Le follie e gli errori politici dell’imperatore romano lo esposero a tre complotti.
Due fallirono perché i suoi nemici non seppero agire con il giusto metodo
COME NON SI ELIMINA UN TIRANNO:
GOFFE CONGIURE CONTRO NERONE
di GIORGIO SCUDELETTI
La vita di Nerone ultimo imperatore romano della dinastia Giulio–Claudia, il cui nome originario era Lucio Domizio Enobarbo, si svolse in un arco temporale piuttosto breve, tra il 37 e il 68. Salì al trono precocemente nel 54 d.C. per merito di sua madre Agrippina che fece avvelenare il suo terzo marito, l’imperatore Claudio che era anche suo zio paterno e aveva
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Nerone con la madre Agrippina
sposato dopo avere ottenuto una dispensa speciale dal Senato. Nerone, invece, era nato dal primo matrimonio di Agrippina con Gneo Domizio Enobarbo e era stato adottato tre anni prima da Claudio, diventando di fatto erede al trono grazie alle manovre materne nonostante dalla terza moglie, la famosa e dissoluta Messalina, lo stesso Claudio avesse avuto un figlio maschio, Britannico.
Anche quest’ultimo ebbe la medesima sorte del padre: morì avvelenato per ordine di Nerone, già imperatore, e sotto i suoi occhi, nel 55 durante un banchetto. Alcuni attribuiscono la ferocia di Nerone, che durante il suo impero fece uccidere o uccise tra l’altro anche sua madre e due mogli, Ottavia e Poppea, ad un carattere ipersensibile reso ancor più vulnerabile dalla lontananza di Agrippina che durante l’infanzia lo lasciava spesso alle cure dei precettori, mentre lei trascorreva negli ambienti di corte gran parte del suo tempo. Questa lontananza dei genitori dai figli era tuttavia un fatto abbastanza normale per l’aristocrazia romana dell’epoca. Su Nerone influì molto uno dei principali filosofi dell’antichità, Seneca di Cordova, che Agrippina aveva fatto richiamare da un lungo esilio in Corsica comminatogli dall’imperatore Claudio per una vicenda di adulterio, al fine di farlo diventare il precettore del figlio su cui nutriva notevoli ambizioni: tra il 49 e il 62 Seneca rimase vicino a Nerone, avendo un grande peso politico oltre che culturale sul giovane imperatore.

Il filosofo, al momento della salita al trono e per cinque anni operò su Nerone insistendo sulla necessità di una costante collaborazione e del reciproco rispetto tra imperatore e Senato, l’organo politico che con la nascita dell’impero aveva perduto buona parte del suo potere ma rappresentava tutte le famiglie più potenti di Roma e delle principali province: tra di esse si possono annoverare anche gli Annei, la famiglia di Seneca. Di fatto mai il Senato nel corso della dinastia Giulio–Claudia potè influire sulla successione imperiale, che si tramandò sempre nell’ambito delle due famiglie da cui la dinastia stessa prese nome. Il Senato si limitava a sancire ufficialmente la successione imperiale e in cambio dell’obbedienza e della collaborazione l’imperatore sceglieva i nell’ambito dell’assemblea i governatori delle province più importanti e ricche, i proconsoli.
Tuttavia, l’imperatore Claudio aveva molto indebolito il ruolo dell’assemblea, accentrando di fatto nelle sue mani l’amministrazione imperiale e affidando il disbrigo degli affari di stato più importanti a liberti, schiavi liberati, istruiti e di sua fiducia. L’irritazione verso l’istituzione imperiale dei senatori, privati di cariche e privilegi importanti, fu lenita da Nerone che nel suo discorso di insediamento al trono (54 d.C.) promise che la collaborazione con il Senato sarebbe ripresa interamente e che il potere dei liberti sarebbe stato limitato. Inoltre, con un gesto propagandistico che colpì molto i senatori, il nuovo imperatore rifiutò, per il momento, il titolo di “padre della patria” (pater patriae) tradizionalmente conferito agli imperatori, sostenendo di essere troppo giovane per assumerlo.

