I metodi della persuasione occulta che permisero alle dittature di spersonalizzare
le masse e di trascinarle in conflitti che travolsero il mondo
|
|
ITALIA ANNI TRENTA: TUTTI (QUASI)
PENSANO CON IL CERVELLO DEL DUCE
|
|
(Seconda Parte) |
|
Raggiungere capillarmente il popolo, organizzandone le giornate e gli spazi di libertà costituì senz'altro una caratteristica peculiare delle dittature che abbiamo preso in considerazione in questo viaggio nel passato.
Così le organizzazioni giovanili rappresentarono una delle forme predilette dal Partito, attraverso le quali raggiungere il consenso delle masse.
E' ormai chiaro da quanto abbiamo analizzato che sia il fascismo che il nazismo si presentarono come il nucleo di una nuova classe politica. Ma a pochi anni dalla presa del potere apparve chiaro che entrambi i regimi non erano all'altezza di questo ruolo: ai movimenti mancava quella vitalità che è necessaria per sopravvivere politicamente.
In Italia si operò su due piani diversi: attraverso l'organizzazione di massa della gioventù per indottrinare ragazzi e ragazze agli ideali del regime (non in ambito universitario); per altra via attraverso un'istruzione elitaria più specializzata, per studenti universitari.
Allo scopo di promuovere il culto del duce e creare una classe di devoti militanti sorse in Italia la scuola di mistica fascista.
Le organizzazioni di massa perseguirono tre obiettivi:
- inculcare nei giovani i miti fondamentali del regime (del duce o del fuhrer, teorie nazionalistiche e razziali, accettazione della guerra e della violenza);
- contrapporre a istituzioni tradizionali potenti, quali la famiglia e le chiese, modelli alternativi di socializzazione;
- fornire un certo grado di addestramento fisico e paramilitare.
In Italia i risultati non furono omogenei, perché nel Bel Paese la capacità del regime di realizzare i propri obiettivi fu fortemente condizionata dalle sfere di controllo esistenti.
La struttura familiare non fu toccata dal partito, e nelle aree rurali cattoliche il potere e l'autorità del clero mantennero una gerarchia alternativa che, sebbene non in conflitto con l'ordine fascista, rimase separata da esso.
Anche i giovani studenti erano incanalati in associazioni che avevano lo scopo di educare all'ordine e di educare al culto del duce e dei valori fascisti: l'organizzazione balilla (onb), le Piccole italiane (che riuniva giovani dagli 8 ai 12 anni) e le Giovani italiane (dai 13 ai 18 anni).
Anche in Germania esistevano al pari che in Italia organizzazioni separate per ragazzi e ragazze, organizzate secondo l'età degli affiliati. E al pari di quanto succedeva in Italia l'accento era posto sull'educazione fisica e militare. Dal punto di vista ideologico, le componenti fondamentali erano il culto del fuhrer, il nazionalismo e la cultura militare, il cameratismo e i valori razziali.
Non sottovalutiamo il vantaggio che offrì ai due regimi l'appoggio della classe insegnante, che a tutti i livelli fu massiccio fin dalla prima ora.
La preparazione delle giovani generazioni era funzionale anche alla formazione di un possibile successore per Mussolini, come anche per Hitler.
Il problema della successione e della continuità aveva preoccupato il duce e i suoi funzionari fin dagli inizi del regime; questo perché essi consideravano il fascismo meno come un tradizionale partito politico che come un "modo di vivere", destinato a generare una nuova civiltà. Per conseguenza Mussolini non risparmiò sforzi per creare una nuova classe dirigente e milioni di "uomini nuovi" e "donne nuove" che avrebbero perpetuato il modello fascista di esistenza moderna a uso delle generazioni future.
Nuove modalità di socializzazione di massa e di formazione di identità politica furono introdotte nei primi anni Venti; erano quelle che avrebbero successivamente contraddistinto le politiche giovanili di altre dittature europee (per esempio nella Germania nazista e nella Spagna del generale Franco).
Il culto della gioventù ebbe un ruolo chiave: una volta al potere i fascisti si adoperarono attivamente a rafforzare la loro immagine di forza politica moderna e proiettata verso il futuro, che avrebbe utilizzato le energie dei giovani per la causa della trasformazione collettiva.
I gerarchi per primi non nascosero questo proposito se è vero che in Critica fascista essi stessi dichiararono apertamente che l'intento del regime era quello di "sostituire tutta la classe di uomini con una nuova, con una nuova élite dirigente".
