Il 18 marzo la bandiera rossa sventola sull'Hotel de Ville: è l'inizio
simbolico della Comune, della ribellione, del primo governo popolare e operaio
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1871: TREMANO I TIRANNI EUROPEI.
DA PARIGI VENTO DI RIVOLUZIONE
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Il 18 marzo 1871 la bandiera rossa sventola sull'Hotel de Ville a Parigi: è l'inizio simbolico della Comune, del primo governo rivoluzionario popolare e operaio. Una esperienza di effimera durata (marzo-giugno 1871) capace comunque di rappresentare una tappa fondamentale, un riferimento duraturo, del movimento operaio e di spaventare a morte la classe borghese europea che reagisce con spietata violenza all'emergere prorompente della lotta di classe. Non dimentichiamo che di fronte a sé aveva costituirsi nel 1869 l'Associazione Internazionale dei lavoratori. Ma quale è stato il crimine dei comunardi? La costituzione di un composito fronte popolare tra operai e piccola borghesia (tra diseredati come amavano definirsi), entrambi vittime della guerra, che spinge per la costituzione di una repubblica socialmente avanzata (una socialdemocrazia diremmo oggi), con pane e lavoro per tutti, come viatico all'emancipazione del lavoro.
Questo articolo si propone di mettere in evidenza la duplicità del messaggio comunardo, il passaggio dalla insurrezione patriottica alla rivoluzione sociale, e la "criminalizzazione" e la "disumanizzazione" dell'avversario operata dalla borghesia conservatrice e reazionaria per giustificare la repressione.
Un duplice messaggio
Insieme alla ribellione di Spartaco, la Comune di Parigi è parte integrante della memoria storica e simbolica del movimento operaio, nelle sue componenti anarchica, socialista e comunista, indipendentemente dalle divergenti interpretazioni. Una vicenda storica che travalica il suo tempo per farsi anche meta-storica nel suo presentarsi come simbolo di ribellione e messaggio di speranza per i vinti e gli sfruttati. Per la prima volta, infatti, i lavoratori, la plebe, prendono il potere, entrano nella stanza dei bottoni e assaporano l’ebbrezza dell’autogoverno e della liberazione. Diventa un messaggio che vola sopra le difficoltà e le contraddizioni di quell’esperimento e che sopravvive al bagno di sangue della repressione più spietata. Esemplicative sono le parole del “Gazzettino rosa”, periodico vicino al nascente socialismo italiano e contemporaneo agli eventi: “Sola la rivoluzione del 18 marzo di Parigi ha dato l’iniziativa di una grande idea destinata, noi crediamo, a riscattare i popoli da tutte le tirannidi economiche e politiche”. Come comprendere altrimenti l’afflusso di numerosi volontari da tutta Europa? Fin da subito, quindi, la Comune va oltre i confini francesi, assume una portata internazionale.
Ma vicenda dai risvolti internazionali lo è anche in un altro senso. Oltre a messaggio di speranza fu anche campanello d’allarme, vero e proprio spauracchio per le classi dirigenti europee. Con gli occhi spauriti la borghesia assiste alla più seria minaccia al proprio potere e comprende subito la pericolosità dell’esempio comunardo. Teme che il contagio si diffonda oltre i confini francesi e reagisce militarmente e culturalmente senza mezzi termini. La stampa accusa i comunardi di voler instaurare il comunismo, di espropriare i ricchi, di massacrare gli oppositori in un’orgia di sangue e di aprire le porte al caos ispirati, ovviamente, dall’Internazionale. L’obiettivo è chiaro: i ribelli devono essere espulsi dal consorzio umano e rappresentati come l’antitesi della civiltà. Basti pensare, ad esempio, alla conservatrice “Perseveranza” di Milano che descrive i ribelli come una “brodaglia” che è “immemore d’ogni affetto di patria, pazza di furore, avida di lutti, insofferente di freni, invidiosa, pervertita”, e l’Internazionale come “una setta che distende le sue fila per tutte le società d’Europa e che lega dentro di esse le classi operaie delle principali città industriali al di là e al di qua dei monti”.
Il pericolo quindi non è solo francese, ma di tutta Europa. Thiers, a capo dell’esecutivo francese in lotta con la Comune, prega Bismarck “a nome della causa dell’Ordine di lasciar compiere a noi la repressione del brigantaggio antisociale che ha preso sede a Parigi”. Quanto mai reali suonano, quindi, le parole che Brecht mette in bocca a Bismarck, a colloquio con il ministro francese Favre, nell’opera “I giorni della Comune”: “Ammainate una volta per tutte quella bandiera rossa dal Municipio! Quella porcheria m’è già costata più d’una notte in bianco: è un maledetto esempio per l’Europa. Bisogna estirparla come Sodoma e Gomorra, con la pece e lo zolfo”.
