L’ASSASSINIO DI MORO (1978) Il “mistero dei misteri”, dopo le ultime
dichiarazioni fatte da politici autorevoli, presenta nuovi risvolti inquietanti
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ABBANDONATO ALLE BR DAGLI AMICI:
”IL MIO SANGUE RICADRÀ SU DI VOI!”
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(Seconda Parte) |
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Dopo la prima parte del nostro viaggio alla scoperta dei misteri nel sequestro Moro affrontiamo un tema di grande interesse dal punto di vista giudiziario. Molto ruota intorno al processo ai danni del Senatore a vita Giulio Andreotti. La sua posizione sulla scacchiera dell’”affaire Moro” è poco conosciuta e soprattutto poco interpretabile. A lui sono legati aspetti inquietanti del sequestro, dalla morte di Mino Pecorelli al connubio Mafia–Governo passando dalla questione dei due memoriali fino allo scandalo P2.
“Il mio sangue ricadrà su di voi” è una frase che Aldo Moro scrisse in una delle quattro lettere intercettate dal Viminale e non recapitate ai destinatari. Rappresenta la profezia che gli anni sembra aver confermato. Moro rifletteva sui tradimenti subiti da Cossiga e Zaccagnini. Ma è proprio ad Andreotti che Moro si rivolge in modo più aspro e minaccioso: “Tornando a lei, onorevole Andreotti per nostra disgrazia e per disgrazia del paese…lei ha potuto navigare tra Zaccagnini e Fanfani, imitando un De Gasperi inimitabile e che è milioni di anni luce lontano da lei…passerà alla triste cronaca che le si addice…”. Andreotti, per molti, rappresentava l’unica opportunità che Moro aveva per salvarsi la vita; ma così non fu.
Chiunque aveva il “dovere” di liberare un cittadino italiano nelle mani di terroristi, ha commesso l’errore di considerare Aldo Moro solo come un uomo politico a conoscenza d’elementi la cui divulgazione pubblica poteva far esplodere una “bomba” nella politica italiana. Moro, come abbiamo ricordato in precedenza, durante il sequestro “dialogò” con le Brigate Rosse sulle questioni calde della politica democristiana. Dalle trattative segrete per l’attuazione del “compromesso storico” al ruolo della DC nel periodo dell’”attacco al cuore dello stato”, dal tentativo di colpo di Stato di De Lorenzo alla strage di Piazza Fontana passando per “Gladio” e per l’affare "Lockeed". Il pericolo che queste verità potessero essere scoperte, portò – forse – i vertici della DC a valutare i danni che Moro libero avrebbe causato e giunsero alla drammatica conclusione che la vita di Moro potesse essere sacrificata in cambio della solidità dello Stato. Ciò non avvenne. Secondo la “Commissione Stragi” dell’ultima legislatura, “il delitto Moro, valutato come fatto storico, apparve come il momento di maggiore intensità offensiva del partito armato e, specularmente, come il momento in cui lo Stato si rivelò più impotente nel dare risposta appena adeguata all'aggressione eversiva". Ecco perché “né con lo Stato né con le BR” è la chiave di lettura principale del caso Moro. Uno Stato che si è rivelato “impotente” di fronte ad un nemico invisibile che ha obbligato lo Stato a riconoscersi inferiore al punto di non essere più riconosciuto da alcuni suoi esponenti politici, dalla sua stessa magistratura, dal suo stesso popolo.
Quando si parla degli attentati di Piazza Fontana, del treno Italicus, di Brescia e Bologna, di Via Fani, ci si riferisce con un termine molto suggestivo: “Stragi di Stato”. Dare una spiegazione al perché si usa il termine “Stato” come aggettivo, per identificare atti terroristici così gravi, è molto semplice; sono le stragi che hanno recato alla Nazione un danno morale enorme. Tutto lo Stato italiano è stato a lutto per mesi, si sono celebrati i “Funerali di Stato”, i morti sono stati insigniti delle più alte onorificenze dello Stato; ecco perché “Stragi di Stato”.
