto cinquanta chilometri di gallerie [.] e lì hanno fatto dentro tutte le loro belle stanze, i bei corridoi, dove lavoravano il materiale per gli apparecchi a reazione. Venivan fuori con la fusoliera, già montati con tutto il pezzo" (G.S.).
I turni di lavoro duravano dodici ore, a ciclo continuo, dalle 6 di mattino alle 18 di sera e viceversa. La giornata, però, aveva inizio qualche ora prima con la sveglia e il trasferimento in colonna dei lavoratori forzati: "Il mattino si andava a lavorare alle 6, ma alle 4 del mattino c'era già la sveglia. Si andava a lavorare con la coperta che avevamo da dormire in spalla con un chiodo per tenerla chiusa. Zoccoli di legno con le calze tutte stracciate..si prendeva un po' della carta dei sacchetti di cemento di là, che ce ne era una montagna, e si faceva su sui piedi" (M.A.). A sorvegliarli vi era la gioventù hitleriana ma, molto più frequentemente, il compito era assolto dai componenti della Volkstrum, una milizia popolare costituita da ex militari in congedo: "I nostri guardiani erano quasi tutti civili sui sessant'anni e oltre. Ben pasciuti, ben vestiti, ben rasati, con baffi curati, talvolta anche d'aspetto signorile. Ma questo non impediva loro di bastonarci quando lavoravamo fiaccamente" (F.G.). Con l'approssimarsi dell'inverno i deportati dovettero affrontare un nuovo nemico, il freddo, dal quale pochi di loro avevano la possibilità di difendersi. Molti, infatti, deportati durante l'estate giunsero a Kahla solo con i leggeri indumenti che avevano indosso al momento della cattura: "Quanto al vestiario non ci diedero mai niente e tornammo a casa con gli stessi abiti con cui eravamo partiti, dopo 9 mesi di tremendo lavoro in galleria" (F.M.) "Giunti nel lager ci hanno forniti un paio di zoccoli di legno ed una specie di tuta a due pezzi, nient'altro" (D.A.).
"La mia camicia era di carta, un sacco di cemento, un buco e faceva da camicia se nò si gelava" (L.P). "Ho passato sei mesi senza potermi cambiare gli abiti, e ai piedi avevamo un paio di zoccoli di legno. C'erano pidocchi e sporcizia dappertutto e inoltre ci picchiavano sempre" (P.C). L'unica possibilità per alleviare le proprie condizioni era quella di cercare aiuto presso la popolazione locale, la quale diventò un appiglio fondamentale per continuare a resistere: "Io frequentai un sarto (.) il quale aveva due figli sposati in guerra e che mi confezionò un paio di pantaloni e mi dimostrò più volte la sua simpatia e solidarietà, piccole cose importanti nella vita di un prigioniero" (L.C.). Il lavoro, già di per sé duro, "Eh, pala e picco, sempre quello" (G.G), diventava ancora più pesante per via delle ridotte razioni alimentari, per i lunghi tragitti che dovevano essere compiuti dai lager alle diverse fabbriche e perché era puntualmente accompagnato da continue minacce e violenze: "Non si poteva fare il lavoro pesante: non mi davano da mangiare!" (O.R.). "Facevamo circa dieci chilometri dalle baracche alle montagne, a piedi e noi, lì a scavare le gallerie, perché sotto dovevamo fare le officine. Tutto con picco e pala. Niente macchine scavatrici (.) Il piccone mi cadeva sulla terra. Non lo picchiavo io sulla terra. Non avevo più forze. Io andavo dietro al piccone, non che io lo comandavo. E di dietro sempre quelli con il legno a picchiarti" (P.L).