Su questo sfondo e sulla base della comune difesa della civiltà nel 1873, due anni dopo la grande paura, viene siglata da Austria, Germania e Russia la Lega dei Tre Imperatori con lo scopo, tra gli altri, di evitare la ricomparsa di altre simili ribellioni.
Una città ribelle e divisa
Parigi, città della Rivoluzione per antonomasia. Città in eterna ebollizione da tenere sotto tutela. Dal 1794, anno della fine della prima comune rivoluzionaria, non ha infatti diritti: invece che ad un sindaco, l’amministrazione è affidata ad un prefetto di nomina governativa che gestisce il budget, i lavori pubblici e controlla istruzione e pubblica assistenza. Il consiglio comunale ha solo potere consultivo e tutte le autorità locali, consiglieri comunali compresi, sono di nomina governativa.
Parigi è anche, e soprattutto, una città divisa. Negli anni del Secondo Impero una netta divisione geografica e sociale separa la Parigi popolare, la più numerosa, da quella dei ricchi borghesi e del potere. I ceti popolari (salariati di fabbriche e ateliers, artigiani e piccoli commercianti), pericolosi per definizione, si trovano soprattutto nella periferia che circonda Parigi da nord-est a sud. I ricchi, invece, sono stabiliti soprattutto negli appartamenti spaziosi e arieggiati dell’ovest o nel centro. Si trovano, quindi, nella morsa di una “cintura rossa”, sempre timorosi di una discesa della plebe dalle alture di Belleville e Montmartre. Sono, come osserva lo storico W. Serman, due città che “in regola generale, si evitano, si ignorano o si osservano da lontano, con uno sguardo pieno di pregiudizi e di sentimenti poco piacevoli”.
La Comune rappresenterà, tra l’altro, anche la riconquista, fisica e simbolica, del centro politico della città da parte del popolo che ne era stato scacciato.
La caduta dell’Impero e il Governo di difesa nazionale
Dopo averne delineato la duplicità di significato, cominciamo ora a ripercorrere l’”assalto al cielo” rappresentato dalla Comune di Parigi.
A monte c’è l’agonia dell’impero di Napoleone III sorto dal colpo di stato del dicembre 1851 e dalle immediatamente successive repressioni. Quando nel 1870 dichiara guerra alla Prussia, l’imperatore ha alle spalle i recenti rovesci nelle consultazioni elettorali, che hanno evidenziato la forza del movimento repubblicano a Parigi e nelle grandi città, e la crescita della protesta popolare e dei movimenti rivoluzionari. Dal 1869 diverse sommosse si segnalano nelle vie della capitale con particolare virulenza nel quartiere di Belleville dove, nel febbraio 1870, si innalzano le barricate e si contano alcuni morti e centinaia di feriti. Nonostante la loro esiguità elettorale, le forze rivoluzionarie passano all’azione ed alimentano lo “spettro rosso” che allarma, oltre al governo, l’ala più moderata del movimento repubblicano.
Ma quali sono queste forze? Delinearle, anche velocemente, ci servirà per comprendere le diverse anime, le scelte e le difficoltà del movimento comunardo. Si tratta di un insieme composito, fatto di avanguardie, che ancora si muove in ordine sparso, e si sente idealmente figlio della tradizione rivoluzionaria francese. Nuovo è il movimento operaio, legato alla Prima Internazionale, forte di 54 associazioni di mestiere e quasi 40.000 iscritti riuniti nella Camera Federale delle Società Operaie e nella Federazione delle Sezioni parigine della Associazione internazionale dei lavoratori. Divise al loro interno, condividono sostanzialmente una visione libertaria ed evoluzionista del socialismo, nella quale ancora si sente l’influenza di Proudhon: libere comunità di lavoratori che si autogestiscono e distruggono il centralismo gerarchico dello Stato. Composito, anche per ragioni di classe, è il panorama del movimento repubblicano, erede dei Principi dell’89. Mentre la parte moderata si limita a rivendicare libertà e diritti politici, quella più radicale - “neogiagobini” o “democratici-sociali” - vuole riempire di contenuto sociale la parola repubblica: figlia ideale dell’esperienza della Convezione Montagnarda e del Comitato di Salute Pubblica (1792-94), è favorevole all’intervento attivo dello Stato per ridurre le disuguaglianze, alle misure energiche contro i nemici della rivoluzione e, pur nel rispetto della proprietà privata, non è contraria a requisizioni e nazionalizzazioni.
Poi ci sono i “blanquisti”, il vero spauracchio rivoluzionario. Indifferenti alla legalità e al suffragio universale, credono nella lotta condotta da compatte minoranze di agitatori e discepoli armati, capaci di prendere il potere con un colpo di mano. L’emancipazione della classe lavoratrice sarà il frutto della dittatura rivoluzionaria. Forti nei quartieri popolari, sanno agire nell’ombra e sono riusciti ad organizzare una sorta di contro-polizia segreta. La loro combattività animerà tutto il processo comunardo.