Pensare che questi siano i motivi reali è com’essere sicuri che “il gatto nero porti sfortuna”. E’, per usare un termine usato in trasmissioni televisive, il “Babbo Natale! Non è vero, ma ci credo”. La verità è purtroppo un'altra; “Strage di Stato” è la sconfitta in una battaglia. Il Governo non può perdere una battaglia, non può essere “impotente nel dare risposta appena adeguata all’aggressione”e soprattutto,non deve essere messo in discussione dal suo stesso “esercito”.
“Strage di Stato” è anche sinonimo di mistero e di paura che lo Stato possa essere coinvolto nella morte di civili innocenti. Purtroppo questa paura non è infondata. Troppe volte ci siamo ritrovati a sentire dichiarazioni ed a leggere documenti che sembravano nascondere qualcosa o qualcuno. Come nostro solito, le pure ipotesi senza prove, non sono “informazione” e quindi è bene consultare i documenti ufficiali. Secondo la “Commissione Stragi” della XII legislatura “le nuove acquisizioni consentono di ritenere certo o almeno altamente probabile il carattere intenzionale di almeno alcune delle omissioni, di almeno alcune delle inerzie che contribuirono al tragico epilogo della vicenda Moro… impressionante è la convergenza di indicazioni verso un intreccio fitto - e non ancora pienamente disvelato - di ambigui rapporti che legarono in ambito romano uomini di vertice delle organizzazioni mafiose e della criminalità locale al mondo di uno oscuro affarismo, ad esponenti politici, ad appartenenti alla Loggia P2, a settori istituzionali, in particolare dei servizi segreti". Sono dichiarazioni che risalgono alla metà degli anni ’90 quando l’archivio Mitrokhin e quindi anche l’omonimo dossier, non sono ancora di dominio pubblico, ne tantomeno nelle mani dei servizi segreti italiani. I dubbi che ci fossero presenze oscure nella vicenda Moro erano molti prima ancora che vennero alla luce i documenti segreti del KGB e dei servizi segreti italiani. Nella dichiarazione della “Commissione Stragi” in particolare, ritroviamo una sigla presente nelle biografie di molti personaggi implicati nella vicenda Moro: la Loggia massonica P2.
Andando a ritroso nel tempo, subito dopo la pubblicazione dell’archivio Mitrokhin, lo scandalo della P2 è l’avvenimento che più di tutti ha rappresentato una svolta nelle indagini.
La P2 fu creata nel secondo dopoguerra con l’aiuto della massoneria USA allo scopo di partecipare attivamente alla vita politica, economica e sociale dei paesi in cui era presente. In Argentina, per esempio favorì il golpe militare ed era attiva in Uruguay, Brasile, Venezuela, negli Stati Uniti, in diversi paesi europei e non ultima in Romania. La data di costituzione della P2 in Italia è il 12 maggio 1966, quando Licio Gelli venne elevato al grado di Gran Maestro Venerabile. Alla loggia s’iscrissero importanti uomini politici, industriali e soprattutto militari appartenenti al SISMI ed alla CIA. I loro nomi furono scoperti il 17 marzo 1981 dopo il ritrovamento di documenti segreti in un appartamento ad Arezzo. La P2 fu sciolta, ufficialmente, il 10 dicembre 1981, anche se ufficiosamente Gelli continua tuttora a gestire una loggia massonica dal Principato di Monaco. Nel caso Moro la P2 ha una rilevanza di primo piano e gli elementi in comune sono tanti.
Il 16 marzo 1978, giorno del rapimento di Moro, ci fu una riunione all’Hotel Excelsior di Roma – poche centinaia di metri dall’ambasciata statunitense – a cui presero parte i maggiori esponenti della P2. Uscendo dall’Hotel, Gelli disse: “la parte più difficile è fatta”. A cosa si riferiva il gran maestro se non alla cattura di Moro?