IL CULTO DEL DUCE E IL CESARISMO
Le origini del cesarismo - termine con il quale si definisce il culto del capo assoluto - risalgono al periodo post-rivoluzionario francese, quando si cominciò a mettere l'accento sul ruolo politico delle masse. Nel 1915 Robert Michels spiegò come, mentre il concetto di monarchia è incompatibile con il principio della democrazia, il cesarismo puo' ancora pretendere di ispirarvisi qualora esso si basi sulla volontà popolare.
Come suggerisce il termine stesso, non si puo' non far riferimento a quella che potremmo definire la "mancata dittatura" di Giulio Cesare. I teorici della politica di Cesare si erano ormai convinti che il suo regime non fosse fondato sulla legalità e sulla tradizione, bensì avesse avuto origine dalla volontà del popolo.
L'accreditato storico di Roma antica, Theodor Mommsen, vide in Cesare la personificazione di un imperatore del popolo, il quale si diede da fare per la rinascita della nazione e, potremmo aggiungere, protesse la proprietà privata.
Mommsen ci offre un valido esempio di come Cesare e il cesarismo divennero anche per gli storici dell'antichità parte essenziale di comportamenti politici che avevano scarsa attinenza con quanto realmente accadeva nell'antica Roma.
Tornando al periodo che più ci interessa, durante il fascismo si stavano dunque approntando nuovi miti e nuovi simboli per far fronte al diverso slancio delle masse.
I fascisti ritenevano che l'Europa stesse facendo il suo ingresso in un'epoca in cui il capo avrebbe fronteggiato direttamente le masse, senza la mediazione delle istituzioni tradizionali tra il governo e il suo popolo.
Cesarismo fu la parola di cui Proudhon si servì per esprimere la sua paura nei confronti di questo nuovo tipo di rapporto tra il capo e il popolo.
Fu lui a giudicare Napoleone III un Cesare, nel senso di un despota che manteneva la sua egemonia ricorrendo alla corruzione, all'astuzia e al terrore. Il popolo era ridotto al livello di una massa ignorante e misera.
In siffatto cesarismo scorse l'approssimarsi ineluttabile, nel caso in questione, della degenerazione razziale.
Il cesarismo divenne un punto fermo di riferimento per le nuove idee politiche. Il dominatore romano fu un esempio della simbiosi del capo e del popolo che non lasciava spazio alle istituzioni tradizionali o all'individualismo di nessuna specie.
Un simile confronto aveva bisogno di tecniche politiche sue per superare il plebiscito, cosa che Napoleone I e Napoleone III avevano entrambi capito. Le tecniche in questione divennero una religione secolare, nel cui ambito il cesarismo poteva assumere la parte di simbolo del comando.
E' necessario allora studiare la creazione di questi nuovi strumenti politici, per capire in che modo il modello di Cesare potesse diventare tanto importante. In questo contesto termini moderni come "totalitarismo", a cui sovente il cesarismo viene ricollegato, sono privi di senso. Il cesarismo non riguardò mai semplicemente il fronteggiarsi di un capo e dei suoi seguaci. Nel cesarismo di cui si tratta i movimenti popolari erano contrari agli istituti rappresentativi, ritenuti l'elemento intermediario tra governo e sudditi, ma in realtà non potevano fare a meno di simili dispositivi.
Le paure che in questi movimenti suscitava una forma governativa di tale fatta erano dovute alla mancanza di forma nella vita politica; era un'anarchia in cerca di forma.
In realtà, fece da intermediaria tra il popolo e i capi una religione secolare che fornì nello stesso tempo lo strumento per il controllo sociale delle masse. Le feste pubbliche sono di fondamentale importanza in qualsiasi analisi del carattere di una simile politica "democratica".
Già Jean Jacques Rousseau avanzò per primo una teoria delle feste pubbliche, sottolineandone lo scopo. Invocò le festività repubblicane dell'età antica, ritenendole i modelli per risollevare i costumi pubblici e privati. Si pensava però che il fine delle feste non fosse solo quello morale: esse erano ritenute uno strumento valido per far avvicinare e amare al popolo la Repubblica e per garantire l'ordine e la pace. Le feste sarebbero state una riconsacrazione all'unità nazionale ma per raggiungere tale scopo dovevano essere riempite di simbolismi, in sostituzione di quelli ecclesiastici. I giacobini raccolsero questa teoria e la misero in atto: l'albero della libertà, la dea ragione, simbolo concreto del concetto astratto di una repubblica della virtù.
Le festività in questione differivano però dai carnevali romani elogiati da Goethe. Il poeta tedesco infatti era convinto che quelle carnascialesche fossero feste che il popolo si concedeva spontaneamente e che non fossero orchestrate politicamente dall'alto. Ma le feste di Rousseau e dei giacobini erano espressione del nuovo nazionalismo.