Ritorniamo agli ultimi giorni del Secondo Impero. Le prime sconfitte nella guerra acuiscono la tensione e cancellano lo slancio patriottico: si chiede la leva di massa, l’armamento del popolo, la caduta dell’impero e la proclamazione della repubblica. Parigi viene posta in stato d’assedio, ma la situazione critica obbliga il governo a riesumare la Guardia Nazionale - i cittadini in armi - e a distribuire le armi anche nei quartieri popolari. La situazione precipita il 3 settembre quando nella capitale arriva la notizia della sconfitta di Sedan terminata con la prigionia di Napoleone III e di centomila soldati francesi. Di fronte al pericoloso vuoto di potere e al conseguente pericolo di uno scoppio rivoluzionario, conservatori e repubblicani moderati, riuniti in una sorta di alleanza dell’ordine, cercano invano l’intesa attorno alla proposta avanzata da Thiers: nomina di un governo provvisorio da parte del Corpo Legislativo, l’unica istituzione imperiale rappresentativa. A spingere verso una soluzione diversa, di rottura istituzionale, è la pressione del popolo parigino e di diversi reparti della Guardia nazionale che invadono il Palazzo di Borbone. Si finisce all’Hotel de Ville dove, tra le acclamazioni e per bocca di repubblicani come Gambetta e Favre, viene proclamata la Repubblica e decisa l’elezione di un’assemblea costituente. Nasce così il “Governo della Difesa nazionale” controllato dall’ala moderata dei repubblicani e affidato al generale Trochu - già governatore di Parigi - che, per accettare, ha chiesto espressamente il rispetto della religione, della proprietà e della famiglia. Se lo scopo dichiarato, e sul quale si fonda il consenso popolare, è quello della continuazione dello sforzo bellico, la volontà è quella di impedire una deriva rivoluzionaria.
Per raggiungere questo obiettivo si pensa subito ad un armistizio con i prussiani in modo da poter poi disarmare la città con i suoi trecento mila uomini della Guardia Nazionale, nelle cui fila si trovano battaglioni, quelli dei quartieri popolari, di aperte tendenze rivoluzionarie.
E il composito fronte rivoluzionario? Estromesso dal governo e alimentato dai numerosi comitati repubblicani che si formano nei diversi quartieri, si federa l’11 settembre in un Comitato centrale repubblicano in cui è forte la presenza degli Internazionalisti. Pieno, per ora, è il sostegno al Governo provvisorio nello sforzo militare e patriottico. Imbevuto dei ricordi e delle parole d’ordine del 1792-94, chiede la leva in massa, le elezioni municipali, l’abrogazione delle leggi repressive e della polizia monarchica, requisizioni in nome della difesa nazionale e il controllo popolare sulle misure prese dal governo. Un’atmosfera di sforzo patriottico che ben traspare dalle pagine del romanzo “La disfatta” di Zola in riferimento ai pensieri del soldato Maurice: “Nel dormiveglia ebbe la visione di ciò che sarebbe accaduto: l’Impero spazzato via nell’universale esecrazione, la repubblica proclamata in un’esplosione di febbre patriottica, mentre la leggenda del ’92 faceva sfilare le ombre dei soldati della leva in massa, le armate dei volontari che liberavano il suolo della patria dallo straniero”.
Pur mettendosi a disposizione del governo, appare chiaro fin dall’inizio che il Comitato centrale, e con esso quelli dei diversi quartieri, si pone come una sorta di contro-potere popolare, di organo di vigilanza sempre più critico con il passare dei giorni in cui regna l’attendismo militare.
Dal 20 settembre Parigi è chiusa da una morsa costituita dai 180 mila uomini della 3a e 4a armate prussiane al comando del generale Moltke e priva del soccorso di quelle francesi sparse sul territorio. Per di più, il governo di difesa nazionale comincia ad intavolare trattative (J. Favre incontra Bismarck). Per la Parigi popolare è troppo: nei diversi club si manifesta contro i traditori e si invoca sempre più l’elezione di una Comune che coordini lo sforzo bellico e la difesa della città. La capitolazione a Metz dell’armata guidata da Bazaine getta benzina sul fuoco: il 31 ottobre la folla irrompe nell’Hotel de Ville con la volontà di far cadere il governo e creare una commissione che porti all’elezione di una Comune o, come chiedono altri, la costituzione di un Comitato di Salute pubblica chiaramente rivoluzionario.
Le divisioni interne[1] e l’intervento dei battaglioni borghesi della Guardia nazionale, portano al fallimento il tentativo insurrezionale.