Quel giorno in Via Fani, come abbiamo visto, era presente il colonnello del SISMI Guglielmi che dipendeva direttamente dal generale Musumeci. Il generale era un esponente della P2 così come il generale Santovito a cui giunse la notizia del probabile sequestro Moro da parte di un carcerato.
All’interno 9 della palazzina in Via Montalcini – prigione di Moro – abitava Lucia Mobkel, un’informatrice del SISDE che informò il commissario di Pubblica Sicurezza Elio Coppa, di una presunta trasmissione in alfabeto Morse dall’interno 11. Il commissario, per una banale coincidenza, risultò iscritto alla P2. Molti appartamenti in Via Montalcini erano intestati a Montevalleverde, noto immobiliarista romano. Nel Consiglio d’Amministrazione della sua azienda erano presenti esponenti della P2 e fiduciari dei Servizi Segreti.
Durante il sequestro, agli uffici del SISDE, giunse la notizia che in un garage di Via Gradoli era istallata un’antenna collegata ad un ponte radio nella zona del Lago della Duchessa. L’antenna consentiva le comunicazioni con le colonne BR che operavano al nord. L’informazione fu raccolta dal capo del SISDE Giulio Grassini, esponente della P2, ma non si presero provvedimenti.
Le indagini sul sequestro Moro erano gestite da un gruppo di militari dell’anti-terrorismo: Il direttore dei servizi segreti Bassini, il generale Santovito, il commissario Walter Pelusi, il generale Giudice e tutti i collaboratori di Cossiga erano iscritti alla P2 e soprattutto, erano i diretti responsabili dei fallimenti militari che le forze dell’ordine collezionarono sia durante i giorni del sequestro, sia dopo.
Con un po’ di confusione e sinteticità, abbiamo elencato le vicende in cui la P2 è implicata nel caso Moro. Questo per permettere di comprendere meglio un progetto politico che è impossibile nascondere: gli esponenti della P2 avevano l’obbligo di nascondere la fuga di notizie sulla “prigione di Moro” allo scopo di evitare la sua liberazione.
“…la cattura di Moro rappresenta una delle più grosse operazioni politiche compiute negli ultimi decenni…L’obiettivo primario è allontanare il Partito Comunista dall’area del potere nel momento in cui si accinge al gran balzo, alla diretta partecipazione del governo al paese. E’ un fatto che ciò non si vuole che accada…”. La differenza tra un buon giornalista ed un fuoriclasse del mestiere, sta nel capire prima quello che accade per interpretarlo nel migliore dei modi. Le parole di prima, se fossero state scritte oggi, non trasmetterebbero emozioni perché alla luce dei fatti moderni non rappresentano una novità.
Sorprendentemente però questo pensiero è stato “messo su carta” il 2 maggio 1978 da un tale Carmine Pecorelli meglio conosciuto come “Mino”; anch’egli iscritto alla P2, fu nel 1978, direttore di “Osservatorio politico” – settimanale di fatti e notizie – ed era considerato come una delle menti più brillanti del giornalismo italiano.