"Portavamo su dei sacchetti di cemento su per la montagna, ci mettevano tutti in fila con i sacchetti in spalla e poi c'era dei bambini, io dico, con dei fucili, se ti fermavi ti bastonavano" (A.V.). "Deportato a Rodulstadt, fui impiegato in lavori di muratura nel Reimahg. Era nostro capo un civile ben prestante, senza un braccio e solito a dare manrovesci senza misericordia e senza alcuna ragione" (A.R.). "Come primo lavoro ci impiegano a stendere i fili di una linea elettrica lungo il ripido pendio di una montagna: a chi cadeva anziché un mestolo d'acqua veniva data una bastonata" (F.M). Il clima di violenza e di paura accompagnava i deportati lungo il corso dell'intera giornata partendo fin dall'attimo della sveglia mattutina e non arrestandosi neppure nelle ore del sonno: "C'era questo salone, poi c'era una scala in legno con un palchetto e poi c'erano delle camere lì in alto dove dormiva il tedesco di guardia e il cuoco. Veniva, apriva la porta una volta, la seconda volta si sentiva già dalla scala con in mano il frustino. Quelli che erano ancora in branda lì, venivano frustati, ma frustavano della gente che era là morta in branda eh! Una roba bestiale. Alla una di notte venivano dentro "aufsthen aufsthen", il mese di gennaio che faceva un freddo da cani e svestiti bisognava correre fuori perché loro dovevano fare la perquisizione" (M.A.).
"Non ha resistito.
continuavamo
a dirglielo.
troppo poco
da mangiare.
lui portava
i ferri nelle gallerie..." |
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Con il procedere dei mesi le condizioni infernali cui erano sottoposti i lavoratori forzati conobbero un costante peggioramento. Le razioni alimentari furono progressivamente ridotte mentre chi non era sfruttato in galleria era costretto a lavorare a prescindere da qualsiasi condizione climatica: "Durante le dodici ore di vita all'aperto prendevamo tutto quello che cadeva dal cielo. L'indomani mattina indossavamo i panni bagnati" (F.G.). La morte diventò un episodio della vita quotidiana così familiare quasi da non suscitare più alcuna emozione e venendo accolta, a volte, come una liberazione: "La morte divenne per noi un'abitudine, un fatto quotidiano" (ROB). "Ci eravamo ridotti così male, che pensavamo che non veniva a casa nessuno [.] Perché ormai non si sperava più, tutti quei morti lì.Ma morivano senza dir niente! Come, come si addormentavano, erano là e pace, non che soffrivano, perché erano proprio sfiniti" (O.R). " Era una morte dolce: quando il sangue diventava acqua, il cuore non aveva la forza di battere e si restava lì . non parlava e restava lì" (O.O). "Muoiono dai 10 ai 15 italiani al giorno, oltre a francesi, belgi, russi, e non solo di malattia, ma si spengono così come una candela che non ha più stoppino" (C.S).
"I morti sul lavoro erano sepolti in un boschetto presso le gallerie; quelli più numerosi che morivano nei lager, erano caricati su dei camions e portati non so dove (L.C.). Con il procedere dei mesi era sempre più difficile trovare la forza di resistere, rinvenire una ragione per vivere; molti erano ormai stati privati sia delle energie fisiche, sia di quelle mentali per poter reagire: "Non ha resistito.continuavamo a dirglielo.troppo poco da mangiare.lui portava i ferri nelle gallerie; nella galleria c'era caldo.poco da mangiare.lui si acquattava lì.[.] Si era consumato, ecco. Non si era dato da fare, non aveva tentato di.bisognava reagire, bisognava dirsi: 'Morire ad un modo, morire ad un altro, rischierò magari di prendere una schioppettata, ma piuttosto di star qui per farmi buttare via'.perché ormai la speranza di venire a casa non c'era più" (A.B.). Al lavoro massacrante, al cinismo delle guardie e alla perdita dei propri compagni di prigionia si deve poi aggiungere la continua pressione della fame, argomento che sembra annullare tutti gli altri: "Si aveva solo il mangiare nella testa. Baracca e lavoro, baracca e lavoro: l'unico pensiero era come trovare da mangiare" (E.Z.). " Sono le 9 del mattino e ho già mangiato tutto il pane di oggi. Ho fame qui. (.) Qui tutti hanno fame, anche quelli che trafficano con sigarette o altro, anche quelli che riescono ad avere qualcosa in più di noi, anche quelli muoiono di fame" (C.S).