La sconfitta è ribadita dalle immediatamente successive consultazioni elettorali concesse dal governo: quest’ultimo vince il plebiscito (“Il popolo di Parigi vuole mantenere SI o NO i poteri del governo di difesa nazionale?”) e ottiene la maggioranza nelle elezioni municipali (sindaci degli arrondissement). I rivoluzionari, invece, contano su una minoranza, comunque non trascurabile, di 52.000 voti. È un brutto colpo che ha ripercussioni fino al dicembre successivo, mentre la popolazione comincia a sentire le dure conseguenze dell’assedio (fame, freddo e disoccupazione). Indispensabile si rivela, per garantire un minimo di sicurezza sociale, l’azione promossa dalle municipalità e dalla Guardia nazionale: stanziamento di fondi, distribuzioni di cibo, apertura di forni economici e apertura di atelier per assicurare il lavoro. Non sorprende che in questa situazione di emergenza le richieste popolari assumano connotazioni sociali. Un manifesto dell’Internazionale parigina chiede l’espropriazione di tutti “i beni di prima necessità” e l’affidamento ai lavoratori degli stabilimenti necessari allo sforzo bellico, il mandato revocabile, l’elezione diretta dei magistrati e sottolinea come la presente sia ormai una lotta tra “socialismo e feudalesimo” e per “l’affrancamento dei popoli”. È una manifesto che riassume le richieste fondamentali del movimento comunardo.
Al grido di “la Commune donc! La Commune, voilà le remede, voilà le salut!” il movimento rivoluzionario trova l’unità come dimostra il manifesto del Comitato repubblicano comparso il 6 gennaio 1871, all’indomani dell’inizio dei bombardamenti prussiani su Parigi: l’attacco al governo è radicale e ultimativo: “Il governo che, il 4 settembre, si è incaricato della difesa nazionale ha compiuto la sua missione? No! Noi siamo 500.000 combattenti e 200.000 prussiani ci assediano! Di chi è la responsabilità se non di chi ci governa? Non hanno pensato che a negoziare invece che a fondere cannoni e fabbricare armi […] il loro dovere è di ritirarsi, di consentire al popolo di Parigi di prendere nelle sue mani il compito della propria liberazione. La Municipalità o la Comune è l’unica salvezza del popolo! ”.
Il 22 gennaio un nuovo tentativo insurrezionale è duramente represso dal governatore, e bonapartista, Vinoy che procede all’arresto di 83 persone e alla chiusura di tutti i giornali rivoluzionari. Lo spaventato e sempre più traballante governo non ha altra scelta che intavolare e portare a buon fine le trattative per l’armistizio che viene firmato il 28 gennaio. Tra le clausole, l’elezione di una assemblea nazionale con il compito di approvare il definitivo trattato di pace.
La Parigi popolare si solleva
La firma dell’armistizio è per Parigi un vero e proprio tradimento e la situazione politica diviene sempre più incontrollabile e riscaldata da continue agitazioni. Più che mai presente è lo spettro rivoluzionario. Tolto il blocco prussiano della città, gran parte della borghesia si mette in fuga: sono ben 150.000 le persone che preferiscono la più tranquilla - politicamente - campagna. A questi si aggiungono ministri, generali e il personale amministrativo. In città non restano che la piccola borghesia del commercio, gli artigiani, semplici impiegati, giornalisti e intellettuali, soldati demoralizzati e senza ordini e, soprattutto, i cittadini in armi della Guardia nazionale, ormai sempre più popolare nella sua composizione.
Di fronte ad un governo sempre meno padrone della situazione, il potere reale passa nelle mani delle uniche autorità rimaste: la Guardia Nazionale, le municipalità e i diversi comitati repubblicani. A isolare definitivamente Parigi, a staccarla dal corpo francese, è il risultato delle elezioni dell’8 febbraio 1871 per l’assemblea nazionale stabilita a Bordeaux: a vincere ampiamente è il variegato blocco monarchico che conquista ben 400 seggi contro i 200 dei repubblicani. Sul risultato delle elezioni ha certamente pesato l’assenza di una vera campagna elettorale - le elezioni sono immediatamente successive all’armistizio - e l’occupazione prussiana in 28 dipartimenti.
A Parigi, dove ha votato il 40%, la vittoria arride ai repubblicani radicali, mentre i rivoluzionari, riuniti nella lista del “Partito dei diseredati” presentata dal Comitato centrale repubblicano e dagli internazionalisti, ottengono 65000 voti, pari al 20%.
Il nuovo governo è affidato al collaudato conservatore Thiers che, tenuta nell’ombra la questione istituzionale, vuole chiudere la partita della pace per poter riportare l’ordine. In una capitale che fiuta la restaurazione monarchica, invece, viene costituita la Federazione repubblicana della Guardia Nazionale, guidata da un Comitato centrale i cui membri, tutt’altro che conosciuti e in maggioranza operai, ben rappresentano la Parigi popolare con le sue speranze e le sue convinzioni politico-sociali. Due i punti fondamentali: il “diritto assoluto” di nominare tutti i capi militari e di revocarli in caso di perdita di fiducia e la prevenzione di ogni tentativo di rovesciamento della repubblica, il “solo governo di diritto e di giustizia che non può essere subordinato al suffragio universale”.