Il 20 marzo 1979, a distanza di poco più di un anno dalla strage di Via Fani, fu ucciso da diversi colpi di pistola sparati da un uomo con un impermeabile bianco. Chi era quest’uomo e perché ha sparato a Mino? Delle risposte ufficiali a questi quesiti non sono ancora state date, ma, si è molto certi sul movente dell’assassinio, meno sul mandante. Mino fu ammazzato perché “sapeva troppo”. Il giorno dopo la sua morte, infatti, avrebbe pubblicato un articolo in cui rivelava indiscrezioni molto forti sul sequestro e l’uccisione d’Aldo Moro. Queste scandalose rivelazioni si riferivano alle dichiarazioni che il Presidente della DC fece alle BR negli “interrogatori”. Fino a quel momento, infatti, molto si era discusso sul memoriale ritrovato nell’ottobre del 1978 nel covo di Via Montenevoso a Milano. Il documento sembrava – ed è – incompleto, quasi censurato in molte parti “caldi” del governo DC quali, per ricordarne solo due, Piazza Fontana e Gladio. Il 31 ottobre 1978, Pecorelli in un articolo titolato “Memoriali veri e memoriali falsi” scrisse:
“…La bomba Moro non è scoppiata. Il memoriale, almeno quella parte recuperata nel covo milanese, non ha provocato gli effetti devastanti a lungo paventati. Giulio Andreotti è un uomo molto fortunato, ma a spianare il suo cammino stavolta hanno contribuito circostanze solo in parte fortuite…”. Entrare in quella che è tutta un’altra storia non è il nostro compito, però è bene chiarire che molti aspetti del sequestro Moro fanno parte del “processo alla storia” in cui l’imputato è il senatore a vita Giulio Andreotti. I capi d’accusa erano: associazione per delinquere di tipo mafioso ed omicidio. Ci sono voluti undici anni e mezzo per mettere fine al processo e le sentenze hanno in parte assolto ed in parte condannato, ansi prescritto, l’illustre imputato. Andreotti era accusato di essere il mandante dell’omicidio Pecorelli e quindi il primo responsabile della perdita di dichiarazioni importanti sul caso Moro; perché Andreotti avrebbe voluto far uccidere Pecorelli?
La risposta è nell’articolo di cui sopra. Mino è certo della presenza di un secondo memoriale che, completo in tutte le sue parti, coinvolgerebbe pesantemente l’allora Capo del Governo, Giulio Andreotti. Lo stesso Moro dalla “prigione del popolo” scrisse parole dure nei confronti dell’onorevole: “…Andreotti, per nostra disgrazia e per disgrazia del paese (che non tarderà ad accorgersene) non è mia intenzione rievocarne la grigia carriera…Non è questa una colpa: si può essere grigi ma onesti; grigi ma buoni; grigi ma pieni di fervore…a lei è proprio questo che manca, il fervore umano…Durerà un po’ più, un po’ meno, ma passerà senza lasciare traccia…Passerà alla triste cronaca…che le si addice…”. Andreotti era quindi considerato da molti un personaggio oscuro; nascondeva qualcosa che Moro aveva scritto ma che nessuno era riuscito a pubblicare. Lo stava per fare Pecorelli, ma qualcuno volle ucciderlo prima.
Il Memoriale è uno dei punti più controversi del Caso Moro soprattutto per la sua drammaticità e per il notevole volume d’informazioni che “potevano” giungere alla Nazione. Come l’ FBI definì l’archivio Mitrokhin come la “più grande fuga di notizie mai subita da un servizio segreto”, il memoriale Moro è la “più gigantesca denuncia mai subita da uno Stato”.