Questo parve un gesto di rispetto verso Roma e il Senato, che riteneva comunque di essere il vero rappresentante della romanità dell’ immenso territorio imperiale. Se il ruolo effettivo dei senatori era politicamente debole, di ben altra portata era il potere dell’esercito, istituzione essenziale per tenere sotto controllo e unito l’estesissimo impero. Di fatto la successione imperiale doveva ricevere necessariamente il gradimento preliminare dell’esercito, cosa che avvenne per Nerone. All’interno dell’esercito il corpo d’elite era costituito dai pretoriani che componevano la guardia del corpo dell’imperatore. Il comandante dei pretoriani, chiamato prefetto del pretorio, era uno degli uomini politici più influenti di Roma: durante il regno di Nerone occuparono questa carica il saggio Afranio Burro, collaboratore di Seneca; e il dissoluto Tigellino, che fomentò le crudeltà dell’imperatore, mentre più ambiguo nei suoi atteggiamenti risultò il collega Fenio Rufo.
Se le prime mosse del giovane imperatore, princeps in latino, sembravano andare nella direzione di una apparente “diarchia”, cioè un potere imperiale gestito con la collaborazione dei senatori, sappiamo come in realtà le vere idee di Nerone si orientassero in senso pienamente assolutistico. Lo dimostra Seneca in una sua nota opera intitolata De clementia: in questo trattato politico e filosofico scritto nel 55 d.C. pensando al suo potente discepolo, il filosofo e consigliere dell’imperatore traccia il ritratto di un re a cui è tutto lecito in quanto divinità scesa sulla terra. Il re guida gli uomini verso la saggezza e la felicità, utilizzando il suo potere assoluto per il loro miglior bene.

E’ indubbio che Nerone concepisse il suo potere in questo modo, influenzato e affascinato anche dal modello delle monarchie ellenistiche del vicino Oriente con le quali
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Il giovane Nerone
Roma era entrata in contatto: in esse il monarca era una divinità e come tale il suo potere era assoluto, indiscutibile e finalizzato al maggior bene e alla felicità dei suoi sudditi. Ma oltre a questo il giovane princeps dimostrò precocemente un forte fascino per attività come la composizione e la declamazione di poesie e poemi, per i giochi del circo e per la corsa delle bighe, per la quale si fece costruire una pista privata su cui gareggiare presso il palazzo imperiale. Ai suoi “padrini” Seneca e Burro e alla madre Agrippina sembravano passioni poco degne dell’uomo più potente del mondo, ma proprio il suo potere assoluto impediva ai due consiglieri e alla madre di mettere in discussione le volontà di Nerone.
Gli ambienti più tradizionalisti del Senato guardarono con sospetto a queste eccentricità, ma ben più grave fu il contrasto venutosi a creare con i senatori nel momento in cui Nerone progettò di rivoluzionare il sistema di tassazione (58 d.C.) sostituendo le imposte indirette, riscosse dagli esattori, i “pubblicani”, con quelle dirette, estese anche ai cittadini romani d’Italia che non le pagavano. Il problema stava nel fatto che in questo modo l’imperatore avrebbe colpito anche i ricchi patrimoni dei senatori, rimpinguando a scapito loro le casse imperiali. Le resistenze del Senato furono ovviamente fortissime al punto che Nerone dovette rinunciare al provvedimento, ma così si creò una prima frattura politica all’interno della presunta “diarchia”.

Nel frattempo crescevano anche i contrasti con l’imperiosa madre Agrippina. Agrippina, chiamata “minore” per distinguerla dalla madre soprannominata “maggiore”, aveva respirato potere fin dall’infanzia: era figlia di Germanico, erede designato al trono di Tiberio e morto misteriosamente nel 19 d.C; sorella dell’imperatore Caligola, che la relegò fuori Roma nel 40 perché sospettata di congiurare contro di lui; moglie dell’imperatore Claudio; madre di Nerone. Donna avida di potere, era decisa a contare a corte non meno del giovane figlio come dimostra il fatto che nei primi anni di impero si fece raffigurare sulle monete con la scritta “Agrippina Augusta”, il titolo che le era stato conferito dal Senato quando aveva sancito l’adozione di Nerone da parte di Claudio.
Tuttavia Nerone non era disposto a condividere il proprio potere con nessuno, tanto meno con una donna, per quanto fosse sua madre. Quindi Agrippina cominciò ad essere allontanata dalla corte soprattutto quando entrò in contrasto con Seneca e Burro, che vedeva come pericolosi rivali per la loro influenza sul figlio. Ma il motivo di massimo dissidio si verificò quando Nerone si innamorò della bellissima e dissoluta Poppea e era pronto a divorziare dalla moglie Ottavia, figlia di Claudio, che aveva sposato per motivi dinastici. A quanto racconta Tacito, Agrippina arrivò a offrirsi al figlio pur di riconquistare il proprio ruolo di potere. Nerone decise allora di eliminare colei che ai suoi occhi era una presenza politicamente pericolosa e ingombrante, visto che la madre lo aveva minacciato di rivelare le circostanze torbide della successione imperiale a Claudio.