Le razioni alimentari erano strettamente legate al lavoro. Solo partecipandovi, infatti, si aveva diritto ad un "buono pasto" che permetteva di riscuotere la razione giornaliera. Come ogni altro momento della vita del lager, anche questo passaggio era segnato dalla sofferenza e della fatica: "Veniva consegnato un bollino al giorno, sul lavoro, con il quale la sera si aveva diritto a cento grammi di pane a un mestolo di minestra e brodaglia che usciva da un rubinetto. Prima di avere da mangiare bisognava fare una fila di una o più ore al freddo. Se non si andava a lavorare non si mangiava" (P.C.). "E quando, passando davanti all'addetto alla distribuzione, ci raccomandavamo che con il mestolo pescasse nel fondo dei recipienti nell'illusione che qualcosa di più denso finisse nella nostra ciotola, se lo sgherro presente s'accorgeva della nostra implorazione, un tremendo colpo di bastone cadeva sulle nostre spalle e spesso ci faceva versare anche quel po' di liquido che avevamo appena ricevuto" (B.F.). "Un pane di quelli eravamo arrivati a dividerlo in 8, era una volta al giorno ehhh! Con una scodella di brodo che c'era dentro 4 peli di rapa e di orze. Le patate non esistevano, la pasta si vedeva qualche maccherone quando c'era qualche novità, se no niente" (M.A). "Il cibo era scarso e cattivo, qualcosa specie birra o limonata, trovevamo nelle osterie e qualche aiuto nelle case od in campagna" (M.C.).
"Mangiare, pochissimo, si mangiava una volta al giorno e ogni mese calavano il mangiare. Siamo arrivati al punto di dividerci un panino.Un panino!" (O.R.). "Il pane se così si poteva chiamare, era composto da circa 50 e anche 60% di segatura di pioppo, poi da un po' di farina di segale e da altra farina di chissà quale tipo; quasi sempre era ammuffito alle estremità, perciò era difficile la spartizione" (B.B). Ammalarsi ed essere ricoverati in infermeria significa non ricevere il buono e diminuire così le già esigue possibilità di sopravvivenza: "Eravamo in 137, siamo rimasti in 35 che non avevamo ancora chiamato l'infermeria, perché in infermeria ti dimezzavano [le razioni]" (M.A.). "Sono andato in infermeria. (.) Appena sono migliorato mi hanno rimandato in baracca, ma con metà razione non si guariva, si moriva nella convalescenza" (O.O.). Del resto nelle baracche il capocampo aveva fatto scrivere in più lingue la frase "Chi non lavora non mangia". A differenza di ciò che avveniva nei KZ i deportati avevano nei campi di lavoro una certa possibilità di movimento. Ciò favoriva il contatto con i cittadini locali e, a quanti riuscivano a trovare ancora un minimo di forze, permetteva loro di scambiare ulteriore lavoro con del cibo: "Abbiamo visto in quel paese lì un contadino che stava attaccando i buoi al carro e quando ci ha visti mi ha detto: 'Italiani?' E noi gli abbiamo detto se si poteva lavorare. M'ha detto: 'Komme'. Siamo andati là e c'ha ospitato. Quello lì era un prigioniero della 15-18 che è stato in Italia e ha detto: 'Gli italiani mi hanno aiutato e io voglio fare altrettanto'.[.] Lì siamo andati nei campi, era il mese di ottobre, a raccogliere le patate e ha cominciato a darci da mangiare e si è affezionato a noi e voleva che andavamo là, ma fino a quando abbiam potuto (M.A.). "Qualche aiuto lo cercavamo nei campi (frutta e patate) od in paese (birra) dove, specie nei primi tempi, liberi dal turno di lavoro potevamo recarci" (L.C).
