Con l’apertura de “La Rinascente” (Milano 1917) comincia anche nel nostro
Paese l’era dei grandi magazzini. Quando l’economia è ancora in difficoltà.
DALL’ITALIA AFFAMATA DI CIBO
A QUELLA NUTRITA DI CONSUMISMO
di GIORGIO SCUDELETTI
Alcuni termini del linguaggio economico e sociologico sono entrati a far parte della lingua comune e della nostra quotidianità in modo quasi inavvertibile: consumismo, grande distribuzione, catena, franchising, parole che rimandano a un popolo di consumatori di massa, legati alla dimensione di un commercio che non può più essere quello della bottega se non in misura sempre meno significativa. Eppure questo popolo di consumatori, oggi realtà quotidiana per chiunque si rechi a far spese o passeggi per il centro delle città, è un fenomeno relativamente recente che per strutturarsi come tale ha seguito un percorso piuttosto lungo e non sempre lineare, un fenomeno che ha interagito con ostacoli tenaci, quelli legati a fattori concreti, come le disponibilità economiche, e ad altri apparentemente impalpabili come il gusto e la mentalità, i pregiudizi e le aspirazioni, la rispettabilità e il decoro.
Soprattutto a questi elementi è dedicato un saggio interessante e significativo di Elena Papadia, La Rinascente (2005, pp. 170), che compare nella collana dell’editore il Mulino dedicato a “L’identità italiana”. La catena di grandi magazzini che ormai da quasi un secolo è una presenza fissa nel panorama urbano delle città italiane più importanti, a cominciare da Milano che la vide nascere, era già stata oggetto di un ampio studio circa quindici anni fa da parte di Franco Amatori, (Proprietà e direzione. La Rinascente, Milano, Angeli) che si era concentrato sulla fisionomia imprenditoriale, le scelte strategiche, i successi e gli insuccessi nella prospettiva privilegiata dalla business history.

La ricostruzione storica di Papadia approfondisce invece gli aspetti relativi alle
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Logo di Max Huber
per la Rinascente
tipologie di consumo e alla loro evoluzione, la trasformazione del gusto, la diversificazione dei consumatori, che progressivamente cambiano, si confrontano, si stratificano, aumentano, in un processo che definire di “democratizzazione riuscita” non è forse esagerato. Questo senza che l’autrice trascuri il lavoro dentro il grande magazzino e l’immagine che “la Rinascente” intese offrire di sé al pubblico. Aspetto ironico delle origini della catena milanese, emblema della clientela di massa, fu che il suo nome si dovette, nel 1917, all’inventiva proprio del rappresentante più in vista dell’estetismo e dell’elitismo a cavallo tra XIX e XX secolo, Gabriele d’Annunzio, nemico del “popolo bue”, poeta ma anche abile elaboratore di slogan e parole d’ordine (“Cagoia”, “Memento Audere Semper”, ecc.).
Senatore Borletti, mente dell’impresa “la Rinascente”, si rivolse al “vate” per la sua capacità di comprendere immediatamente ciò che avrebbe colpito la folla, si trattasse di letteratura, gesti plateali o, appunto, parole efficaci. Inizialmente fu questo l’unico carattere originale e “italiano” della Rinascente, in quanto dietro il più noto grande magazzino italiano abbiamo un modello di organizzazione imprenditoriale e commerciale che ebbe il proprio inizio in Francia e la propria evoluzione decisiva negli Stati Uniti, secondo una dinamica tipica delle imprese di massa rispetto alle quali l’Italia è costantemente una nazione late comer.