Lo strumento era quello di incoraggiare feste dirette dall'alto, al fine di ottenere una manifestazione di devozione monarchica.
Le feste dovevano indurre a essere virtuosi e appagati, dovevano suscitare cioè sentimenti su cui Rousseau sarebbe stato d'accordo. Ma soprattutto dovevano aumentare lo spirito nazionale in una repubblica travagliata per colpa di un potere esecutivo fiacco.
La celebrazione di massa del culto del littorio si svolgeva sotto la regia del partito fascista e sotto un occhiuto controllo dell'apparato poliziesco che ne assicurava lo svolgimento al riparo da eventuali pericoli di turbamento.
Alla vigilia di ogni manifestazione venivano adottate le opportune misure preventive. Rigoroso era il cerimoniale, mentre l'intera celebrazione aveva un severo impianto militare: nei cortei il posto d'onore era assegnato a vedove e orfani di caduti, a decorati, a mutilati. Erano esclusi i banchetti e i ricevimenti fastosi. Anche la parte oratoria doveva essere limitata alla lettura simbolica del messaggio del duce e alla illustrazione delle opere compiute dal fascismo, senza abbandonarsi a sfoghi retorici.
Il simbolo nazionale tangibile era di capitale importanza per le cerimonie, che dovevano accentrarsi su di esso. Per questo le feste servivano a dare risalto alla coesione nazionale, non solo per via dell'espandersi dello spirito nazionalistico ma anche per la paura dell'anarchia politica. Rousseau aveva già sottolineato che l'appagamento era una delle conseguenze che dovevano derivare dalle feste pubbliche.
Dovevano, infine, trasmettere l'idea di stabilità e di ordine. Il concetto di cesarismo finì con l'accompagnare questa ricerca.
Anche in Germania il cesarismo trovò sviluppo nell'istituzione di una festa a celebrazione della vittoria riportata dai tedeschi a Sedan sui francesi nel 1870. Alla fine del secolo le feste si moltiplicarono.
Nel 1897 l'aristocrazia tedesca e l'alta finanza avevano dato il via a una società preposta alle festività nazionali: la presenza di un imperatore ereditario non era più sufficiente come simbolo a controllare le emozioni di un popolo che veniva sempre più trascinato nella vita politica.
Le feste, da tenersi a intervalli regolari, erano progettate anche per superare le differenze di classe: tutto il popolo era chiamato a parteciparvi, a prescindere dalla posizione che ciascuno occupava nella società.
Ma si riteneva altresì che esse facessero convergere le emozioni politiche del popolo sul Reich e sul Volk.
Le feste, per aver successo, dovevano dar corpo a ideali eccelsi, rappresentati simbolicamente dalla nazione o dal movimento. Dovevano ricollegarsi con le tradizioni ancora vive in mezzo al popolo e penetrare nell'inconscio. La teoria che sta dietro le celebrazioni naziste, per esempio la consacrazione delle bandiere di partito da parte del capo, aveva lo scopo di fornire un simbolo che si introducesse nella parte più riposta dei sentimenti, perché essa rendeva attivo il desiderio di dare battaglia.
Anche Georges Sorel aveva fatto rilevare l'importanza di siffatti miti al fine di spingere la gente ad agire.
Fondamentale del pari era la convinzione secondo cui tutti dovevano essere coinvolti: potevano esserci soltanto dei partecipanti e mai degli spettatori.
Altrettanto importante si rivelò il rigoglio del monumento nazionale: si riteneva che fosse estremamente importante la partecipazione popolare alla sua costruzione.
Una simile partecipazione su scala ancora più vasta favorì la costruzione del più celebre monumento nazionale tedesco nella selva di Teutoburgo, quello di Hermann (Arminio), l'eroe nazionale germanico che aveva sconfitto le legioni romane inviate alla conquista delle terre nordiche.
Fu così che Cesare finì per rappresentare l'eroe che si trovava al di là dello spazio e del tempo, simbolo di una forza unificatrice in un mondo a pezzi. La monarchia universale di Roma retta da uno statista di queste dimensioni diventa in tal modo il modello di un'utopia che rispecchia il desiderio intenso di avere una guida.
E in effetti non è forse a tutti noto che Cesare fu il primo romano a essere deificato non da funzionari bensì dal popolo stesso?
