Dalla rivoluzione degli ayatollah in Iran alla nascita dei movimenti che oggi
tengono sotto scacco politico, economico e psicologico il mondo occidentale
|
|
INTEGRALISMO ISLAMICO:
LE ORIGINI E L’ESPANSIONE
|
|
(Prima Parte) |
|
Il Medio Oriente è una regione che gode ormai da tempo di una notevole importanza strategica ed economica. Sin dai primi anni del secolo scorso, questo territorio assistette allo sviluppo di un movimento nazionale arabo che, indirizzatosi inizialmente contro il governo ottomano, si scagliò successivamente contro le potenze europee, accusate di sfruttare attraverso la pratica coloniale le ricchezze destinate ai musulmani.
Nel movimento arabo confluivano due principali componenti: quella tradizionalista, propugnatrice di un ritorno integrale ai precetti originari dell’Islam (da cui l’espressione “integralismo islamico”) e un’altra laica e nazionalista, più attenta alle tendenze moderniste e progressiste in senso economico. Nonostante la seconda tendenza, sostenuta sin dall’inizio dai capi dinastici, dai militari e dalle borghesie locali, finisse col prevalere sulla parte tradizionalista, non riuscì comunque ad estrometterla completamente. Fu così che il richiamo religioso all’ortodossia religiosa rimase molto forte.
La parola integralismo ha tuttavia un’origine ben diversa. Oggi, in modo sommario, il termine integralismo è spesso associato alla parola “fondamentalismo”, nonostante il senso più ampio che quest’ultima parola tende ad assumere.
Il termine fondamentalismo apparve per la prima volta in Inghilterra, collegato ad una serie di pubblicazioni uscite fra il 1910 e il 1915 con il titolo esplicito di The fundamentals. La paternità di queste pubblicazioni era attribuibile ad alcune chiese protestanti americane, che avevano come obiettivo l’opposizione alla neonata industria cinematografica, nonché il netto dissenso ai processi di secolarizzazione della religione cristiana.
Le crociate anti-moderniste ebbero poi un’importante appendice nella fondazione della World christian fundamentals association. I primi passi del fondamentalismo avvennero quindi in ambito cristiano, anche se poi il termine era destinato a valicare i confini confessionali per assumere chiari significati concettuali e finanche di ideologia.
La parola fondamentalismo, da questo punto di vista, può essere comodamente impiegata sia in ambito religioso sia politico e affonda le sue radici in un passato in realtà più remoto del XX sec.
Oggi, con una certa sicurezza si può concordemente sostenere che per fondamentalismo si intende una forte reazione a qualsiasi processo di secolarizzazione e/o di contaminazione della religione. Ogni religione rivelata si serve di dogmi, ovvero di verità sostenute da testi sacri che non possono venire assolutamente messe in discussione. Il fine è ovviamente quello di difendere le verità di cui la religione si fa portavoce e, al tempo stesso, di porre in atto un sistema difensivo nei confronti delle influenze della società moderna.
D’altro canto l’integralismo è una posizione intransigente secondo la quale i fondamenti della religione devono diventare anche la fonte da cui scaturisce il diritto giuridico, nonché modello per la vita pubblica e privata. Il chiaro diniego integralista nei confronti di una delle basi del pensiero politico recente, ovvero la sostanziale divisione tra Stato e Chiesa, pone qualsiasi individuo che assume posizioni integraliste in netta antitesi con buona parte delle società moderne o comunque di derivazione illuminista.
Storicamente la prima unione tra integralismo e fondamentalismo avvenne verso la fine degli anni Settanta in Iran, dove l’ayatollah Khomeini e la sua visione dell’Islam aliena da ogni forma di critica divennero il modello di tale associazione.
L’Iran si trasformò in un luogo d’eccezione per lo svolgimento dello scontro tra forze laiche, rivoluzionarie, conservatrici o comunque aperte alle influenze dei Paesi occidentali, e quelle integraliste/fondamentaliste.
E’ bene precisare che, sin dal primo dopoguerra, le forze laiche del mondo islamico avevano eletto come loro roccaforte la Turchia nata dalla rivoluzione di Mustafà Kemal e del Movimento dei giovani turchi. Inoltre, sarà utile rammentare che la Turchia godeva di una posizione geograficamente agevolata che la poneva in condizioni vantaggiose in contatto più con l’Europa che con l’Asia. Nel 1952 la Turchia aderì alla Nato, quasi a sottolineare ulteriormente la sua importanza nell’ambito dello scacchiere internazionale dettato dalle nuove esigenze della Guerra fredda.