Il primo grande magazzino, infatti, si dovette all’intuito e all’intelligenza di un ex commesso parigino, Boucicaut che, alla metà del XIX secolo, dopo aver acquistato un negozio di merceria nella capitale francese, il “Bon Marchè”, lo trasformò radicalmente: merci, anziché riposte in scatole, esposte a scaffale aperto, da guardare e desiderare, con ingresso libero; prezzi a loro volta esposti e fissati una volta per tutte, evitando così la pratica della contrattazione tra commerciante e clientela, in gran parte di sesso femminile; convenienza dovuta al rapporto tra grandi volumi di merci e basso prezzo unitario. Elementi che fanno ormai parte della nostra odierna esperienza di consumatori, ma fissatisi solo un secolo e mezzo fa e affermatisi in Italia con grande fatica.
Fatica che invece i grandi magazzini non incontrarono negli Stati Uniti, che divennero il luogo per eccellenza del consumo di massa nella seconda metà dell’ Ottocento: Papadia osserva come negli Usa, caratterizzati da un ceto medio diffuso, “i beni tendevano a caratterizzarsi di una connotazione di cittadinanza piuttosto che di classe”. Il modo di vita americano si basava, infatti, su un’idea diffusasi in Europa solo nella seconda metà del secolo passato: cioè che “tutti gli americani potessero avere lo stesso stile di vita, e che quello stile di vita, fondato su un accesso allargato al consumo, fosse l’anima della democrazia”.

E non a caso fu proprio negli Stati Uniti che nacque il primo magazzino a prezzo unico, vero nemico dell’elitismo e del consumo di status, con la merce esposta a prezzi di cinque o dieci centesimi in ambienti ampi e luminosi, ma molto spartani nell’arredo e privi di servizi, caffetteria, fumoir, emeroteca, cioè quelle componenti a latere in grado di fornire un elegante disimpegno allo shopping e che rendevano i grandi magazzini di tipo francese molto apprezzati anche dalla clientela di ceto più elevato.
Questi due modelli di commercio su ampia scala, francese e statunitense, giunsero in Italia
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Rinascente 1964: manifesto
dedicato alla moda maschile
relativamente tardi, il primo nel 1877, l’altro solo negli anni Venti del Novecento. Furono i fratelli Bocconi ad aprire a Milano il primo grande magazzino dal nome non a caso francese “Aux villes d’Italie”, che diverrà “Alle città d’Italia” e si espanse come catena nelle altre principali realtà urbane della penisola: la lezione del “Bon Marchè” era stata ben recepita dai Bocconi, le merci erano esposte e ben visibili dalle strade cittadine grazie alle vetrine ampie e luminose, i colori erano studiati per attirare sguardi desiderosi, la forma diventava davvero sostanza per vendere.
E Milano era il luogo migliore per cominciare, visto che il capoluogo lombardo stava compiendo passi decisivi verso una modernità di massa, illuminata dall’elettricità, che già era visibile alla fine dell’Ottocento. Tuttavia i proprietari non riuscirono a comprendere e tanto meno ad anticipare le dinamiche di un mercato in continua evoluzione, sbagliando nel non connotare con decisione la propria catena commerciale secondo un target chiaramente definito: la mancata scelta di una clientela medio-alta oppure chiaramente popolare penalizzò “Alle città d’Italia”, che la famiglia Bocconi dovette vendere nel 1917 al rampante industriale milanese Senatore Borletti che aveva costituito una cordata di investitori supportata dalla potente Banca di Sconto.