Al pari di quanto il simbolo di Cesare aveva rappresentato nel passato, Mussolini si presentava come l'elemento coagulante del partito fascista: a rafforzare la sua immagine contribuì la circostanza che egli si presentava come l'autorità forte che mobilitava le forze produttive della nazione allo scopo di porre fine all'individualismo disgregativo dell'ordinamento politico liberale e all'anarchia bolscevica della sinistra. La meta ultima era sempre quella di far sì che l'Italia conservasse il proprio prestigio in mezzo alle grandi potenze europee nel processo di ricostruzione del dopoguerra.
Gli anni successivi al 1926 videro la sempre crescente propagazione della leggenda di un duce onnisciente, infinitamente saggio, e il ducismo si rivelò il tratto più nuovo ed efficace del fascismo italiano. Mussolini incoraggiò questo atteggiamento per vanità ma anche perché aveva compreso come esso costituisse un necessario strumento di potere.
I ministri di tale culto erano i gerarchi, i quali tutti si rendevano conto che il loro futuro era legato al suo. Senza il duce non erano nulla: più grande egli era, più grandi sarebbero stati loro.
Senza di lui il fascismo diveniva privo di senso. Il duce diveniva una sorta di semidio, la sua persona considerata sacra e inviolabile.
Mussolini ha sempre ragione stava ormai diventando uno degli slogan del regime; ed egli si adoperava deliberatamente a propagandarlo. Per capire quanto questo mito stesse assumendo proporzioni incontrollabili c'è la circostanza di un'intervista tagliata, proprio là dove Mussolini riconobbe a chi lo intervistava che gli capitava a volte di compiere sciocchezze: nella traduzione italiana dell'intervista queste parole furono cassate.
Credere, obbedire e combattere era un altro degli slogan riprodotto sui muri di tutto il Paese, a ricordare agli italiani il loro "dovere".
Il fascismo andava visto come la creazione personale di Mussolini, come qualcosa che senza l'obbedienza cieca a lui avrebbe cessato di esistere.
Una presenza talmente insistente da sfiorare la comicità! Già nel 1926 il ritratto del duce campeggiava - spesso in posa napoleonica -, esposto in tutti gli edifici pubblici, a volte persino portato in processione per le strade, quasi fosse un santo patrono. La religione del ducismo era in pieno sviluppo. A fornirci le chiavi di lettura di questa propaganda è Mussolini stesso: nel 1926 apparve in Italia la biografia del duce, a firma Margherita Sarfatti. Solo molto più tardi, quando nella sua vita la Sarfatti aveva ceduto il posto ad altre amanti, Mussolini ammise che il libro era intessuto di ridicole sciocchezze: "Permisi che fosse pubblicato perché ai fini della propaganda le invenzioni sono più utili delle verità".
Per esaltare la figura del duce venne anche diffuso un filmato a lui dedicato, proiettato simultaneamente in tutti i capoluoghi e nelle colonie, che presentava Mussolini in una visione luminosa e viva, capace di infondere un amore sempre più profondo per l'Italia.
Benché affermasse di non curarsi di quel che si diceva di lui all'estero, il duce in realtà passava accuratamente al setaccio il materiale raccolto dal suo servizio ritagli, per accertarsi che l'immagine proiettata fuori dei confini fosse quella più corretta.
Solo considerando queste circostanze possiamo comprendere la sua preoccupazione affinchè i corrispondenti stranieri scrivessero di lui cose appropriatamente lusinghiere. A questo scopo mantenne sempre un rapporto speciale con la stampa; e non già soltanto perché era egli medesimo un giornalista, ma perché ne aveva compreso le potenzialità e ne aveva assoluto bisogno.
Se l'uso voleva che in sua presenza i ministri restassero in piedi, il giornalista straniero era invece invitato a sedere se veniva da un Paese che in quel momento egli si sforzava di impressionare. Naturalmente, interviste venivano concesse soltanto ad amici, o potenziali amici, del fascismo.
Cure non minori Mussolini dedicava alle proprie apparizioni in pubblico, e di solito i suoi discorsi venivano minuziosamente preparati, benché talvolta pretendesse il contrario. Amava anche far credere che disapprovava i troppi discorsi e che giudicava la cosa essenzialmente non-fascista. L'attività oratoria, in realtà, divenne una delle sue preoccupazioni principali. L'Italia, diceva, era una "terra teatrale", e i suoi capi dovevano allestire i loro contatti col pubblico come spettacoli.
In realtà il modo con il quale Mussolini guardava alle masse era sprezzante, le giudicava facile oggetto di inganno e di dominio, e questo costituiva parte del suo successo.
Era questa una convinzione antica, risalente agli anni della sua milizia socialista: essendo le masse come bambini, le si doveva sì aiutare, ma anche correggere e punire.
Sono, diceva, "stupide e sporche; e non lavorano abbastanza, felici di godersi i loro mediocri spettacoli cinematografici".