Se la Turchia si avvicinava sempre di più all’Occidente, altre zone, come l’Iran, divennero, a partire dal 1979, la base delle correnti integraliste islamiche, di solito minoritarie nei Paesi musulmani.
L’Iran è un paese vasto e molto popolato, ricco di materie prime come il petrolio. Anzi potremmo dire che è proprio il petrolio a fare dello stato iraniano un importante punto di riferimento per gli interessi industriali. La posizione geografica permette al paese medio orientale di essere un importante crocevia per molte delle rotte petrolifere. Non mancavano né sono mai mancate quindi le attenzioni dei Paesi occidentali, ampiamente dimostrate dalla posizione politica del governo dello Scià prima dell’avvento del regime degli ayatollah. Sino a quel momento l’Iran aveva saldamente fatte proprie le posizioni filo occidentali della Turchia, divenendo tra l’altro un partner ideale per gli Usa nel controllo e nel rafforzamento delle posizioni occidentali in Medio oriente.
Ogni tentativo d’intromissione nel campo degli interessi petroliferi era stato duramente colpito. Una riprova era dimostrata dal colpo di stato del 1953 che portò alla rovinosa caduta del primo ministro Mossadeq, colpevole di aver tentato, tramite una riforma, di nazionalizzare le compagnie petrolifere operanti in territorio iraniano.
Da quel momento il Paese venne governato con metodi autoritari e a tratti dispotici dallo Scià (imperatore) Rheza Palhavi . Lo Scià nel corso degli anni Sessanta aveva avviato un accelerato processo di modernizzazione del Paese, che aveva come scopo quello di raggiungere presto il grado di potenza militare. Le riforme non ebbero, tuttavia, una ricaduta a favore della popolazione, che anzi vide velocemente peggiorare le proprie condizioni di vita.
L’effetto politico fu un sostanziale irrigidimento delle posizioni politiche dell’opposizione sia di sinistra sia del clero tradizionalista che si pose, nel 1978, alla guida di un vasto movimento di protesta popolare.
Lo Scià tentò dapprima la via della repressione poi quella del dialogo richiamando al governo alcuni esponenti dell’opposizione, noti per le posizioni moderate. Tuttavia, nel gennaio del 1979, dopo che anche gli Stati Uniti decisero di abbandonarlo, scelse la strada dell’esilio.
L’Iran divenne una Repubblica islamica di matrice teocratica, in cui si ebbe per la prima volta nella storia post – coloniale del Medio oriente, la realizzazione di uno Stato integralista/fondamentalista, la cui guida, Khomeini, era anche il massimo leader spirituale della comunità sciita.
Le posizioni antioccidentali del neo- governo iraniano si fecero sentire sin dalle prime battute nel forte contrasto che oppose il nuovo regime e gli Usa, accusati di aver appoggiato lo Scià e di averlo ospitato dopo la sua fuga. Si arrivò presto allo scontro, quando, tra il novembre 1979 e il gennaio 1981, il personale dell’ambasciata satatunitense a Teheran venne tenuto prigioniero da un gruppo di militanti islamici in piena sintonia con le autorità locali. Il fallimentare tentativo ordinato dal presidente Carter di liberare gli ostaggi nell’aprile dell’80 da parte di un commando USA, accrebbe a dismisura la tensione. Infine, la questione degli “ostaggi di Teheran” si risolse solo dopo una lunga ed estenuante trattativa.
Nella nascita della Repubblica islamica iraniana si evidenziò chiaramente come integralismo e fondamentalismo fossero sinonimi di utilizzo politico della religione, che si esplicava e ancora si esplica nel rifiuto nei confronti di molte libertà individuali da cui nascono i principi del pensiero pluralista e democratico.
Inoltre, il fondamentalisno/integralismo nella sua forma islamica in particolare, ma più in generale in qualsiasi altra religione, determina una concezione del mondo in cui l’identità individuale deve sottoporsi ai dettami divini per tutto ciò che riguarda la società (economia, politica, comportamenti sociali, etc.).
Conseguentemente il vero credente deve accettare e fare accettare la legge divina, tentando anche di imporla ovunque essa non sia arrivata. Tale obbligo assume il nome di jiahd che molta letteratura occidentale ha erroneamente tradotto con l’espressione “guerra santa”, ma che in realtà significa “sforzo” e “fatica”.
Con l’uso di tale termine si fa riferimento quindi allo sforzo di diffondere la parola di Dio, lottando strenuamente soprattutto contro l’ignoranza del mondo occidentale, ma anche nei confronti dei fratelli che hanno smarrito la retta via.