Chiarificatrice è la dichiarazione di fede del neonato Comitato centrale: “La Repubblica francese prima, poi la repubblica universale. Basta armate permanenti, ma l’intera nazione armata […]. Basta oppressione, schiavitù o dittatura di ogni tipo; ma la nazione sovrana, ma i cittadini liberi che si autogovernano […], ma agenti costantemente responsabili e revocabili ad ogni grado di potere”. Centrale è quindi il richiamo alla democrazia popolare diretta che, come abbiamo visto, si mischia con le richieste più squisitamente sociali.
Per il Governo e l’Assemblea nazionale è giunto il momento di chiudere i conti con i ribelli, i “criminali” guidati da un “comitato occulto” i cui membri rappresentano “dottrine comuniste che metterebbero Parigi al saccheggio e la Francia a morte”; a fronteggiare le autorità costituite non ci sarebbero, quindi, che “partiti del disordine, assassini che non temono di spargere spavento e morte in una città”. Dure, da un punto di vista dell’impatto sociale, sono le misure decretate: l’abrogazione della moratoria degli affitti e la soppressione dell’indennità alle guardie nazionali mettono in serio pericolo la sussistenza delle classi popolari parigine, alla luce del fatto che intere famiglie vivono grazie al “soldo” della Guardia nazionale. A queste si aggiunge la decisione di spostare l’Assemblea a Versailles. La conseguenza, come sottolinea lo storico W. Serman, è la costituzione di un sempre più compatto “blocco plebeo”, sorta di alleanza di classe all’interno del variegato universo di un “petit peuple” sempre più accomunato dalle condizioni di miseria e che diventa base sociale delle richieste sociali del movimento comunardo.
La situazione esplode quando il governo affida al generale Vinoy il compito di disarmare dai cannoni la Guardia nazionale e di riconquistare il potere procedendo all’arresto dei capi rivoluzionari. Le truppe governative entrano in città il 18 marzo per riprendere i cannoni piazzati a Belleville e Montmartre, ma l’operazione fallisce di fronte alla veemente, e in gran parte spontanea, reazione popolare e ai frequenti casi di fraternizzazione fra truppe, che si rifiutano di sparare, e ribelli. La Guardia nazionale, senza un piano preordinato e pacificamente[2] , si impadronisce della città e il suo Comitato centrale si insedia all’Hotel de Ville. Il Governo abbandona Parigi e raggiunge Versailles con l’intenzione di preparare più accuratamente l’attacco finale.
La Parigi popolare al governo
Il 19 marzo la bandiera rossa libra al vento sull’Hotel de Ville in una Parigi nuovamente isolata, non più dalle truppe tedesche, ma dal Governo francese. All’interno della città, invece, l’assenza completa delle forze dell’ordine, permette ai contropoteri popolari di agire alla luce del sole. Alla testa della città c’è il Comitato centrale della Guardia nazionale dalla forte connotazione libertaria e legato alla prospettiva della democrazia autogestionaria. Nei giorni successivi ottiene l’appoggio dell’Internazionale e del Comitato centrale repubblicano. Contrario all’instaurazione di una dittatura rivoluzionaria, non vuole presentarsi come un vero e proprio governo; il suo compito si riduce all’amministrazione nell’attesa che la parola passi nuovamente al voto popolare per l’elezione della Comune. Nasce, come tiene a precisare, con un mandato subito scaduto: “In questo momento, il nostro mandato è spirato, e noi ve lo rimettiamo perché non pretendiamo di prendere il posto di chi è stato scacciato dall’onda popolare”. Attento, inoltre, ad una condotta moderata e rispettosa delle libertà personali e della proprietà, adotta le necessarie misure tampone per garantire la sopravvivenza della popolazione nel nome di una solidarietà egualitaria (paga alle guardie nazionali, garanzia di alloggi per gli indigenti), accorda una piena amnistia e riconosce l’armistizio. Fatto, quest’ultimo, che evidenzia come il nemico sia ormai la reazionaria Assemblea nazionale di Versailles.
Il 26 marzo, in una atmosfera tranquilla, si svolgono le elezioni alle quali partecipano anche le frange più moderate del movimento repubblicano. Mentre il Comitato centrale non presenta candidature ufficiali, quello repubblicano elabora ovunque liste proprie e pubblica un programma nel quale, alle richieste di democrazia diretta e di laicità dell’insegnamento, si aggiunge quella relativa alla ricerca delle misure adatte per fornire ai produttori (si legga le associazioni di operai) crediti, stanziamenti e capitali in modo da garantire la pace sociale. Lo sguardo è rivolto ad un nuovo ordinamento statale avanzato e fondato sull’autogoverno: “La Comune è la base di ogni Stato, come la famiglia è l’embrione della società. Deve essere autonoma, cioè governarsi e amministrarsi da sé” e “può e deve associarsi, vale a dire federarsi con tutte le altre comuni o associazioni comunali che compongono le nazioni”.