"Nelle ore libere dal lavoro prestai la mia opera anche in una famiglia di Kahla [.] Lavoravo in campagna mi davano da mangiare patate e the" (O.F.). Ci furono anche casi di cittadini del luogo che, mossi da un profondo senso di solidarietà, soccorsero i prigionieri senza chiedere nulla in cambio. Una coppia, incontrato un giovane diciassettenne allo stremo delle forze, dopo avergli rivolto alcune domande si offrì di dargli da mangiare. Il giorno dopo il giovane si precipitò presso l'abitazione che gli era stata indicata: "Mi accolsero con un amorevole sorriso. Mangiai. Due giorni dopo stessa operazione.e poi di nuovo" (F.G.). Per porre fine ai morsi della fame si ricorreva però a qualsiasi espediente, come quello di andare a rovistare nell'immondizia, accontentandosi anche degli scarti che diventavano una vera manna: "Se no andavamo a catar su le pelli di patate dalla rumenta, le lavava e le facevamo bollire, se no si mangiava l'erba come le pecore" (S.S.).
"Erano buone anche le bucce di patate dove c'era su un po' di roba. E dopo c'era quel Rossi Oreste che faceva l'elettricista: con un bidone e con dei fili si attaccava la corrente e faceva bollire l'acqua e le facevamo cuocere" (M.A.). Prestare lavoro supplementare, cercare in qualsiasi modo il cibo raccattandolo o ricorrendo anche al furto, godere dell'aiuto della popolazione locale, erano comportamenti che potevano costare cari ed essere pagati con la vita oppure determinare punizioni collettive. In seguito all'allontanamento di due lavoratori che erano andati in cerca di cibo, per alcune sere tutti i prigionieri di una baracca furono costretti a "trasportare sacchetti di sabbia da un fiume al campo e dal campo al fiume senza scopo" (P.C).
Un altro deportato, sorpreso a recuperare una rapa nell'immondizia, con altri quattro compagni "fu messo a scavare grosse buche nel terreno, per poi riempirle di nuovo, per poi scavare ancora, all'infinito, senza mai alzare la testa" (B.B.). Queste punizioni non erano mirate né ad aumentare la produttività né ad una eventuale "rieducazione" del prigioniero: erano assolutamente gratuite e sganciate da qualsiasi logica finalizzata al perseguimento di un determinato obiettivo economico. Il fine era semplicemente quello di annientare l'uomo senza badare, una volta privatolo della sua dignità, neppure alla sua eventuale utilità come lavoratore. Nel Reimahg, del resto, nonostante gli obbiettivi da raggiungere, l'utilizzo della forza lavoro fu sempre caratterizzata da un atteggiamento antieconomico. Le disastrose condizioni a cui furono sottoposti i prigionieri, infatti, fecero sì che per compiere alcuni lavori fosse necessario un tempo ben 4 volte superiore rispetto a quello richiesto normalmente per compiere tali operazioni.
La punizione peggiore era però quella che prevedeva l'assegnazione alla compagnia di disciplina. Nel Reimahg, come si è detto, non mancava neppure questa ed esservi inviati significava sobbarcarsi lavori estenuanti ai quali non si riusciva a sopravvivere più di poche settimane. Oppure i deportati rischiavano di essere rinchiusi nel Lager 0, vero e proprio campo di punizione comandato dalle SS. Lì "buttavano l'acqua fredda addosso, aizzavano cani contro, non si salvava quasi nessuno di chi entrava" (O.O.). Quanti ritornarono erano minati irrimediabilmente da quell'esperienza: "E' ridotto come uno straccio: magrissimo, stracciato, affamato, le braccia, le gambe, il sedere pieni di ferite dovute ai morsi dei cani lupo; è miracolosamente salvo perché da quell'inferno non si ritorna vivi, oppure si impazzisce".