Come hanno ben riportato Antonio e Gianni Cipriani nel recente volume “La nuova guerra mondiale. Terrorismo e intelligence nei conflitti globali” (Ed. Sperling e Kupfer, Milano 2005): “ La nuova realtà sociale che ne consegue limita l’individuo in una condizione di assoluta immobilità culturale e crea i presupposti ottimali per la negazione della protesta. Ciò accade laddove la società è organizzata sulla base delle leggi islamiche o, meglio ancora, sulle interpretazioni fondamentaliste di esse. In una società dove il progresso e l’evoluzione culturale vengono spesso intesi come rottura con le tradizioni e perdita di identità, l’Islam fornisce ai credenti una direttrice morale, religiosa, giuridica e politica che permette di strutturare l’andamento della loro vita terrena”.
Chiaramente si commetterebbe un errore di valutazione, pensando che il fondamentalismo e l’integralismo siano le uniche interpretazioni dell’Islam, anche se poi risultano essere presenti in varie forme sia tra i sunniti che tra gli sciiti.
Vero è che l’integralismo e il fondamentalismo hanno giocato un ruolo di grande importanza all’indomani della sconfitta del nazionalismo pan –arabo di chiara derivazione socialista e laica, che ebbe nell’uomo politico egiziano Nasser la sua più felice caratterizzazione.
A tale visione i tradizionalisti non perdonarono mai le aperture moderniste nonché le posizioni nazionaliste, fortemente in contrasto con la visione di unicità della nazione islamica, dove i confini territoriali fossero spazzati via in nome dell’unità di tutti i fratelli musulmani.
Ne consegue, inoltre, che la visione integralista dello Stato urta prepotentemente contro qualsivoglia regime politico, repubblicano o monarchico, criticati per la loro corruzione e giudicati lontani dal vero Islam.
Paradossalmente il primo vero grande esperimento integralista avvenne grazie alla rivoluzione iraniana del 1979,ovvero proprio per mano e nel luogo di maggiore concentrazione sciita che attualmente rappresenta circa il 10 per cento della popolazione musulmana.
I sunniti, dal canto loro, ebbero altre esperienze legate all’integralismo e al fondamentalismo, tra le quali degne di nota appaiono il salafismo e il wahhabismo.
Il salafismo è una corrente fondamentalista che ha mosso i primi passi grazie all’opera del riformatore religioso egiziano Muhammad Abduh (1849 – 1905), le cui idee vennero riprese e ampliate dal suo seguace Rashid Rida (1865 – 1935). Le idee base del salafismo, la cosiddetta Salafiyya, sostenevano che per conferire una nuova accelerazione e credibilità all’Islam, fosse necessario depurare la religione di tutti quegli elementi che nel corso della sua storia ne avevano contaminato i precetti originari. Non ci si deve quindi confrontare con il mondo moderno, ma bisogna combattere le posizioni progressiste in funzione del recupero della purezza originaria del messaggio islamico. Salaf in arabo significa antenato e viene utilizzato come nome per il movimento che ha come riferimento l’Islam dei primi musulmani.
Muhammad Abduh sosteneva che solo attraverso il diretto contatto con le fonti del primo Islam si potesse cogliere il vero messaggio.
Tali fonti sono identificabili nel Corano, il libro sacro per eccellenza, e la Sunna che descrive i comportamenti palesi o impliciti di Maometto nel corso della sua vita.
Il salafismo non ha contrasti con la scienza, purché quest’ultima non invada il campo della religione; inoltre i salafiti si mantengono su posizioni fortemente critiche nei confronti del tradizionalismo islamico, in quanto non ammettono alcuna interpretazione del messaggio se non quella dei primi musulmani.
Questi “puristi” dell’Islam, ovviamente, da un punto di vista squisitamente politico, non possono che avversare profondamente qualsiasi forma di governo nazionale, dato che la loro visione politica si muove più su posizioni “internazionaliste”, coincidenti con la diffusione mondiale dell’Islam, che sulla considerazione delle differenze nazionali.
Il salafismo, ma in realtà l’Islam, è alieno da qualsiasi forma di razzismo sia antropologico che culturale, in quanto l’unica distinzione tra gli uomini avviene nei termini di credente (muslim) e non credente (kafir).