Borletti fu una delle figure più dinamiche dell’imprenditoria italiana nella prima metà del secolo scorso, impegnato sia nell’industria meccanica (orologi), che lo aveva arricchito con la produzione di spolette durante il primo conflitto mondiale, sia nell’industria tessile, con il Linificio e canapificio nazionale. La diversificazione degli investimenti produttivi tipica delle strategie dell’industriale milanese originò così l’avventura della “Rinascente”, che Borletti intendeva connotare secondo un chiaro progetto imprenditoriale, nelle parole di Papadia, “affiancare al requisito della convenienza dei prezzi, irrinunciabile nella logica della grande distribuzione, quello di un alto standard qualitativo, in cui la bontà dei materiali si combinasse con uno stile riconoscibile e improntato al buon gusto”.Qualità al giusto prezzo, insomma, che fu la vera mission imprenditoriale della Rinascente, curata da Umberto Brustio, cognato di Borletti e anima della catena milanese per diversi decenni.
Il legame tra i Borletti e la loro creatura durò per più di cinquanta anni, prima del passaggio di proprietà, al termine degli anni Sessanta alla Ifi, finanziaria della Fiat. Tuttavia nella primavera del 2005 “la Rinascente” è stata acquistata da una cordata imprenditoriale comprendente anche Maurizio Borletti, nipote del fondatore. L’eleganza e il buon gusto si associarono fortemente al marchio “La Rinascente” anche grazie all’immagine del grande magazzino illustrata, per un quarantennio, dai sinuosi ed evocativi cartelloni e manifesti di Marcello Dudovich, ancora oggi un punto di riferimento per l’immagine pubblicitaria liberty. Dunque qualità tendenzialmente elevata, prezzi contenuti e clientela socialmente trasversale erano le ardue piste da battere per i grandi magazzini di Borletti e Brustio.

Si trattava di conquistare un pubblico con esigenze diversificate e pregiudizi radicati. Era necessario convincere la clientela di ceto più elevato che il prezzo contenuto rispetto agli standard abituali dei prodotti di buona qualità non significasse mediocrità della merce; e, contemporaneamente, era altrettanto basilare, osserva l’autrice, “educare una fascia più ampia possibile di pubblico, incidere sui suoi orientamenti lanciando nuove mode e sensibilizzando il consumatore medio a quel buon gusto nel quale i dirigenti della “Rinascente” ponevano la cifra della loro azienda”. Anche a livello di ambienti, “la Rinascente” si connotava come grande magazzino rivolto a ciò che l’autrice chiama la “democratizzazione del lusso”: accanto a servizi come l’ufficio postale, telegrafico e telefonico e il coiffeur per uomo e donna, il grande magazzino di Milano conteneva anche un luogo tipico delle abitudini di un pubblico d’elite, la sala da tè con orchestra.
Un grande magazzino alla francese che doveva fare i conti con la tenacia dei pregiudizi, di cui è esempio la resistenza generalizzata dei consumatori, soprattutto la determinante clientela femminile di tutti i ceti, nei confronti dell’abito pronto confezionato in serie: i primi esemplari di questo tipo comparvero nei grandi magazzini di Borletti non prima della metà del secolo scorso, mentre anche l’abito pronto maschile dovette attendere gli anni tra Trenta e Quaranta per una modesta affermazione, sempre contrastata dall’idea che il buon gusto e la qualità si sposassero necessariamente con la sartoria su misura. Pionieristica, ma sul momento non certo di grande successo essenzialmente per motivi di prezzo, risultò anche la collaborazione tra la Rinascente e l’architetto Giò Ponti, che ideò una serie di mobili denominata “Domus Nova”, che univano innovazione, praticità e qualità.

Gli esempi dell’abito pronto e della serie ideata da Giò Ponti indicano bene gli ostacoli
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Senatore Borletti, creatore
della Rinascente
con i quali dovette confrontarsi l’impresa di Borletti, che perciò diversificò la propria offerta rivolgendo la propria attenzione a quella fascia medio-bassa di clientela per cui “la Rinascente” rimaneva comunque il regno del “vorrei, ma non posso”. Nacque così la Upim filiazione della catena milanese e destinata a sua volta a strutturarsi in una catena di grandi magazzini a prezzo molto contenuto, come indica il nome, acronimo di “Unico Prezzo Italiano Milano”.
Nata in un periodo apparentemente sfortunatissimo, nel 1928 alla vigilia del crollo di Wall Street, la Upim incontrò in realtà un buon successo di pubblico, pur dovendo adeguare il modello americano del prezzo unico alle esigenze e alle abitudini del pubblico italiano, sempre sospettoso rispetto alla politica dei prezzi troppo bassi: così, la Upim partita con un “listino prezzi” di quattro indici dovette progressivamente ampliare il proprio spettro fino a … cinquanta prezzi unici secondo la tipologia di merce ! E il successo di Upim fu tale, in realtà, che dal 1934 alcuni grandi magazzini “la Rinascente” in diverse parti d’Italia divennero Upim. Tuttavia anche dopo la creazione di “Upim” e della rivale “Standard” (1931, poi divenuta “Standa” per motivi autarchici) fino alla seconda guerra mondiale la quota di mercato dei grandi magazzini rimase limitata, in quanto una fascia importante di pubblico, cioè i lavoratori manuali, non aveva i mezzi per diventare clientela vera e fedele, e così la modesta ma significativa crescita della “Rinascente” si dovette soprattutto al ceto medio impiegatizio, il settore della società italiana più favorito dalla politica economica mussoliniana.