I modi dell’eliminazione furono peraltro grotteschi: la piccola imbarcazione su cui Agrippina navigava verso la sua villa, dopo aver cenato da Nerone, doveva naufragare in una notte stellata e senza vento, ma Agrippina sopravvisse al naufragio salvandosi a nuoto. L’imperatore fu informato tempestivamente del fallimento del piano e decise allora un’azione di forza da attuare rapidamente, quella notte stessa. Infatti giunta alla sua villa, presso la località marina di Bacoli, Agrippina fu uccisa da un piccolo drappello di soldati inviati dal figlio: pare che ai soldati abbia offerto lei stessa il ventre da colpire. L’imperatore comunicò al Senato che la madre era morta suicida dopo che era stata scoperta la congiura organizzata da lei contro di lui e i senatori accolsero la notizia senza chiedere ulteriori spiegazioni (59 d.C.).
Anche e soprattutto psicologicamente liberatosi di una presenza molto ingombrante, Nerone giunto alla maggiore età, cominciò a dare pubblico e ampio sfogo alle sue passioni, le gare con le quadrighe, le declamazioni di poesie che egli stesso componeva, i giochi del circo. Passioni indegne di un imperatore agli occhi di molti senatori, ma anche pubbliche manifestazioni che suscitarono nella folla di Roma un grande entusiasmo e che accrebbero la popolarità dell’imperatore. Nerone organizzò dei giochi che presero il suo nome, i “Neronia”, gare ginniche, di eloquenza e di poesia. Inoltre diede vita agli “Iuvenilia”, una sorta di “Giochi della gioventù” accompagnati da grande sfrenatezza di costumi, ubriachezza, orge, violenze, e in cui l’imperatore fece la sua comparsa nelle vesti di Dioniso, il dio orgiastico del vino. In queste competizioni si cimentarono in veste di gladiatori anche parecchi tra senatori e cavalieri romani. Questa appariva a molti loro colleghi un’umiliazione perché di solito erano gli schiavi a combattere nel circo. Lo storico Tacito sostiene che l’imperatore scegliesse per combattere i più bisognosi di denaro tra questi “rispettabili membri” della società o li costringesse con il ricatto, ma il gran numero di senatori e cavalieri coinvolti ci fa sospettare che questa “umiliazione” fosse spesso scelta volontariamente.

E’ difficile valutare con chiarezza il significato di queste iniziative neroniane: per molti
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Il filosofo Seneca, del quale
Nerone fu allievo
storici antichi e moderni si tratterebbe di manifestazioni di un fortissimo esibizionismo, determinate dal fascino esercitato sull’imperatore dai modelli di monarchie orientali e da una sostanziale megalomania. Per altri, tuttavia, dietro questo esibizionismo quasi patologico si nasconderebbe un progetto politico – sociale che si potrebbe definire “neronismo”, un insieme di aspirazioni confuse di tipo religioso, estetico e politico, che chiaramente tendevano a mettere in discussione l’ordine tradizionale di Roma in modo da sottomettere lo Stato romano ad un principe artista, che univa il potere assoluto con i talenti di musicista, attore tragico e auriga. Inoltre, come abbiamo visto, molti senatori e cavalieri lo imitarono volontariamente o perché costretti o corrotti dal principe.
Probabilmente il desiderio di Nerone nel coinvolgere l’alta società nelle sue iniziative aveva l’obiettivo di rendere l’aristocrazia romana partecipe di un grande progetto, quello cioè di creare un’umanità nuova e nobile, capace di innalzarsi con i suoi talenti e le sue qualità fino alla divinità. In questo modo l’imperatore si ricollegava a uno degli aspetti principali della saggezza greca, che aveva sempre avuto il fine di mostrare agli uomini la strada verso la vera eccellenza chiamata dai greci “aretè”, e dai latini “virtus”. Secondo Nerone questa eccellenza si poteva ottenere soprattutto grazie alla pratica della poesia, della musica e delle attività sportive e alla competizioni in questi settori. Meno popolare risultò la volontà spasmodica di controllo dell’imperatore, accentuata da una fortissima insicurezza e fragilità psicologica. La sua indole sospettosa e probabilmente paranoica fu accortamente alimentata da Tigellino, che sostituì come prefetto del pretorio il defunto Burro.