Oggi questa corrente, che per molti anni era rimasta impegnata su questioni di ortodossia attraverso metodi puramente formali, si è diffusa soprattutto tra le giovani generazioni di musulmani emigrate in occidente e fiduciose di recuperare e salvaguardare la loro identità e le loro origini. Il modello occidentale avvertito come foriero di contaminazioni, in molti casi ha determinato un ritorno al paleo – islamismo di cui il salafismo jihadista si è fatto interprete, entrando di forza anche nel confronto politico tra Islam e Occidente. Così è giunta ben presto da parte occidentale l’accusa nei confronti dei salafiti di rappresentare una base ideologica del terrorismo.
Un’accusa che, per dire la verità, ha trovato tristi conferme nelle operazioni terroristiche di alcuni gruppi estremisti, soprattutto di nazionalità marocchina e algerina, che hanno recuperato nella predicazione salafita una forte motivazione nella lotta contro i “crociati e i sionisti”.
Il salafismo non nasce come esperienza estemporanea, in quanto risulta a sua volta influenzato dal wahhabismo e dal movimento della Wahhabyya, una corrente di pensiero sunnita, riconducibile al saudita Muhammad bin Abd al-Wahhab (1703 – 1791), che denunziò nel corso della sua predicazione il pericolo di corruzione che minacciava l’Islam.
Il wahhabismo strinse un’importante e solida alleanza nella Penisola arabica con l’emiro Muhammad bin Saud (1744) volta ad estromettere per sempre la presenza ottomana da quei territori. La lotta ispirata dagli insegnamenti di al-Wahhab e condotta dall’esercito di bin Saud, si concluse solo tra il 1924 e il 1925, quando gli eredi di bin Saud completarono e consolidarono il loro controllo sulla penisola. Nel 1932 Abd al-Aziz Abd al-Rahaman bin Saud divenne il primo re di quella zona del mondo arabo da allora denominata, appunto, Arabia Saudita.
Il wahhabismo finì comunque col contaminare la nascita dello stato saudita in quanto da sempre si propose a favore di un apparato legislativo che prendesse spunto dalla sharia, la legge islamica, da imporre in senso stretto su tutto il territorio. Ne consegue che se ancora oggi il diritto saudita prevede il taglio della mano per i ladri, la lapidazione delle adultere, la decapitazione in pubblica piazza per i reati più gravi e la pratica legale della poligamia, tutto ciò è chiaramente ascrivibile a tale influenza.
L’influenza del wahhabismo si fa sentire anche nelle proibizioni relative all’uso di alcol, caffe, tè o tabacco, tutte giudicate sostanze intossicanti o sull’uso del velo imposto alle donne quando si trovano fuori dalla loro abitazione.
Inoltre, il wahhabismo ha trovato notevoli contrasti con gli sciiti, in quanto contrario a qualsiasi forma di manifestazione esterna di devozione e quindi critico contro i pellegrinaggi quasi fanatici degli sciiti verso le tombe dei personaggi religiosi protagonisti della genesi islamica o del loro attaccamento quasi morboso nei confronti dell’imam (capo religioso di una comunità islamica locale).
Insomma il wahhabismo finì con l’alimentare il divario tra sciiti e sunniti che scaturì anche in momenti di alta tensione come nel luglio del 1979, quando alcune centinaia di militanti sciiti, guidati dal leader politico e religioso Muhammad Qahtani, occuparono la moschea della Mecca tentando di imporre un controllo armato dalla tomba di Maometto. Solo l’intervento delle forze speciali saudite impedì l’avverarsi di tale disegno, che comunque causò la morte di 101 persone e la decapitazione in pubblica piazza di 63 sciiti fatti prigionieri, mentre Qahtani veniva celebrato dal mondo sciita come il nuovo messia islamico.
Nel 1987 un nuovo tentativo da parte sciita di alimentare la protesta contro la famiglia regnante saudita, giudicata indegna di custodire la tomba del profeta Maometto, sfociò in scontri che costarono la vita a 402 iraniani uccisi dalle forze di sicurezza saudite.
In effetti la caleidoscopica realtà del fondamentalismo e dell’integralismo islamico appare ben più complessa e articolata o, comunque, non unicamente riconducibile a matrici sciite o salafite e wahhabite ascrivibili alla dimensione sunnita jiadhista.
Antonio e Gianni Cipriani, nell’ opera sopra citata, sostengono che: “Oggi alcuni movimenti fondamentalisti, in ambito sunnita (la corrente che raccoglie il 90 per cento circa dei musulmani), auspicano un ritorno al califfato, cioè a un’unica rappresentanza politco-religiosa della umma, la comunità islamica. I gruppi salafiti accusano i regimi musulmani “moderati” di corruzione, guardando al “tempo d’oro” dell’Islam rappresentato dai califfi “ben guidati”, e riprendono spesso concetti del wahhabismo e della società dei Fratelli musulmani”.