I risultati premiano il fronte rivoluzionario che conta 60 degli 85 eletti. Nello specifico i blanquisti hanno 9 rappresentanti, 17 gli Internazionalisti, 11 sono i socialisti delle diverse tendenze e 4 i neo giacobini (demi-socs). Sulla percentuale di partecipazione elettorale, un 50% in linea con le ultime consultazioni, ha certo influito la fuga della “buona” borghesia e la massiccia astensione dei quartieri notoriamente conservatori.
Chi sono, quindi, gli eletti? Dal punto di vista sociale si contano 21 operai provenienti dalle piccole imprese artigiane, mentre la stragrande maggioranza viene dal composito mondo della piccola borghesia (artigiani, impiegati, commercianti…). All’interno del consiglio è significativa – 43% - la presenza dei militanti affiliati alla Prima Internazionale e con tendenze fortemente libertarie e anti-autoritarie.
L’esperimento comunardo
Il 27 marzo la Comune viene ufficialmente proclamata: Parigi e il suo popolo riconquistano il diritto all’autogoverno costantemente rifiutato dal Thiers. Ma per parlare di ciò che è stata la Comune e delle sue realizzazioni, bisogna tenere presente il perenne “stato d’eccezione”, di assedio e isolamento, in cui è nata e si è sviluppata. Ad assorbire le energie rivoluzionarie sono le esigenze militari, alle quali occorre aggiungere una azione politica e amministrative, fortemente egualitaria, che deve dare risposta immediata alle crescenti difficoltà popolari.
Già dal 29 marzo iniziano le prime scaramucce tra l’esercito di Versailles e i “federali” parigini ( i cittadini in armi della Guardia nazionale) con le immediate esecuzioni sommarie da parte del primo. Esplicito a questo proposito il generale Gallifet: “è una guerra senza tregua e pietà quella che io dichiaro a questi assassini”.
Alle difficoltà oggettive si aggiungono quelle interne al movimento rivoluzionario: la presenza di due centri d’autorità (la Comune e la Guardia nazionale gelosa delle proprie prerogative militari) e la mancanza di coordinamento tra la Commissione esecutiva, il Consiglio, le dieci commissioni, la cinquantina di club operanti in città e i municipi di arrondissement. In sintesi una vera e propria Babele in cui le divisioni di poteri e di competenze non è mai chiara, anche per la predominante visione libertaria e anti-autoritaria. La ricerca di una di una soluzione a questo problema, stante la necessità di coordinare la difesa militare, è motivo di forti divisioni politiche. Da una parte c’è il Comitato esecutivo della Comune che chiede più poteri e un ruolo politico riconosciuto; dall’altra una Guardia nazionale che si ritiene il vero cuore della rivoluzione e che, in nome della libertà, si oppone ai tentativi dittatoriali del primo. Quando il 1° maggio viene approvata la creazione, senza vere conseguenze sul campo, di un Comitato di Salute Pubblica, formato da cinque persone e responsabile solo davanti alla Comune, una minoranza decisamente libertaria denuncia “l’usurpazione della sovranità popolare” e annuncia la propria secessione: “Con un voto speciale e preciso, la Comune di Parigi ha abdicato il suo potere nelle mani di una dittatura alla quale ha dato il nome di Salute Pubblica”.
I limiti e i condizionamenti esterni, non impediscono comunque di sottolineare il tentativo comunardo di dare vita ad una nuova organizzazione politica, realmente rivoluzionaria. Vanno in questo senso i decreti che stabiliscono il mandato imperativo, il controllo popolare sulle misure prese, l’elezione dei funzionari e dei magistrati e la divisione tra Stato e Chiesa.
Le misure sociali ed economiche, prese in una cornice di forte rispetto per la proprietà privata, riescono a garantire la sopravvivenza del popolo parigino[3] e, senza dubbio, alcune di esse si inseriscono nella prospettiva di uno sbocco socialista e dell’emancipazione dei lavoratori. Si tratta di un socialismo che guarda ancora all’esempio delle “officine nazionali” sorte durante la rivoluzione del 1848 e che è legato alla prospettiva di una pacifica e libera evoluzione cooperativistica.