Tigellino seminò Roma di spie, spesso semplici popolani pagati per riferire voci e discorsi colti in mezzo alla folla, o anche tra amici e parenti. Il clima complessivo della capitale si fece teso ai limiti della sopportazione: ogni accenno negativo a Nerone portava rapidamente conseguenze negative per chi lo avesse espresso, e guardarsi anche dagli amici e dai famigliari diventò quasi una necessità a Roma. Nerone vide rivalità e pericoli prima di tutto all’interno della propria famiglia. L’episodio più cruento coinvolse la sua prima moglie, Ottavia. Dopo essersi separato legalmente da Ottavia, Nerone sposò Poppea Sabina. Quest’ultima non si sentiva sicura nonostante la relegazione di Ottavia fuori da Roma e istigò l’imperatore ad eliminare fisicamente la prima moglie che godeva presso il popolo di una grande popolarità anche a causa delle morti misteriose del padre Claudio e del fratello Britannico. Nerone organizzò un’azione complessa che coinvolse il liberto Aniceto, già ideatore del piano per uccidere Agrippina. Aniceto fu praticamente costretto a confessare un inesistente rapporto clandestino con Ottavia, motivo di vergogna per una donna di nobili natali, e fu relegato in un esilio dorato in Sardegna.
Ottavia venne accusata di avere sedotto Aniceto al fine di organizzare una congiura contro Nerone con il coinvolgimento della flotta di cui il liberto era prefetto. La prima moglie di Nerone fu così uccisa nel suo luogo di relegazione e la sua testa venne consegnata a Poppea, che anni dopo verrà a sua volta uccisa da un colpo al ventre di Nerone mentre era incinta. Una volta informato su Ottavia, il Senato, come già con Agrippina, non ordinò alcuna indagine e anzi ringraziò gli dei per lo scampato pericolo corso dall’imperatore (62 d.C.). Procedeva intanto il ricambio all’interno dell’entourage di Nerone: Seneca, privato dell’appoggio di Burro e resosi conto della sua emarginazione a corte, decise di ritirarsi a vita privata: l’imperatore stava stringendo con Tigellino e Poppea un legame molto saldo, orientato ad un pieno e fortissimo assolutismo, quindi la politica di equilibrio apparente con il Senato, perno dell’azione senecana, non aveva più senso.

Nerone continuò però a guardare l’ex precettore con sospetto, a causa dei molti
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Agrippina major, madre di Nerone
segreti che il filosofo conosceva e dei molti legami conservati con persone vicine a lui. In questi mesi si pone anche un oscuro episodio che ci fa conoscere per la prima volta il nome del senatore Calpurnio Pisone, protagonista della congiura del 65 d.C. di cui ci accingiamo a trattare: una spia rivelò l’insistenza con la quale quest’ultimo aveva tentato di avere un incontro privato con Seneca, di argomento sconosciuto, ma si sospettava che questo misterioso e mai avvenuto incontro servisse a preparare una possibile azione contro Nerone. Seneca, interrogato alla presenza di Nerone, ammise la richiesta di Pisone, ma giurò di non avere accettato alcun incontro. Si può ipotizzare che già allora Pisone pensasse all’eliminazione di Nerone, che dopo la morte della madre e di Burro e la progressiva emarginazione di Seneca appariva gli occhi dei senatori un individuo pericoloso e sfrenato di cui liberarsi.
Pisone era un senatore, appartenente a una famiglia dell’alta società di Roma, legata ad altre famiglie aristocratiche di antica nobiltà. A quanto racconta Tacito era un buon oratore giudiziario, molto popolare e affascinante sia agli occhi dell’ambiente aristocratico, sia tra il popolo e oltre all’origine privilegiata poteva anche contare su una bellezza fisica e una statura ragguardevoli. La sua popolarità negli ambienti colti dipendeva dalla sua abilità di citaredo, cioè cantore con la cetra, e dalla fama di protettore delle arti, che lo portava a sostenere giovani poeti e artisti dotati ma poveri. Pisone godeva però di buon seguito anche tra il popolo vista la sua affabilità, per cui non disdegnava di conversare nel foro con le persone più umili. Inoltre talvolta metteva gratuitamente la propria abilità oratoria al servizio di qualche povero in difficoltà coinvolto in cause giudiziarie. La sua abilità nel crearsi una rete di rapporti solidi e fruttuosi giunse fino al culmine del potere: sappiamo che spesso ospitava Nerone nella sua villa di Baia e godeva della fiducia dell’imperatore che si intratteneva a cena con il futuro congiurato senza scorta armata, caso unico che testimoniava la fiducia di Nerone verso un amico che per passioni artistiche e raffinatezza sentiva evidentemente affine a sé. L’ascendente di cui Pisone godeva su una parte consistente degli ambienti colti romani gli aveva permesso di riunire intorno sé un circolo culturale e politico già sotto Claudio tra il 50 e il 52, secondo una pratica tradizionale per gli uomini importanti della corte imperiale e da questo circolo provennero alcuni di coloro che parteciparono alla congiura del 65 d.C.