L’anima riformista che guida i gruppi jiadhisti volge quindi verso la creazione di una grande nazione islamica, ove il termine nazione dovrebbe essere sostituito dalla parola califfato ( in memoria del primo califfo della storia islamica, Abu Bakr, marito di A’isha figlia di Maometto), secondo una chiara posizione nettamente contraria a qualsiasi modello occidentale, anche di ispirazione socialista “alla Nasser”. Tali posizioni sono alimentate da un’analisi storica che sancisce il sostanziale fallimento di nazioni arabe (e in tal senso devono essere inquadrati gli sforzi di Egitto, Siria e Libano) basate sull’affinità socio-linguistica e su denominatori comuni rintracciabili nelle vicende storiche delle singole nazioni. Tale fallimento è, in primo luogo, ravvisabile nella sconfitta di tali entità politiche scaturita dallo scontro con Israele e alimentata dalle forti divisioni interne, cui unico rimedio sembra essere un ritorno al fondamentalismo islamico e ai “principi politici” da esso propugnati.
Inoltre, i fondamentalisti si distinguono per negare qualsiasi possibilità positiva al progresso umano, destinato comunque a fallire se privato della guida della religione. Ma non sono solo i principi filosofici (di natura hegeliana potrebbe asserire un occidentale) ad essere messi al bando, quanto l’intera impalcatura del pensiero occidentale dall’Illuminismo ad oggi, che posta sul banco degli imputati, rischia di diventare la “pietra dello scandalo” e non (come dovrebbe essere) il frutto di secoli di lotta contro l’ignoranza e il pregiudizio per l’affermazione delle libertà individuali e collettive.
Al-Qaeda, organizzazione terroristica internazionale che propugna l’unità dei musulmani contro i soprusi dell’Occidente, ha edificato su quest’asserto la propria ideologia.
In tal senso agiscono altri gruppi estremisti islamici come la Jamaa al-Islamia al-Musallah (Gruppo islamico armato, Gia) nata in territorio algerino nel 1992 con lo scopo di opporsi militarmente al tentativo di cancellare il risultato delle elezioni politiche che avevano sancito la vittoria del Fis (Fronte islamico di salvezza). La nascita di tale gruppo ha dato il via ad una vera e propria guerra civile che ha insanguinato l’Algeria per buona parte degli anni Novanta.
Ben presto il Gia è stato isolato dalle altre forze politiche algerine a causa dell’efferatezza delle sue azioni in particolare rivolte verso la popolazione civile.
Tra i fondatori del Gia vi sono molti veterani che parteciparono alla guerra in Afghanistan contro l’Armata Rossa che sosteneva il governo filo – comunista di Naijbullah e che si concluse con la sconfitta dei russi.
Negli ultimi anni, proprio quando la tensione tra governo algerino e sostenitori del Fis si è acutizzata, si è fatta strada una generazione di giovani leader che hanno trasformato in senso ancora più settario la struttura organizzativa per timore di infiltrazioni.
Tra i nuovi capi spicca la figura di Antar Zouabri, che al momento della nomina aveva solo 26 anni, distintosi per aver organizzato direttamente o comunque supportato una vasta azione terroristica rivolta contro strutture governative o atta a colpire gli harki (così sono definiti i sostenitori del governo; il termine harki deriva da quegli algerini che durante la guerra d’indipendenza contro la Francia militavano nell’esercito francese).
Le azioni dei gruppi comandati da Zouabri si sono rese tristemente celebri per essere connotate da estrema violenza, culminate frequentemente nella violenta eliminazione di civili, tra cui donne e bambini, la cui colpa era unicamente quella di avere un rapporto di parentela con i sostenitori del governo del presidente algerino Liamine Zéroual. A tal proposito estremamente significativa appare la posizione espressa da Assouli Mahfoudh, l’esperto religioso del gruppo, che in un bollettino informativo sosteneva la legittimità di assassinare donne e bambini se in rapporti di parentela con i “nemici dell’Islam”. Inoltre Mahfoudh, nel tentativo di rassicurare i militanti del Gia davanti ad eventuali abusi, aveva aggiunto che “gli innocenti tra essi andranno in paradiso. Quando sentite parlare di stragi e di sgozzamenti in una città o in un villaggio sappiate che si tratta di partigiani del tiranno”.