Un'altra testimonianza: "Da certe sue frasi riuscimmo a sapere che era stato picchiato e poi rinchiuso in un serraglio con dei cani. Per mangiare doveva lottare con gli animali cercando di rubare loro il cibo. Così veniva continuamente morsicato" (ROB).
I tentativi di strage
All'inizio del 1945 i primi Me 262 presero il volo da Kahla. "I primi li abbiam visti partire.era febbraio, gennaio, febbraio del '45 . è partito il primo. (.) "Abbiam visto distaccarsi un'ala, c'è stata una fiammata (.), si vede che non hanno calcolato bene la potenza, che lì l'han portata a novecento all'ora di velocità, insomma l'ala si è distaccata.il pilota è morto subito di sicuro". (G.S) " Era un giorno di sole, ricordo bene; si sentì un forte sibilo e noi che eravamo sotto, al di fuori delle gallerie vedemmo sbucare dalla cima della montagna e volare come un razzo, il nuovo aereo a reazione" (B.B). "Fu uno spettacolo
A Kahla,
nonostante
lo sfruttamento
sfrenato di 15 mila
lavoratori, furono
prodotti dai 26 ai 40
aerei a reazione |
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indescrivibile; i tedeschi sembravano impazziti di gioia, una delle tanto attese armi segrete era orami una realtà (B.F.). A Kahla, nonostante lo sfruttamento sfrenato di 15 mila lavoratori, furono prodotti dai 26 ai 40 aerei a reazione. L'arma segreta del Reich era costata sofferenze inaudite, migliaia di vite spezzate ed era rimasta ben lontana dal poter cambiare le sorti del conflitto. Prima della fine della guerra, affinché non rimanessero tracce di quello che era stato fatto negli ultimi dodici mesi, i vertici del complesso del Reimahg ricevettero un ultimo terribile ordine: era necessario eliminare tutti i prigionieri. Due furono i tentativi che fortunatamente non andarono in porto. L'idea iniziale fu quella di uccidere tutti i deportati avvelenandoli, ma il progetto sfumò perché il farmacista di Kahla si rifiutò di prestarsi a tale disegno.
Al responsabile della milizia popolare giunse quindi l'ordine di condurre i prigionieri nelle gallerie che avrebbero dovuto poi essere minate e fatte saltare. La fine della guerra era però imminente: il comandante Georg Potzler non eseguì l'ordine e, a quel punto, ebbero inizio le marce di trasferimento che costarono ulteriori perdite di vite umane. Ad un anno esatto dalla sua nascita il complesso fu liberato dall'arrivo delle truppe americane. La sua esistenza era stata rilevata dagli alleati già nel corso dell'agosto del 1944. A quella data, infatti, risale la prima ricognizione fotografica cui fecero seguito controlli dal cielo eseguiti ad intervalli regolari. Nel frattempo era già all'opera una squadra di esperti, sotto la direzione del colonnello Harold Watson, appositamente creata per dare la caccia, nei territori liberati dall'avanzata americana, ai documenti e alle realizzazioni della Luftwaffe.
L'operazione, denominata in codice Lusty - LUftwaffe Secret TecnologY - aveva fra le sue priorità proprio il recupero dei caccia a reazione Me 262. Diversi di questi apparecchi furono effettivamente catturati a Lechfeld e, dopo essere stati portati in volo in Francia, i primi giorni del mese di luglio erano pronti per essere imbarcati e trasferiti negli Stati Uniti. Nello stesso momento l'intera zona passò sotto il controllo sovietico e fu dichiarata zona militare. I sopravvissuti del Reimahg, intanto, avevano cominciato il loro travagliato ritorno in patria portandosi dentro un dolore che li avrebbe accompagnati per tutta la vita e che sarà acuito dal silenzio delle autorità e dal non riconoscimento di tutte le sofferenze patite.
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BIBLIOGRAFIA
- Al lavoro nella Germania di Hitler: racconti e memorie dell'emigrazione italiana. 1937-1945, di C.Bermani - Bollati Boringhieri, Torino 1998.
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SITI INTERNET CONSULTATI
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