La posizione del circolo di Pisone nei confronti di Nerone, inizialmente benevola, si fece col tempo sempre più sfavorevole: in primo luogo furono guardate con crescente sospetto e poi avversione le tendenze ellenistiche alla divinizzazione, le dissolutezze, la stravaganza dell’imperatore-istrione. Ma anche a livello politico non era stata certamente gradita la svolta autoritaria del 61, quando l’imperatore aveva accentuato il suo dispotismo a scapito della “clemenza”, ovvero del comportamento virtuoso ispirato alla virtus stoica e al senso di responsabilità personale. È probabile che tendenzialmente i membri del circolo pisoniano fossero vicini alle posizioni epicuree che valorizzavano la tolleranza politica, l’amicizia, la vita in comune, nonché i costumi eleganti e raffinati, e che quindi gradissero alcuni aspetti della Roma di Nerone. Evidentemente, invece, era il ridottissimo o quasi nullo spazio riservato ormai al Senato, di cui facevano parte alcuni autorevoli esponenti del circolo, a determinare la crescente tensione politica antineroniana.
L’imperatore poteva contare su un’ampia popolarità anche e soprattutto per le frequenti distribuzioni di grano tra il popolo, per merito dei giochi del circo e grazie a una serie di opere pubbliche realizzate negli anni del suo impero, di cui una sola, la più ambiziosa, rimase però a livello di un progetto: il taglio dell’istmo di Corinto. Tuttavia il montare della tensione politica capace di accomunare aristocrazia e popolo contro Nerone raggiunse il culmine durante l’estate del 64 d. C., non tanto perché il princeps cominciò ad esibirsi come attore, non a Roma, per motivi di prudenza, ma in un teatro di Napoli, quanto soprattutto a causa del rovinoso incendio che semidistrusse la capitale dell’impero a partire dal 19 luglio. Si tratta di un avvenimento controverso e oscuro nelle sue cause. Una lunga tradizione, cominciata dal biografo di Nerone Svetonio e dallo storico greco Cassio Dione, e poi valorizzata da S.Gerolamo, accusa Nerone di avere voluto e attuato l’incendio di Roma, al fine di distruggerla e ricostruirla secondo i propri progetti come una capitale ispirata a modelli orientali. Risulta più problematica l’interpretazione di Tacito, che descrive gli antefatti meteorologici e logistici che favorirono l’estendersi distruttivo delle fiamme: l’estate di quell’anno fu particolarmente torrida, venti caldi spiravano intensamente, le case della città in gran parte di legno sorgevano vicinissime le une alle altre in quanto Roma era sovrappopolata.

Con il favore di queste condizioni l’incendio sviluppatosi dal Circo Massimo continuò
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La Domus Aurea
per sei giorni prima di essere debellato e distrusse la maggior parte dei quartieri della capitale. Tuttavia, le voci di un atto doloso voluto da Nerone si diffusero fin da subito perché alcuni videro persone impegnate ad alimentare il fuoco anziché a spegnerlo e queste persone dicevano di agire in quanto era stato loro ordinato. Nerone, che si trovava in villeggiatura ad Anzio, rientrò a Roma per coordinare le iniziative di soccorso, aprendo il Campo di Marte e i propri giardini come luogo di rifugio e facendo distribuire grano a prezzo di favore, ma tra la folla si diffusero voci secondo le quali l’imperatore al culmine dell’incendio sarebbe salito sul palcoscenico del teatro di palazzo per cantare la fine di Troia. Spaventato dall’impopolarità, il princeps decise di far ricadere la responsabilità dell’episodio sui cristiani, all’epoca setta non numerosa e sospetta alla popolazione romana. Sappiamo che Nerone fece bruciare i corpi dei cristiani come torce per illuminare di notte i giardini della propria villa: da qui l’ostilità della tradizione cristiana contro l’imperatore e il consolidarsi nei secoli della notizia di Nerone come responsabile dell’incendio. Infine, con mossa strategicamente poco accorta, nel momento di progettare la ricostruzione di Roma egli decise l’edificazione della sua grandiosa nuova dimora, la Domus Aurea, sui luoghi in cui si trovavano i magazzini di grano dai quali si era sviluppato l’incendio, tra i colli Palatino ed Esquilino.
La “Casa d’Oro” fu un esempio insuperato di raffinatezza e lusso: aveva soffitti d’avorio, pareti con gemme e perle incastonate, terme con acqua di mare, giardini con animali esotici; la sala principale era sormontata da una cupola che ruotava simulando giorno e notte il moto degli astri, inoltre nel vestibolo della casa Nerone aveva fatto situare una altissima statua che lo raffigurava. Peraltro i lavori di costruzione di questa reggia non furono mai completati, e i costi furono altissimi.
Non c’è dubbio che l’incendio contribuisse ad alimentare ancora di più l’ostilità già serpeggiante negli ambienti di corte contro Nerone, tanto è vero che tra il 65 e il 68 d.C. presero corpo tre congiure tese ad eliminare l’imperatore. Si trattò in tutti e tre i casi di azioni che coinvolsero senatori, cavalieri e militari e anche membri della corte imperiale, tutti decisi a farla finita con un princeps che appariva sempre più tirannico, megalomane e incontrollabile politicamente.