La tensione in Algeria nella seconda metà degli anni Novanta è cresciuta a dismisura. Gli occidentali si sono quasi abituati ad apprendere notizie di massacri e attentati ad opera del Gia, dove tuttavia non è sempre rimasta esclusa una certa responsabilità da parte del governo militare.
Infatti in alcuni casi le azioni terroristiche del Gia sono state perpetrate senza che le forze di sicurezza governative avessero fatto qualcosa per impedirle. Si sono verificati anche casi in cui le stesse forze governative abbiano volutamente tardato ad intervenire “perché l’innalzamento del livello dello scontro e il massacro di civili erano utili all’isolamento del Gruppo islamico armato rispetto alla base simpatizzante”.
La situazione è degenerata dopo l’uccisione di Antar Zouabri, avvenuta l’8 febbraio 2002 ad opera delle forze di sicurezza. Al suo posto un giovane ventiseienne di nome Rachid Tourab è divenuto il nuovo emiro del Gia e ha promosso una vasta azione di violenza senza precedenti destinata ad infiammare buona parte del Paese maghrebino.
Rachid Tourab è stato infine arrestato nel novembre del 2003; con il suo arresto l’azione delle forze di sicurezza algerine si è fatta più incisiva, determinando la fuga di molti membri del Gia in Marocco, Mali e Mauritania.
Il Gia per la politica estremamente violenta adottata e a causa delle secessioni interne è stato gradualmente posto ai margini della vita pubblica sino a ritrovarsi completamente isolato.
Fonti ufficiali parlano di 100.000 vittime cadute a causa della guerra civile tra il 1992 e il 2003; tuttavia, fonti attribuibili ai partiti di opposizione, supportate dalle testimonianze di osservatori internazionali, affermano che nel medesimo lasso di tempo sono morte circa 150.000 persone.
“Un bilancio troppo elevato anche per coloro i quali, al pari del Gruppo islamico armato, hanno tra i loro progetti quello della costituzione di una repubblica islamicadi Algeria, le cui leggi dovrebbero essere uniformate alla sharia”.
Una repubblica islamica algerina d’ispirazione sunnita che ispirerebbe la propria costituzione più sul modello dello stato islamico talebano d’Afghanistan che sull’ esempio iraniano di chiara appartenenza sciita.
Il termine “talebano” deriva dall’arabo “talib” che significa studente in senso generico. La più diffusa traduzione occidentale tende ad equiparare il talebano con lo studente del Corano, anche se questa accezione è invalsa a partire dall’affermazione politica dei talebani afghani. In occidente si è anche affermata la tendenza ad equiparare il talebano al fanatico o integralista di fede islamica, proprio partendo dalla presa del potere di questo gruppo che ha radicalmente trasformato la vita della popolazione afgana, ispirando la propria azione ad una serie di principi derivati dall’interpretazione letterale del Corano e alla rigida applicazione della sharia.
I talebani compaiono in Afghanistan nel 1994 nelle aree a maggioranza pashtun. Dalla loro comparizione non erano trascorsi ancora due anni dalla fine del conflitto tra i mujahidin e il governo di Najibullah, che aveva insanguinato il paese tra il 1979 e il 1992. Il conflitto aveva visto tra i protagonisti anche l’Armata rossa che, però, dopo la caduta del muro di Berlino, aveva deciso di ritirare le proprie truppe.
I mujahidin dopo la conquista della capitale Kabul, misero fine al regime di Mohammad Najibullah, successore di Barbak Karmal e ultimo esponente del Partito comunista afghano.
Ma i mujahidin erano ben lungi dall’essere l’espressione di un unico movimento politico, anzi spesso e volentieri erano militanti in diverse compagini che avevano avuto in comune solo l’obiettivo da abbattere. Una volta cessata questa priorità riemersero con forza le divisioni tra i combattenti di Allah che peraltro nelle loro diversità riproponevano spesso differenze di origine tribale.
In ciò è ravvisabile una costante che si perpetua nella tormentata storia afghana, una terra situata in una collocazione strategica dell'Asia centrale, anche se non si può certo dire che la geografia abbia contribuito molto alle fortune del Paese. Anzi è quasi possibile affermare il contrario, dato che l’Afghanistan ha pagato spesso un prezzo assai salato a causa della sua condizione di stato cuscinetto. D’altra parte le guerre e le occupazioni militari straniere ne hanno contrassegnato la storia passata e presente.