Il riferimento è al decreto, approvato il 16 aprile 1871, che affida alle cooperative operaie dietro indennizzo le fabbriche abbandonate. La decisione, alla quale dedica particolare attenzione Marx[4], è il frutto delle iniziative della Commissione del lavoro il cui obiettivo, tra gli altri, è quello di creare l’ordine sociale che “deve sostituire l’accordo degli interessi e la giustizia sociale” ai “conflitti e ai disordini causati dal vecchio ordine sociale”. Alla Comune spetta il compito di favorire questo sbocco aiutando le associazioni e le cooperative operaie con la concessione di crediti o con l’affidamento privilegiato delle ordinazioni. Il alcuni casi la Comune stessa prende in gestione comparti delicati come quello della produzione delle armi. È il caso della fabbrica del Louvre nella quale al delegato comunale si affianca un delegato alla direzione direttamente eletto dagli operai e da questi revocabile.
Si tratta indubbiamente di misure dettate dalle immediate necessità e dallo stato d’assedio, ma non si possono oscurare gli ideali di giustizia che ne sono alla base. Socialista è certo la volontà di fornire al cittadino - lavoratore una educazione libera e integrale, di sollevarlo dalla semplice condizione di bestia da soma: “bisogna che […] il bambino passi alternativamente dalla scuola all’atelier perché possa subito guadagnarsi da vivere nello stesso tempo in cui svilupperà il suo spirito grazie alle studio e al pensiero. Bisogna che un maneggiatore di utensili possa scrivere un romanzo”.
La tragica fine: massacri, disumanizzazione e legittima difesa
Come abbiamo visto la Comune nasce e si sviluppa in stato di guerra e sempre più accerchiata. Nonostante questo, però, la sua gestione del potere si segnala per la generale volontà di rispettare le libertà individuali e la mancanza di violenza nei confronti degli oppositori[5], tanto che numerose sono le critiche di eccessivo legalismo e arrendevolezza. Lo dimostra bene il “Decreto sugli ostaggi”, approvato all’indomani dei primi massacri ad opera delle truppe di Versailles: i sospetti traditori saranno giudicati da una giuria e, se colpevoli, diventeranno ostaggi del popolo di Parigi e una loro eventuale fucilazione sarà eseguita solo in caso di ulteriori esecuzioni di comunardi. È certo una risposta dura, ma pur sempre una risposta nei limiti della tradizione liberale, ad una aggressione subita. In questa chiave sono da leggere le violenze - minime - commesse dalla Comune.
Si capisce così come le accuse di ferocia, assassinio e bestialità altro non siano che esagerazioni propagandistiche finalizzate alla repressione. Ed è di questo che ci occupiamo adesso.
Da una parte c’è una Parigi pronta alla difesa ad oltranza e che, nonostante emissari e continui appelli lanciati alla provincia, resta isolata e priva di aiuti militari; dall’altra c’è il governo di Thiers che medita solamente la riconquista con la forza e la punizione dei “banditi”. Che non ci sia alcuna volontà di conciliazione, lo dimostra la nuova legge municipale, approvata dall’Assemblea nazionale, che non riconosce alcun diritto di autogoverno alla capitale. In mezzo ai due contendenti, per ora in posizione neutrale, c’è l’esercito tedesco e la vigilanza di Bismarck che vuole arrivare presto alla firma del definitivo trattato di pace e che teme il contagio comunardo oltre il Reno. Mentre la Comune si accontenta della neutralità degli occupanti, Thiers ha bisogno del loro consenso per predisporre le forze necessarie all’attacco.
Si arriva così il 18 maggio 1871 alla firma del trattato di pace e al conseguente via libera di Bismarck per la liberazione dei militari francesi prigionieri in vista della ricostituzione di un esercito francese forte di 130-150 mila uomini. A comandarlo c’è Mac Mahon, il maresciallo legittimista, circondato da comandanti orleanisti, bonapartisti e repubblicani moderati; perfettamente rappresentato è il partito dell’ordine.
L’ingresso a Parigi, dove sono già pronte le compagnie formate in segreto per guidare i soldati nella repressione, avviene il 22 maggio dalla porta indifesa di Saint Cloud e dal Pont du Jour, nel settore borghese dove l’esercito è accolto come liberatore: in poche ore ben 50 mila uomini entrano senza incontrare la minima resistenza. Nel campo comunardo, infatti, la disorganizzazione mina alla base la risposta militare e le poche barricate approntate non sono solide. Mentre i rivoluzionari sono respinti negli ultimi baluardi dl nord-est, a Belleville e a La Villette, inizia la più spietata repressione in nome della “civiltà”, la cosiddetta “settimana di sangue” (22-28 maggio): esecuzioni sommarie in obbedienza ad ordini precisi e nel più totale spregio delle regole giuridiche, che fanno più vittime dei combattimenti. Si va avanti a fucilare uomini, donne e bambini fino al 15 giugno, con la stampa conservatrice che chiede di farla finita con i “briganti”, i “banditi”, i “mostri e le bestie feroci” e con la “canaglia democratica e dell’Internazionale”. A dispetto dello scrupolo legalitario della Comune, le corti marziali versaglieli giudicano senza la presenza di avvocati e senza alcun dibattimento. Alla fine, come ritengono molti storici, si contano ben 17 mila fucilati, gettati nelle fosse comuni e bruciati e 40 mila prigionieri tradotti in convogli come bestie a Versailles e poi nei diversi forti sparsi nella regione parigina. Qui, come ricorda Serman, sono perfino oggetto delle visiti curiose di festanti famiglie borghesi in gita. Ad essere decimata e dispersa è, in sostanza, la classe operaia parigina e, con questa, le sue organizzazioni.