Di esse, la congiura fallita del 66 d.C. doveva porre sul trono Corbulone, un glorioso generale uomo di fiducia di Nerone e vincitore di una lunga e snervante guerra con i Parti, la principale impresa militare dell’impero neroniano. La congiura venne scoperta e Corbulone fu costretto al suicidio. La congiura del 68 vide una stretta alleanza tra Senato, eserciti stanziati nelle province e pretoriani, che si ammutinarono contro l’imperatore determinandone la fuga da Roma e il suicidio, che Nerone, secondo la tradizione, si diede con le note parole, «quale artista muore con me !». In questa sede ci interessa però approfondire la prima congiura in ordine di tempo, quella del 65 d.C.che prese nome da
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Poppea, moglie di Nerone
Pisone, di cui abbiamo già parlato sopra. L’importanza di questo avvenimento risiede nell’ampio coinvolgimento di persone che parteciparono all’azione, circa una cinquantina appartenenti a tutti gli ambienti di potere di Roma: militari, cavalieri, senatori, uomini di corte, “perfino donne” si stupisce Tacito, alcuni dei quali un tempo molto legati e fedeli a Nerone. Anche i nomi dei coinvolti sono importanti: uccisi, o costretti al suicidio, furono tra gli altri Seneca; il poeta Lucano, suo nipote; Fenio Rufo, prefetto del pretorio; Plauzio Laterano, console designato per l’anno successivo.
Infine la congiura causò un vero e proprio bagno di sangue nell’alta società romana e nell’esercito, in quanto dopo averla scoperta Nerone ne approfittò per togliere di mezzo anche pericolosi, e forse innocenti, rivali politici. Tacito che ricostruisce con attenzione tutta la vicenda sostiene che è difficile stabilire chi iniziasse l’azione, escludendo che Pisone avesse un ruolo maggiore degli altri nell’ideazione. Quel che è certo è che le motivazioni dei congiurati furono estremamente diversificate e che l’azione non brillò certamente per unità d’intenti e per la chiarezza del progetto politico. I congiurati pensarono di porre sul trono Pisone soprattutto per la sua discreta popolarità e la stima di cui godeva in tutti gli ambienti, benché le qualità etiche di questo personaggio fossero più apparenti che effettive. L’appartenenza di Pisone ad una famiglia di antiche tradizioni repubblicane e al Senato, la sua volontà di ostentazione e l’amore per il lusso facevano pensare, soprattutto a chi non gradiva una eccessiva severità di costumi, che il governo di Pisone potesse essere meno dispotico di quello di Nerone, ma altrettanto attento alle squisitezze e alle raffinatezze: il moralista Tacito ne ricavava la conferma di una irreversibile malattia morale che aveva minato alla base lo spirito romano.

Le diverse vedute dei coinvolti cominciarono ad emergere proprio dalla scelta dell’uomo che avrebbe dovuto “salvare” Roma dall’impero dell’istrione Nerone: voci successive al fallimento della congiura affermarono che alcuni, tra cui i militari, pensassero piuttosto al saggio e austero Seneca come possibile imperatore, in quanto ritenevano Pisone fin troppo simile al sovrano che doveva sostituire. Chiunque fosse il futuro imperatore, si stava giocando una partita politica importante: per la prima volta da quasi un secolo, uccidendo Nerone si sarebbe potuta realizzare una successione imperiale non dinastica. Le congiure che eliminarono Tiberio, Caligola e Claudio avevano infatti portato sul trono, con l’attiva adesione dell’esercito, personalità appartenenti comunque al medesimo gruppo famigliare. Ora, invece, l’esercito, o almeno parte di esso, sembrava disposto ad appoggiare un imperatore non della dinastia giulio - claudia, e i senatori potevano sperare concretamente che fosse uno di loro a salire sul trono, visto che sia Pisone, sia Seneca erano espressione del Senato. Per il momento, invece e contrariamente a quanto accadrà solo tre anni dopo con Vespasiano, l’esercito pareva disposto ad accettare come sovrano un senatore, senza imporre un militare.
La trasversalità della partecipazione e degli interessi in gioco fece in modo, dunque, che unico collante vero tra i congiurati fosse la volontà di eliminare Nerone, ma questa volontà nasceva da motivazioni che spesso non erano politiche. Ad esempio Lucano, autore del noto poema epico Farsaglia dedicato alla guerra civile vinta da Cesare contro Pompeo, era guidato da una volontà ambigua: già amico e favorito di Nerone, cui aveva dedicato il suo poema, aveva poi subito l’invidia dell’imperatore geloso dell’abilità poetica e del successo dell’amico. Il poeta era stato allontanato dalla corte e gli era stato proibito di leggere le sue opere in pubblico. Da allora il nipote di Seneca aveva accentuato le sue simpatie per la causa antitirannica, repubblicana e senatoria, tradizionalmente sostenuta dalla sua famiglia, gli Annei. Due congiurati del circolo di Pisone, Scevino e Quinziano, dal canto loro, avevano motivi di odio personale verso Nerone che li aveva umiliati in pubblico, uno per l’indolenza e l’altro perché troppo effeminato.