A tale proposito, Papadia rileva che per quanto il fascismo e il suo leader guardassero con diffidenza e fastidio al consumo e al consumismo, manifestazioni di un individualismo pericoloso agli occhi dei paladini del “benessere collettivo della stirpe”, tuttavia, secondo la consueta duttilità ideologica mussoliniana, potevano accettare un consumo “italiano”, cioè di prodotti della penisola. I grandi magazzini, in particolare “la Rinascente” potevano esserne un tramite significativo. A questo proposito si veda, ben ricostruito nel saggio, l’episodio dell’interessamento del Duce in persona per l’apertura di una “Rinascente” a Bolzano come strumento di italianizzazione. Tuttavia solo con la fine della seconda guerra mondiale, della politica fascista dei bassi salari e di una massiccia ripresa produttiva, i grandi magazzini conobbero un vero e proprio decollo, quando le statistiche degli anni Cinquanta cominciarono a registrare il verificarsi in Italia di una fame diversa da quella conosciuta dalla penisola solo fino a un quindicennio prima, la fame di consumi.
La Rinascente crebbe in misura accentuatissima grazie a “due spinte convergenti, una che favorì la grande distribuzione nel suo insieme, facendo dei grandi magazzini una meta privilegiata della nuova corsa verso i consumi; l’altra specificamente relativa all’azienda, che portò a una inequivocabile conferma del suo primato nel settore” (Papadia). Il consumo all’americana, cioè tendenzialmente standardizzato, coinvolse tutti i settori anche se rimase percentualmente prevalente per almeno un altro ventennio il settore del negozio a conduzione familiare. I primi segni di un nuovo modo di consumare riguardarono sia gli alimentari (cominciarono a diffondersi ampiamente i supermercati), sia soprattutto l’abbigliamento. L’abito pronto, prodotto in serie, e le taglie, vero superamento del vestito “cucito su misura”, cominciarono a diventare opzioni non più disprezzate anche dalla clientela femminile.

Come segno dei tempi nuovi, negli anni Sessanta si realizzarono i primi accordi
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Rinascente 1922: pubblicità
firmata dal pittore Dudovich
commerciali tra grandi magazzini e haute couture: nel 1963 Pierre Cardin presentava, con grande scandalo dei colleghi stilisti, un abito venduto attraverso la rete della Rinascente, primo esempio di questo tipo di alleanza a livello internazionale e simbolica apertura del pret a porter. Il consumo di massa si apriva, dunque, strade molto ampie, anche attraverso lo standardizzarsi dell’immaginario collettivo grazie ai media, specialmente l’ultima arrivata, la televisione. L’immaginario collettivo associava irresistibilmente consumi e città, e la città era il luogo dei grandi magazzini. Tra i concorrenti, “la Rinascente” continuò a connotarsi per una sua specificità ed esclusività che riguardava in primo luogo l’immagine, dalla pubblicità agli ambienti di vendita agli imballaggi particolari con cui venivano avvolte le merci, tutto ispirato a una “costante figurativa capace di evocare la stessa prestigiosa e inconfondibile immagine di presenza e qualità”.
E’ importante notare come i grandi magazzini operarono sulle città anche come strutture capaci di aprire lo spazio pubblico ad una presenza femminile molto più ampia. Come osserva Papadia, “i grandi magazzini si affiancarono alla chiesa come luogo pubblico femminile, facendo registrare ovunque e fin dal loro primo apparire una delle massime concentrazioni possibili di donne riunite in uno stesso luogo”, diventando dei “paradisi senza Adamo”. Al punto che nel secondo dopoguerra la Rinascente si preoccupò con maggiore attenzione di raggiungere la clientela maschile con iniziative commerciali mirate, per non tagliare fuori una fascia di consumatori consistente.