Nel 1990, mentre gli operai di una ditta di costruzione lavoravano alla ristrutturazione dell’appartamento in Via Montenevoso – ex covo brigatista – dietro al pannello di un termosifone, fu scoperto un nascondiglio segreto in cui erano nascoste le fotocopie degli scritti di Moro durante la prigionia. I manoscritti erano in alcuni punti più ampi della precedente versione, ma a detta degli esperti in ogni modo censurati. Per comprendere a pieno questa vicenda è bene introdurre un personaggio molto noto al pubblico: il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Palermitano di nascita, nel ’74, è al comando della regione Piemonte - Valle d'Aosta ed è grazie ad un suo infiltrato nelle BR, Silvano Girotto – noto come "frate mitra" – che il 9 settembre dello stesso anno sono arrestati Renato Curcio e Alberto Franceschini. Dalla Chiesa diventa così l’artefice principale della lotta contro il terrorismo rosso. Nell'agosto del '78 ottiene l'incarico di mettere in piedi un nuovo reparto “anti-terrorismo” che ha lo scopo di concentrare tutte le sue risorse nella lotta al terrorismo. Dopo la scoperta del covo brigatista di Via Monte Nevoso, Dalla Chiesa s’incontrò con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Franco Evangelisti stretto collaboratore d’Andreotti. Evangelisti mostrò un pacco di fogli al generale e lo pregò di valutare la situazione e di avvertire il Presidente che la situazione era degenerata al punto di voler essere sicuro che l’onorevole fosse preparato ad affrontare il peggio. L’incontro tra Dalla Chiesa ed Andreotti è un mistero nel mistero; Sia Evangelisti che la mamma della moglie di Dalla Chiesa, hanno confermato l’incontro tra i due. Cosa conteneva quel pacco di fogli? Forse, a detta di molti, era il “memoriale completo” che Dalla Chiesa – sotto pressione d’Andreotti – “depurò" delle sue parti "scomode". Il documento doveva essere di settanta pagine invece il Viminale n’aveva distribuite soltanto quarantanove. Chi possedeva le restanti ventuno pagine del documento “Bomba”? Dalla Chiesa visionò la versione integrale del memoriale Moro e comunicò a Giulio Andreotti le verità nascoste che lo riguardavano personalmente. Nello stesso periodo Dalla Chiesa iniziò ad incontrare Carmine Pecorelli informandolo costantemente sulla vicenda; tra gli appunti del giornalista, infatti, troviamo scritto “le carte segrete in mano a Chiesa”, limpido riferimento al “vero” memoriale.
Pecorelli, il 17 ottobre 1978, scrisse: “Il corpo era ancora caldo…perché un generale dei Carabinieri [Dalla Chiesa]era andato a riferirglielo di persona nella massima sicurezza. Dice: perché non ha fatto nulla? Risponde: il ministro [Francesco Cossiga] non poteva decidere…doveva sentire più in alto…magari sino alla loggia di Cristo in Paradiso?...Non se ne fece nulla e Moro fu liquidato perché se la cosa si fosse risaputa in giro avrebbe fatto il rumore di una bomba!...C’è solo da immaginarsi quale sarà il generale dei carabinieri che sarà trovato suicida con la classica revolverata che fa tutto da se o col arcinoto curaro di bambù di importazione amazzonica…il nome del generale è noto: Amen.”
Pecorelli era certo che Dalla Chiesa sarebbe stato ucciso e lo scrisse a “chiare lettere” in quest’articolo; altre volte, infatti, il giornalista si era riferito al generale con lo pseudonimo di “Amen” ed era certo che la sua morte sarebbe stata una “messa in scena” – suicida con la classica rivoltella che fa tutto da se – ed avrebbe avuto un movente politico come la morte del generale Anzà – attraverso l’arcinoto curaro di bambù d’importazione amazzonica – che stava per rivelare i retroscena del “golpe De Lorenzo”. Il “suicidio” nei servizi segreti è il mezzo più usato per risolvere i problemi in modo drastico e senza conseguenze.
Il generale sapeva di rischiare la vita e confidò la sua paura al maresciallo Incandela – altra figura importante nel “giallo” del memoriale. Il maresciallo doveva redigere una relazione riservata in cui denunciava tutto quello che sapeva su Giulio Andreotti perché “solo in questo modo potevano avere la speranza di salvarsi la vita”.