Avevano, invece, obiettivi chiaramente politici i militari e il console designato Plauzio Laterano che intendevano agire per la salvezza di Roma, ai loro occhi destinata a precipitare in un gorgo senza speranza se fosse rimasta ancora nelle mani di un tiranno dedito ai divertimenti e alle perversioni, uccisore della madre e della moglie e deciso a trasformare Roma e il suo impero in senso orientaleggiante, un uomo lontanissimo dalle buone tradizioni romane del mos maiorum. Anche sull’organizzazione dell’azione sorsero contrasti: la proposta di uccidere Nerone presso la villa di Pisone a Baia, in una dei soliti banchetti tra i due, venne respinta dal padrone di casa che non voleva attirarsi qualche maledizione celeste per aver ucciso un ospite. Tacito, però, insinua che Pisone non si fidasse di alcuni congiurati, sospettando che insieme all’imperatore essi volessero uccidere anche lui per imporre sul trono un uomo più fidato. Si decise dunque di uccidere Nerone durante dei giochi in suo onore, una delle poche circostanze pubbliche in cui l’imperatore si mostrasse in pubblico, infatti da tempo Nerone temeva di inflazionare la sua immagine e sospettava costantemente qualche pericolo per la sua vita.
Il piano era relativamente semplice: il console designato Laterano, coraggioso e di
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L’incendio di Roma
corporatura robusta, avrebbe dovuto gettarsi ai piedi dell’imperatore fingendo di supplicarlo, ma facendolo cadere, e quindi immobilizzandolo; a quel punto gli altri congiurati sarebbero intervenuti gettandosi su Nerone a terra e finendolo a colpi di coltello. Quello che i congiurati ignoravano era che l’imperatore fosse venuto a sapere per tempo che si preparava un’azione contro di lui: una liberta il cui ruolo è sempre rimasto oscuro, Epicari, aveva cercato di coinvolgere membri della flotta imperiale nella congiura. Uno dei coinvolti doveva essere Volusio Proculo che aveva partecipato all’omicidio di Agrippina, ma questi denunciò all’imperatore il tentativo della liberta. Epicari venne arrestata e torturata, ma non rivelò nulla, e pose fine alla propria vita impiccandosi alla lettiga su cui dovette essere trasportata a causa delle torture subite. Mancava dunque la prova del complotto, ma l’ingenuità di Scevino, uno dei congiurati, la fornì inaspettatamente. Egli voleva essere il primo a brandire il coltello contro Nerone, e per questo ne aveva fatto sottrarre uno sacro da un tempio. Dopo un colloquio a casa propria con un altro congiurato, Natale, la sera prima della congiura Scevino fece testamento, liberando alcuni schiavi e elargendo dei soldi ad altri, un comportamento molto sospetto.