La necessità della repressione viene giustificata, negli anni immediatamente successivi, con la rappresentazione dei comunardi come esseri estranei al genere umano, comunque barbari o malati mentali. Lo storico M. definisce gli insorti come “sottouomini”, “animali nocivi” o “canile di cani furiosi”; nei Tableaux de siege, nelle librerie a partire dal 1872, vengono presentati come “popolazione immonda” simile “alle bestie selvagge” che esce dagli abissi per “spandersi nella città con urla selvagge”; infine P. Lidski descrive l’Hotel de Ville comunardo come un “cabaret, un lupanare, una latrina” in cui “tutte le depravazioni, tutte le turpitudini si erano date appuntamento”. A scatenarsi, secondo questi intellettuali della conservazione, sono state creature che, non essendo umane, non potevano godere di alcuna pietà.
E le violenze dei comunardi? Tanto sottolineate e ingigantite dagli avversari, sono nettamente inferiori, per nulla paragonabili, a quelle delle truppe di Versailles e, soprattutto, successive di qualche giorno ai primi massacri: tra il centinaio di ostaggi fucilati ci sono preti, poliziotti, gendarmi e l’arcivescovo di Parigi. Una risposta all’attacco, disperata quanto inutile, è la decisione di procedere all’incendio di diversi edifici.
Parigi pagherà la sua ribellione con la decretazione dello stato d’assedio fino al 1876. Una legge del 1872 vieta la costituzione di associazioni con lo scopo di abolire la proprietà privata, la famiglia e la religione. Inoltre, la capitale dove espiare le proprie colpe: nel 1873 viene decisa la costruzione della basilica del Sacré Coeur per chiedere perdono a Dio dei crimini commessi dalla Comune.
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NOTE
[1] Mentre parte degli insorti chiede una via possibilmente legalitaria - le elezioni - per la costituzione della Comune, i blanquisti sono indifferenti all’ipotesi elettorale e auspicano una autentica rottura e una dittatura rivoluzionaria.
[2] L’unico episodio di violenza è legato alla fucilazione, reclamata dalla folla e subita dalla Guardia Nazionale, dei generale Lecomte, ufficiale bonapartista che aveva più volte ordinato di sparare sui ribelli, e Thomas, uno degli esecutori della repressione del 1848. Il governo di Thiers si baserà su questo fatto per denunciare i crimini della Comune.
[3] Distribuzioni di cibo, requisizione degli alloggi abbandonati, condono degli affitti, pagamento dilazionato dei debiti, pensione vitalizia ai feriti di guerra e alle famiglie delle vittime ed educazione degli orfani diretta e sostenuta dalla Comune.
[4] Così scrive ne La guerra civile in Francia: 'Sì, o signori, la Comune voleva abolire quella proprietà di classe che fa del lavoro di molti la ricchezza di pochi. Essa voleva l’espropriazione degli espropriatori. Voleva fare della proprietà individuale una realtà, trasformando i mezzi di produzione […] che ora sono essenzialmente mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di lavoro libero e associato'
[5] Così si pronuncia Marx: 'Dal 18 marzo fino all’ingresso delle truppe versagliesi a Parigi, la rivoluzione proletaria fu tanto immune dagli atti di violenza che abbondano nelle rivoluzioni'.
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BIBLIOGRAFIA
- Paris libre 1871, J. Rougerie, Édition du Seuil, Parigi 2004;
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La Commune de Paris, W. Serman, Fayard, Parigi 1986;
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Histoire de la Commune de 1871, P.O. Lissigaray, La Découverte, Parigi 1990;
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La Comune, Louise Michel, M&B Publishing, Milano 2004;
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La guerra civile in Francia, K. Marx, Editori Riuniti, Roma 1974;
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La disfatta, E. Zola, Biblioteca economica Newton, Roma 1998;
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Storia del socialismo italiano, vol.1, Renato Zangheri, Einaudi Editore, Torino 1993;
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Storia della Francia nell’Ottocento, D. Barjot - J.P. Chaline - A. Encrevé, il Mulino, Bologna 2003;
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Il secolo borghese in Francia, R. Magraw, il Mulino, Bologna 1987
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