Dalla Chiesa era convinto che Giulio Andreotti fosse una persona “estremamente pericolosa” e le carte che possedeva – il memoriale Moro – lo confermavano. Dalla Chiesa sarà ucciso dalla mafia il 3 settembre 1982, mentre sarà a bordo della sua auto in compagnia della moglie e dell’agente di scorta. La previsione di Pecorelli fu in un certo modo esatta, ma non tenne conto del fatto che sarebbe stato ucciso molto tempo prima del generale. Pecorelli nell’articolo denuncia che si era a conoscenza della prigione di Moro, quando ancora lo statista era vivo; scrive, infatti, che il corpo del presidente non era freddo come di solito sono i cadaveri ma “ancora caldo” come le persone in vita. Il secondo riferimento importante è quello alla “loggia di Cristo in Paradiso” a cui il ministro dell’interno Francesco Cossiga si doveva rivolgere per discutere della liberazione di Moro. Come abbiamo visto, i collaboratori del Ministro degli Interni erano tutti iscritti alla P2 e si è certi che quest’ultima rappresentasse la loggia di Cristo. Lo stesso giornalista però, indica una “loggia vaticana” di cui egli stesso possedeva un elenco di nomi con rispettivo numero di matricola. Moro, infatti, nell’ultima lettera scrive di una ”Chiave” che si trovava “in Paradiso” e che era l’unica sua possibilità di salvezza.
Stando alle dichiarazioni dei protagonisti della vicenda Moro, invece, “l’unica possibilità di salvarlo era quella di scoprire il nascondiglio”. Ciò che però rende “ridicole” queste affermazioni è che l’indirizzo del nascondiglio, o meglio del covo da cui le BR gestivano il sequestro, era di dominio pubblico. Via Gradoli è stata “sulla bocca di tutti” per quasi un mese, ma nessuno decise mai di intervenire. Per scoprire il covo fu necessaria una “casuale” perdita d’acqua che obbligò i vigili del fuoco a sfondare la porta. A pochi giorni dalle elezioni politiche, è difficile far uscire dall’armadio vecchi scheletri, ma ci limiteranno a raccontare i fatti risaputi.
E’ oramai noto a tutti che il 2 aprile 1978 in una seduta spiritica, fu fatto il nome “Gradoli”.
Nella casa di campagna del professor Alberto Clò alle porte di Bologna, si riunì un gruppo di professori universitari accompagnati dalle rispettive famiglie. Era presente anche l'ex presidente del Consiglio Romano Prodi. Secondo le testimonianze qualcuno dei partecipanti decise di fare una seduta spiritica. Alla domanda, dove è tenuto prigioniero Aldo Mor, gli spiriti risposero con i nomi di Bolsena – Viterbo – Gradoli e indicarono anche il numero 96. Il 4 aprile Prodi parlò di quest’indicazione ad Umberto Cavina che girò la notizia al capo della Polizia, Giuseppe Parlato. Le indagini si rivolsero ad un paesino nel viterbese di nome Gradoli. Sotto l’occhio attento delle telecamere e dei giornalisti collegati in diretta TV, Il maestoso “blitz” organizzato dal nucleo anti-terrorismo, risultò un gigantesco “buco nell’acqua”. Fino a qui niente di particolare; probabilmente gli “spiriti invocati” nella seduta, Don Luigi Sturzo e Giorgio La Pira, non erano una fonte attendibile.
Purtroppo però “Gradoli” era un luogo ben noto alle forze dell’ordine. Due giorni dopo il sequestro, il 18 marzo, cinque agenti del commissariato "Flaminio Nuovo", guidati dal maresciallo Domenico Merola si presentarono davanti a tutte le porte degli appartamenti di Via Gradoli 96. L'ordine di recarsi in Via Gradoli fu dato al maresciallo la sera prima dell'operazione dal commissario Guido Costa. E’ bene, per amore di verità e trasparenza, ricordare che le voci sul fatto che i carabinieri abbiano abbattuto le porte di tutti gli appartamenti tranne quello delle BR, sono completamente false. "Non mi fu dato l'ordine di perquisire le case – dice il maresciallo ai giudici – era solo un'operazione di controllo durante la quale furono identificati numerosi inquilini, mentre molti appartamenti furono trovati al momento senza abitanti e quindi, non avendo l'autorizzazione di forzare le porte, li lasciammo stare, limitandoci a chiedere informazioni ai vicini. L'interno 11 fu uno degli appartamenti in cui non trovammo alcuno. Una signora che abitava sullo stesso piano ci disse che lì viveva una persona distinta, forse un rappresentante, che usciva la mattina e tornava la sera tardi". La donna che descrisse l’abitante dell’interno 11 – Mario Moretti, alias l’ingegner Borghi – sembra essere quella Lucia Mobkel che abbiamo incontrato in precedenza. Fatto strano è che la signora Mobkel non riferì agli agenti d’aver ascoltato, proprio quella sera una conversazione in linguaggio “morse” proveniente dall’appartamento di fronte. Perché la Mobkel avvertì solo il SISMI e non, invece, anche gli agenti?