Infine diede il già citato coltello a un suo liberto, Milico, perché lo portasse a molare. Milico, istigato alla delazione dalla moglie, decise di denunciare Scevino a Nerone che non attendeva altro. In rapida successione durante la notte Scevino e Natale furono trascinati in una villa di Nerone e interrogati separatamente: Scevino negò tutto, mentre Natale cedette e fece il nome di Seneca come mente del complotto. A quel punto parlò anche Scevino che fece molti nomi, tra cui Quinziano e Lucano, che a pur di salvarsi denunciò anche sua madre: il poeta morirà suicida qualche giorno dopo. Da quel momento nella capitale si scatenò il terrore, per cui Tacito afferma testualmente che Nerone “chiuse Roma come in un carcere”. La città venne percorsa in lungo e in largo da soldati armati e fuori dal palazzo neroniano vennero trascinati in catene decine di romani, spesso colpevoli solo di avere parlato anche fuggevolmente con i congiurati. Tra i congiurati pallidissima appare proprio la figura di Pisone, che si rivelò impaurito, privo di iniziativa e rassegnato al proprio destino. Il mancato imperatore, dopo avere saputo dell’arresto e della delazione di Scevino e Natale rimase praticamente immobile, incapace di mettere in atto una minima reazione. Non si espose in pubblico ad arringare la folla con discorsi e non andò negli accampamenti militari a sollecitare i soldati, mossa che sarebbe stata decisiva visto che erano numerosi coloro disposti ad agire contro Nerone.
Semplicemente si mostrò in pubblico per breve tempo , ritirandosi poi nella propria casa e attendendo l’inevitabile arrivo dei soldati neroniani, che puntualmente giunsero a imporre il suicidio da parte dell’imperatore. Pisone finì la propria vita in modo inglorioso, scrivendo nel proprio testamento parole di adulazione verso Nerone per salvaguardare la propria moglie. Diametralmente opposto e coerente con la filosofia di cui era seguace appare invece il comportamento di Seneca. Nerone non aveva atteso altro che la testimonianza di Natale per avere la possibilità di eliminare lo scomodo ex maestro e consigliere. Infatti in un primo momento l’imperatore mandò un tribuno a interrogare Seneca a casa sua e Seneca ammise che Natale aveva cercato di organizzare un incontro tra lui e Pisone su iniziativa di quest’ultimo, ma che egli vi si era sottratto. Quando il tribuno riferì l’esito del colloquio con Seneca, Nerone, con Poppea e Tigellino, chiese al soldato se avesse colto nel filosofo il proposito di uccidersi, e alla risposta negativa del tribuno ordinò che Seneca si suicidasse. Il filosofo morì con grande dignità e forza d’animo: consolò gli amici presenti e li esortò ad avere coraggio e a ricordare i precetti stoici sul significato della morte, aggiungendo sarcasticamente che a Nerone che aveva già eliminato madre e fratello non mancava che di eliminare il proprio maestro.

Quindi abbracciò la moglie Paolina e consentì che anch’essa si suicidasse (poi la moglie venne salvata per ordine di Nerone, più che altro per una questione che oggi chiameremmo “d’immagine”). Infine Seneca cominciò il lungo e penoso percorso verso la morte. Il corpo ormai anziano e il parco stile di vita degli ultimi anni fecero sì che il
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Particolare di una gemma che
ritrae Nerone e Agrippina minor
suicidio si prolungasse visto che l’emorragia che doveva ucciderlo stentava a liberarsi: il filosofo si tagliò le vene di braccia e gambe, ma senza provocarsi la morte. In seguito chiese al proprio medico di avvelenarlo, ma poiché il veleno agiva lentamente decise di tentare con un bagno caldo, riuscendo alla fine nel suo intento solo soffocandosi con un bagno di vapore. Per capire il significato di questi tragici momenti estremi bisogna ricordare che il suicidio per uno stoico romano non era semplicemente una scelta, ma diventava in primo luogo un dovere morale di fronte ad un ostacolo insormontabile che impedisse il libero percorso verso la saggezza, unico obiettivo del sapiente. Agli occhi di Seneca Nerone, con le sue crudeltà e la sua azione politica di soffocamento della libertà dei cittadini e dei corpi dello stato, era ormai diventato un ostacolo insormontabile per la costruzione della sua saggezza e moralità personale: il suicidio non era solo un’imposizione dell’imperatore, quindi, ma era un imperativo della coscienza. Sul suo effettivo coinvolgimento e ruolo nella congiura non esistono prove, ma è comunque improbabile, visti i suoi legami con la corte e gli ambienti senatoriali, che Seneca fosse completamente all’oscuro di notizie su ciò che si stava preparando.
Sono però ancor più esplicative per comprendere il processo storico che portò all’eliminazione di Nerone tre anni dopo, le parole pronunciate contro l’imperatore da Subrio Flavo, il tribuno più deciso a eliminarlo: al momento della condanna a morte Nerone gli chiese perché avesse tradito il giuramento militare di obbedienza e fedeltà all’imperatore, grave onta per un militare, e Flavo gli rispose: “Ti odiavo. Nessun soldato ti fu più fedele di me, finché tu meritavi di essere amato: ho cominciato ad odiarti il giorno che tu sei apparso omicida della madre e della moglie, auriga, istrione, incendiario”. In queste poche battute di un condannato a morte si concentrano tutte le motivazioni che fecero progressivamente crescere l’ostilità verso un imperatore amato dal popolo, accettato prima e poi aspramente combattuto dalla maggior parte del Senato, quindi dall’esercito: Nerone aveva tradito i valori più profondi della romanità in nome del potere e, forse, di un progetto di rifondazione totale di una civiltà viva da più di ottocento anni.
BIBLIOGRAFIA

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2. Opere di storici antichi su Nerone e la congiura di Pisone.
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