Tuttavia la preponderanza femminile non si limitava solo a chi stava al di là dei banchi di vendita ma era un fenomeno rilevante anche tra le maestranze, ovvero le commesse, che dovevano essere di avvenenza rassicurante nel vestire e nell’atteggiamento secondo i manuali degli anni Cinquanta rivolti a formarle. Il saggio si sofferma ad esaminare le condizioni di lavoro di queste ragazze e donne tra gli anni Trenta e Sessanta, e il quadro che ne emerge ha qualche consonanza con la situazione odierna del mercato del lavoro: si va dalla prevalenza delle apprendiste sulle commesse assunte a tempo indeterminato, a causa della più semplice “licenziabilità” delle prime, con frequente ricambio del personale, sempre molto giovane e alle prese con turni di lavoro assai pesanti; alla clausola di nubilato, che resistette nei contratti del grande magazzino fino al 1963, anno in cui fu dichiarata illegittima, per cui l’azienda poteva licenziare la lavoratrice in caso di matrimonio, così da evitare le conseguenze di una legge del 1950 che impediva il licenziamento delle donne fino al compimento di un anno d’età del figlio.
Eppure, nonostante tali condizioni, il posto di commessa presso la Rinascente era molto appetibile per una serie di atout importanti, in primo luogo legati alle condizioni di lavoro ancora più massacranti e meno garantite con cui si confrontavano coloro che lavoravano presso le botteghe. A questo si aggiungevano le due mezze giornate libere e la quattordicesima di cui cominciarono a godere le dipendenti negli anni Sessanta. Oltre a ciò, coloro che lavoravano alla Rinascente percepivano di far parte di un mondo spesso diverso da quello di provenienza, un mondo elegante e raffinato, tra divise disegnate da Schiaparelli e il parrucchiere una volta la settimana. E l’azienda, secondo una strategia paternalistica e funzionale di gestione del rapporto di lavoro, aveva organizzato sin dagli anni Trenta una vera e propria scuola interna per le sue commesse, spesso ragazze senza esperienza che venivano dai borghi limitrofi alla città.

L’obiettivo di questi corsi era quello di formare le venditrici, ma non solo con materie strettamente commerciali, bensì anche con “esercizi di esposizione in italiano corretto ed elementi di storia, matematica, addestramento all’uso delle macchine contabili, stenografia, dattilografia, moda”. Inoltre, secondo la medesima strategia rivolta a consolidare il senso di appartenenza aziendale, le iniziative dopolavoristiche, le gite, le serate danzanti, il periodico interno (“Cronache della Rinascente”) finivano con l’avere tutti l’obiettivo di creare e mantenere una categoria particolare di lavoratrice, la “rinascentina”. Altri spunti del saggio di Elena Papadia sarebbero interessanti da segnalare e approfondire, dal legame con il mondo pubblicitario e con la figura professionale del grafico, al contributo dato dalla Rinascente all’evoluzione del design, per cui una vetrina studiata e realizzata da Bruno Munari per i casalinghi fu a lungo esposta al MOMA di New York. Ma lasciamo al lettore il piacere di leggere e scoprire di più di questo breve, ma denso saggio.
BIBLIOGRAFIA
  • La Rinascente, di Elena Papadia – editore il Mulino (“L’identità italiana”), pp. 170, anno 2005