I misteri di Via Gradoli, non si limitano ad una seduta spiritica o ad una mancata perquisizione. Il deputato DC Benito Cazora ebbe a lungo contatti con la ‘ndrangheta calabrese. Pochi giorni dopo l’attentato Cazora fu accompagnato con l’auto presso l’incrocio di Via Gradoli e gli fu sussurrato che quella era la “zona calda”. Il deputato riferì tutto al questore che si limitò a tranquillizzarlo, avendo già controllato la zona.
E’ appurato che alla centrale della Polizia, giunsero decine di segnalazioni anonime sul presunto covo di Via Gradoli. La domanda, come diceva un noto presentatore TV: “Sorge spontanea”. Perché Via Gradoli, 96 non fu perquisita in modo “professionale” se più di una volta venne segnalata?
Inquietante è la deposizione d’Eleonora Moro, moglie dello statista ucciso, che di fronte ai giudici affermò: “dopo la seduta spiritica, riferì la cosa all'onorevole Cossiga e ad un funzionario...Chiesi loro se erano sicuri che a Roma non esistesse una via Gradoli e perché avessero pensato subito, invece, al paese Gradoli. Mi risposero che una tale via non c'era sulle pagine gialle della città. Ma quando se ne andarono da casa, io stessa volli controllare l'elenco e trovai l'indicazione della strada. In seguito mi dissero che erano stati a vedere in quella zona, ma avevano trovato solo alcuni appartamenti chiusi. Si giustificarono dicendo che non potevano sfondare le porte di ogni casa della strada". Prendere in giro una donna disperata non è sicuramente un atteggiamento da galantuomini eppure Cossiga decise di ingannarla. A quale scopo? Probabilmente sulle pagine gialle dell’onorevole, Via Gradoli non era segnalata. Perché il covo fu “nascosto” anche da alte cariche dello Stato?
Il 19 gennaio 2005 sul quotidiano “Il Giornale” fu pubblicato un articolo titolato: “Moro, lo spirito di Prodi era una spia del KGB”. L’agente 007 in questione è Giorgio Conforto, talpa di Mosca, unico italiano ad essere insignito con la stella rossa al valore, direttamente dal comando generale del KGB. Nome in codice "Bario", Conforto – scheda 142 del rapporto Impedian – si trovava nell'abitazione della figlia al momento del blitz delle forze dell'ordine in cui furono catturati Adriana Faranda e Valerio Morucci, due dei presunti quattro carcerieri di Moro. Sarebbe proprio Conforto la misteriosa fonte che, in pieno sequestro Moro, suggerì a Romano Prodi l’indicazione di “Gradoli”. Stando all’articolo scritto da Claudio Passa su “il Giornale”, il consulente della commissione Mitrokhin, Mastelloni, ha prove certe dei contatti tra Conforto e le BR:
“Per Mastelloni c'è lo zampino dell'"agente Dario" e la coincidenza che vede la figlia Giuliana – quella che ospitava i brigatisti del sequestro nel suo appartamento – figurare in rapporti con tal Luciana Bozzi, proprietaria assieme al marito, Giancarlo Ferrero, di un altro appartamento frequentato da terroristi rossi: il covo di Via Gradoli. In un vecchio fascicolo Mastelloni ha rintracciato questo appunto confidenziale di un tenente dei carabinieri: "Un amico mi ha riferito che Giuliana Conforto, quando lavorava al Cnen, si faceva accompagnare in Via Gradoli dove aveva un appartamento con il marito ingegnere del Cnen". Appartamento in Via Gradoli? Secondo Mastelloni "è logicamente pressoché inequivocabile che si tratti proprio della casa della Bozzi", ovvero del covo-Br. Anche la nota