“L’Afghanistan è da secoli una terra di passaggio e mosaico di gruppi etnici e religiosi diversi: i pashtun, tribù di tradizione nomade, numericamente maggioritaria,élite politica e militare; i tagichi, di lingua persiana ma sunniti (in Iran la maggioranza è di fede sciita), soprattutto commercianti e agricoltori; gli hazari sciiti, arroccati nel massiccio centrale afgano; infine le tribù appartenenti al ceppo turco-uzbeco delle regioni più settentrionali”.
In questo vero e proprio crogiuolo di etnie, nel 1994, comparve tra i pashtun una nuova forza politico-militare, che si dichiarava acerrima nemica di tutte le fazioni che fino a quel momento avevano combattuto unite contro i comunisti, ma che dopo la fine della guerra avevano fatto precipitare il Paese in una nuova drammatica guerra civile.
I membri di questo partito di chiara ispirazione coranica si facevano chiamare talebani, ovvero studenti dell’Islam. La maggior parte di loro era nata e cresciuta nei campi profughi, che sorgevano numerosi lungo il confine pakistano e sostenuti soprattutto dal movimento islamico radicale Jamiat-e-Ulema Islami (Jui, Associazione islamica degli ulema), con il sostegno finanziario dell’Arabia Saudita.
Nel corso degli anni molti giovani pashtun erano stati indottrinati secondo le più rigide regole coraniche e, in cambio di vitto e alloggio, avevano giurato fedeltà ai principi guida del Corano; i primi talebani avevano, inoltre, ricevuto una formazione militare parallela a quella religiosa grazie all’intervento e alla supervisione dei servizi segreti pakistani (ISI) che agivano a loro volta coadiuvati dalla CIA. L’interesse degli USA nell’area era evidentemente denotato dal conflitto in corso in Afghanistan tra russi e mujahidin e rientrava quindi in un’ottica tipica della Guerra fredda. Finita l’”emergenza russa” i talebani approfittarono della caotica situazione politica afgana per iniziare la loro vittoriosa marcia verso Kabul con l’evidente intento di fare del Paese una repubblica islamica. Di fronte alle milizie talebane molti mujiahidin di etnia pashtun non opposero resistenza finendo spesso col confluire nelle loro file. In poco tempo l’Afghanistan meridionale e centrale venne occupato fino a giungere alle porte di Kabul. I talebani trovarono ben presto nuovi alleati come i militanti di Hezb-e-Islami (Partito islamico) o come i fedeli di Gulbuddin Hekmatyar, signore della guerra pashtun.
“Il 27 settembre il mullah Mohammad Omar guidò l’assalto finale talebano alla capitale, che fu conquistata rapidamente . Il comunista Najibullah fu prelevato dalla sede Onu , evirato e impiccato a un lampione assieme con il fratello. Come primo atto del nuovo potere, dunque, gli studenti delle madrasse violarono l’immunità accordata a una persona dalle Nazioni Unite, provocando la dura reazione dell’Onu e orrore ed esecrazione in tutto il mondo. In seguito i talebani imposero il loro orien fino al 2001, quando le bombe americane e l’offensiva dell’Alleanza del Nord (il fronte che dal 1996 univa i gruppi di opposizione ai talebani, in supporto al deposto governo di Burhanuddin Rabbani) decretarono la fine del regime”.
Ma quale dottrina seguono i talebani? Quali sono le loro relazioni con il fondamentalismo/integralismo arabo internazionale? Sono veramente scomparsi dalla scena afghana dopo l’interevento americano seguito ai fatti dell’11 settembre 2001? Domande alle quali appare difficile rispondere visto l’attualità dei fatti cui si fa riferimento, ma alle quali cercheremo di fornire una chiave interpretativa, evidenziando il modello di riferimento delle milizie talebane e i rapporti privilegiati tra l’Afghanistan talebano e il noto terrorista Usama bin Laden.
In primo luogo è bene chiarire quali sono i fondamenti del progetto politico dei talebani e del loro leader storico, il mullah Omar. Il progetto che quest’ultimo si era ripromesso di realizzare aveva come prerequisito la unificazione del popolo afghano, da sempre diviso, come abbiamo già visto, da interessi tribali. Dopo l’unità, si sarebbe dovuto insediare un governo islamico di stretta osservanza, che avrebbe dato un nuovo apparato giuridico alla nazione attraverso la rigida applicazione della sharia.