Il gregge, lo definiva Mussolini. "La folla non ha bisogno di conoscere. Deve credere. Le masse non vogliono la discussione o il dibattito, ma solo essere comandate".
Malgrado affettasse noncuranza per l'opinione pubblica e l'applauso delle moltitudini, Mussolini coltivava accuratamente quello che giudicava uno dei suoi massimi talenti, quasi una sensibilità per quello che le masse richiedevano. Tutti riconoscevano la sua abilità nel manipolare una folla, nel colpire l'immaginazione popolare. Questo, lo definiva, è il segreto del governare: "Nel sentire gli stati d'animo delle moltitudini, non ho mai, dico mai, fallito".
I discorsi mussoliniani hanno talvolta l'aspetto di una successione di titoli di giornali: una serie di asserzioni semplici, reiterate, che fanno uso di un vocabolario ristretto. Il tono generale è di solito aggressivo, dal balcone di palazzo Venezia.
In piedi su questo palcoscenico, Mussolini invitava la folla a rispondere in coro alle sue domande retoriche.
In questo campo importante della sua vita politica, il duce, non diversamente da Hitler, riconobbe il suo debito verso Gustave Le Bon, il cui libro sulla psicologia delle folle diceva di aver letto innumerevoli volte.
Le Bon spiegava come le folle sono mosse non dalla ragione ma da illusioni spesso di natura estremamente semplice. E se un oratore sapeva risvegliarne le emozioni, credenze irrazionali e involontarie potevano diffondersi come per contagio. In questo concetto Mussolini trovava conferma della propria convinzione che l'arte essenziale dell'uomo di governo fosse l'uso delle parole. Se ben impiegate, esse permettevano a un uomo politico di fare a meno degli argomenti e di eccitare il suo pubblico ad atti di eroismo sul limite dell'assurdo.
C'era chi diceva che aveva un vero talento per mettere l'uomo sbagliato al posto sbagliato, e per accantonare chiunque fosse onesto o gli dicesse la verità. Amava avere attorno cortigiani che ridevano ai suoi mediocri tentativi di far dell'umorismo, detestava invece gli uomini di carattere e di cultura che avessero abbastanza coraggio da dissentire da lui. E ben pochi individui del genere resistettero a lungo in elevate posizioni gerarchiche.
La selezione dei suoi ministri era il punto debole del fare politico di Mussolini, come egli stesso aveva più volte ammesso. Adduceva a sua scusante il fatto che non poteva fidarsi di nessuno, e meno che mai di coloro che sapeva capaci. Temeva che i suoi collaboratori potessero diventare potenziali rivali e imparassero bene il mestiere costruendo la base del loro potere indipendente.
Questo spiega anche il suo piacere nel fomentare dispute tra i ministri del governo e generali fascisti. Una gran quantità di tali chiacchiere finiva nel suo archivio privato, insieme ai pettegolezzi vari raccolti per suo conto da spie, ricavati dalle intercettazioni telefoniche.
L'adorazione tributata a Mussolini non si estese in molti casi alle politiche e ai rappresentanti del suo regime, e raramente ispirò quella radicale trasformazione di abitudini mentali e fisiche di cui si vagheggiava nei circoli governativi. Come il governo ben sapeva da un flusso costante di rapporti degli informatori, certi gruppi, quali gli operai dell'Italia centrale e settentrionale e gli studenti universitari, valutavano le sue promesse populiste con scetticismo. E anche se i fasci femminili poterono vantare un'adesione di massa e un alto livello di attivismo, la partecipazione alle attività collettive di queste organizzazioni favorì talvolta lo sviluppo proprio di quei valori che il regime voleva estirpare.
(2 - Fine)
|
|
BIBLIOGRAFIA
- La cultura fascista
, di R. Ben-Ghiat - Il Mulino, Bologna, 2004;-
Apologia della storia o Mestiere dello storico, di M. Bloch - Einaudi, Torino, 1969;
-
La fabbrica del consenso: Fascismo e mass media, di P.V. Cannistraro - Laterza, Roma-Bari, 1975;
-
Le donne nel regime fascista, di V. De Grazia - Marsilio, Venezia, 1993;
-
Consenso e cultura di massa nell'Italia fascista, di V. De Grazia - Laterza, Roma-Bari, 1981;
-
Il culto del littorio, di E. Gentile - Laterza Roma-Bari, 1993;
-
Il secolo breve, di E. Hobswan - Rizzoli, Milano, 1994;
-
Mussolini, di D. Mack Smith - Fabbri editori, Milano 2002;
|
|
|