dell'allora vice-questore Ansoino Andreassi porta acqua al mulino di Mastelloni: da più "fonti confidenziali" - è scritto - "si è appreso che la Bozzi conoscerebbe molto bene la Conforto, con cui aveva frequentato nel '69 il centro ricerche nucleari della Casaccia". Per la cronaca, entrambe erano in contatto con Franco Piperno, leader di Potere Operaio. A proposito dell'appartamento di via Gradoli, affittato al sedicente "ingegner Borghi" (alias Mario Moretti, capo Br) il giudice specifica che l'unica persona che poteva arrivare alla Bozzi per l'affitto della casa a Moretti, o a Morucci, quindi alle Br, era Giuliana Conforto”
Il padre di Giuliana Conforto è proprio la spia del KGB, Giorgio Conforto.
Nel caso Moro i misteri e le incoerenze sono tante, queste sono solo le ultime di una lunga serie. Tanto e forse troppo si è scritto sull’uomo misterioso che ha sparato in Via Fani, sul black-out che colpì la zona subito dopo l’attentato, sulle “strane” presenze nel nucleo brigatista. Per non parlare del perché alcuni attentatori indossassero una divisa Alitalia o della dichiarazione di un non vedente che sentì la sera prima del sequestro che Moro sarebbe stato rapito; si potrebbe continuare ancora per pagine e pagine. Purtroppo o per fortuna però, questi sono misteri non documentati, pure ipotesi che a volte si contraddicono da sole. Abbiamo cercato di analizzare i documenti di un mondo segreto, che ha indicato nuove strade, nuovi personaggi e nuove situazioni che probabilmente hanno solo lo scopo di nascondere la verità, quella vera. KGB, CIA, MOSSAD, Gladio, SISMI, P2, BR, Vaticano, basta elencare i protagonisti della vicenda per capire che niente è “realtà, ma tutto è finzione, come in una commedia teatrale dove gli attori recitano talmente bene che quando termina lo spettacolo, sono entrati talmente bene nella parte che trovano difficoltà ad uscirne; sì auto-convincono di quello che hanno messo in scena, non ricordando o non volendo ricordare che sono solo “uomini” che fanno parte di un mondo che non è finzione ma realtà ed a volte la realtà è molto più misteriosa della finzione.
(2 - Fine)
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BIBLIOGRAFIA
- Il libro nero della Prima Repubblica, di Rita Di Giovacchino – Fazi Editore, Roma 2005.
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L’Archivio Mitrokhin, le attività segrete del KGB in occidente di Christopher Andrew con Vasilij Mitrokhin – Rizzoli Editore, Milano 1999.
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Mario Moretti, Brigate Rosse, Una storia italiana, di Carla Mosca e Rossana Rossanda con Mario Moretti – Baldini & Castoldi Editore, Milano 2003.
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La luna rossa, il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, le Brigate rosse e il KGB, di Gianni Mastrangelo – Controcorrente Editore, Napoli 2004
-
La notte della repubblica, di Sergio Zavoli – Oscar Mondadori Editore, Milano 1995
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Il Prigioniero, di Anna Laura Braghetti e Paola Tavella – Universale Economica Feltrinelli, Milano 2003
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Moro si poteva salvare, 96 quesiti irrisolti sul caso Moro, di Falco Accame a cura di Marilina Veca – Massari Editore, Bolsena (VT) 2005.
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