Inizialmente i talebani riscuoterono comunque il plauso di una buona parte della popolazione afghana, convinta che il loro avvento al potere avrebbe portato una ventata moralizzatrice nella tormentata politica nazionale. A loro erano favorevoli anche importanti settori della diplomazia internazionale. Le stesse Nazioni Unite, dopo aver condannato aspramente l’episodio legato alla morte di Najibullah, intravidero l’opportunità di una soluzione definitiva nella decennale guerra civile alimentata dalle fazioni. Gli Stati Uniti non disdegnarono i rapporti diplomatici con il nuovo regime di Kabul, visto che i talebani erano appoggiati dal Pakistan, alleato degli USA e antagonista dell’Iran del progetto di costruire e controllare oleodotti e gasdotti che sarebbero dovuti passare proprio attraverso l’Afghanistan.
D’altra parte il governo di Washington non aveva certo dimenticato la crisi di Teheran del 1979 e da allora i rapporti diplomatici con il regime sciita iraniano erano stati tutt’altro che pacifici (Allo stato attuale delle cose l’Iran è inserito nell’elenco dei Rogue States – Stati canaglia avversati dagli USA). Anche l’Arabia Saudita guardava con grande interesse al regime talebano, in quanto l’apparato ideologico di quest’ultimo faceva esplicitamente riferimento al movimento fondamentalista del waabhismo, che, come abbiamo visto, nacque e si diffuse ampiamente in Arabia.
Tuttavia una volta entrati a Kabul i talebani fecero vedere realmente di che pasta erano fatti. In primo luogo qualsiasi possibilità di mediazione venne rigettata. Numerose furono le esecuzioni sommarie e gli atti di violenza “giustificati” dalla volontà di adempiere alle prescrizioni divine.
La stessa popolazione si accorse ben presto che la pacificazione del Paese avrebbe preteso il pagamento di un enorme tributo in termini di libertà. Gli uomini furono costretti a farsi crescere la barba, mentre alle donne veniva fatto obbligo di indossare il Burqa ogni qualvolta fossero uscite di casa.
Le donne, inoltre, vennero escluse da ogni forma di vita civile e relegate a una posizione subalterna rispetto agli uomini. Così Antonio e Gianni Cipriani hanno descritto la situazione:“… i talebani più giovani non conoscevano né l’Afghanistan né la sua storia. Odiavano i mujahidin che avevano portato il paese alla guerra civile e sognavano una società islamica come quella di Maomettto; erano degli stranieri in patria, con una base ideologica non paragonabile ad alcuna delle correnti fondamentaliste più estreme. Ingaggiavano una jihad contro i musulmani corrotti, colpevoli della rovina dell’Afghanistan e, da un punto di vista dottrinale, si basavano sul deobandismo, una corrente riformista radicale nata in India alla fine dell’Ottocento.
In pratica i talebani costrinsero le donne a nascondersi completamente sotto il burqa, senza avere il diritto al lavoro e all’assistenza sanitaria. Gli uomini erano costretti a lasciarsi crescere la barba, mentre vennero proibite le arti e il divertimento, come la musica e la televisione, ritenute immorali.
Per cancellare ogni traccia preislamica, inoltre nel febbraio del 2001,i talebani ordinarono che le truppe speciali del ministero della Virtù e del Vizio distruggessero le due gigantesche statue di Buddah (alte 53 e 37 metri) scavate nella roccia nella regione di Bamyan, risalenti al II e al IV secolo dopo cristo e considerate dall’Unesco patrimonio dell’umanità”.
Dopo la guerra contro l’Afghanistan promosso nell’ottobre del 2001 dagli USA, il Paese è guidato dal leader Hamid Karzai che ha conquistato il potere grazie all’appoggio statunitense. I talebani non hanno cessato, tuttavia, di rappresentare un elemento di forte destabilizzazione degli equilibri politici nazionali, riaffermando la loro presenza attraverso numerosi attentati contro le forse occidentali presenti sul territorio.
Lo stesso Karzai, chiamato ironicamente “il sindaco di Kabul”, controlla solo la zona attorno della capitale, mentre il restante territorio è ancora sottoposto al controllo dei vari capi tribù nonché signori della guerra.
(1 - Continua)
|
|
BIBLIOGRAFIA
Le citazioni e la maggior parte delle notizie sono state prese dal volume:
La nuova guerra mondiale. Terrorismo e intelligence nei conflitti globali, di Antonio e Gianni Cipriani - Ed. Sperling e Kupfer, Milano 2005.
Si veda inoltre:
Moduli di Storia dal 1900 a oggi. Il manuale III, di A Giardina, G. Sabbatucci e V. Vidotto - Laterza, Roma-Bari 1998.
|
|
|