Nel XIX secolo lo scontro fra la società tribale dei pellerossa americani e gli
“uomini bianchi” giunti dall’Europa alla conquista del ricco Nuovo Mondo
E IL GRANDE GORGO DELLA CIVILTÀ
INGHIOTTÌ I FIGLI DELLE PRATERIE
di NATAN MONDIN
Per convenzione, con il nome di Guerre Indiane vengono indicate tutte le campagne militari volte a garantire l’espansione della sovranità americana sui territori del West. Lungo tutto il periodo che va dal 1860, anno della caduta della frontiera occidentale al dicembre 1890, il giorno del massacro di Wounded Knee si susseguirono numerose deportazioni, scontri e massacri che portarono, con pesanti perdite in termini di vite umane, alla sottomissione completa alla sovranità statunitense delle tribù dei nativi.
Il problema della convivenza fra i pellerossa, i colonizzatori europei prima ed i cittadini americani in seguito ha segnato in maniera drammatica la storia degli Stati Uniti d’America. Dai rapporti commerciali fra i primi coloni e le tribù costiere degli inizi del Diciassettesimo Secolo si giunse definitivamente allo scontro di civiltà nella seconda metà del Diciannovesimo Secolo, che vide la sconfitta definitiva della parte più debole e meno numerosa da parte di quella più “civile” e meglio organizzata.
Gli indigeni che abitavano il continente americano, all’arrivo dei primi coloni europei, erano divisi in un numero incredibile di tribù adattate perfettamente all’ambiente nel quale vivevano, che tuttora presenta caratteristiche climatiche e geografiche fortemente eterogenee da nord a sud e da est ad ovest. Ovunque l’uomo bianco lo incontrasse, l’indiano aveva adeguato il suo modo di vivere e le sue abitudini all’ambiente circostante. La vita del nativo si svolgeva in stretto rapporto con la natura dalla quale dipendeva direttamente per la sopravvivenza. Di questo rapporto di dipendenza l’indiano era consapevole e le religioni delle diverse tribù avevano tutte una forte connotazione naturale in cui tutto era regolato dal Grande Spirito che reggeva l’ordine del creato, fonte di vita e di morte, di punizioni o ricompense.

Era forte l’identificazione totale fra cacciatore e preda che si manifestava con la
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Presunto ritratto di Cavallo Pazzo
preghiera che il cacciatore indiano recitava sull’animale ucciso per giustificare la necessità della sua morte e il bisogno umano che l’aveva resa necessaria. L’atteggiamento nei confronti della natura e la religiosità degli indiani rappresentavano e rappresentano tuttora alcune delle innumerevoli differenze della cultura tribale rispetto a quella dell’americano “civilizzato”. La famiglia non rappresentava una istituzione forte, la comunità, il gruppo era la sola istituzione che garantisse la sopravvivenza. Nel sistema tribale predominavano scopi collettivi invece che privati. Le società indiane erano culture orali, in cui predominava la tradizione, ovvero la conoscenza basata sull’esperienza tramandata direttamente dagli altri membri del gruppo, narratori di storie ed oratori. L’apprendimento era un processo collettivo, come le azioni che ne risultavano.
Da questo aspetto fondamentale della civiltà indiana derivavano gli elementi di primo piano della vita sociale, come la passione per l’unanimità dei consigli tribali oppure il modo di impostare le trattative con gli europei prima e con gli americani poi nei termini di avvenimenti noti a tutti quelli che partecipavano alla tradizione orale. La cultura dei bianchi era ed è scritta e la parola stampata permette un rapporto individuale con la cultura. Il sapere viene fissato su carta e il progresso del pensiero avviene spesso in maniera accademica, dialettica, ovvero poco pratica e più teoretica. Questo atteggiamento nei confronti della cultura è più astratto rispetto a quello orale e meno ricco di risvolti concreti e pratici. L’apprendimento è un atteggiamento individuale. Individuale come l’iniziativa economica, la ricerca del successo e la lotta per la sopravvivenza. Il conflitto fra queste due visioni è durato per tutto il corso della storia americana ed ha prodotto una tragedia prolungata, frutto della reciproca incapacità di capire la visione opposta e di modificare la propria.

All’interno dei numerosi gruppi tribali del Nord America erano presenti alcune caratteristiche differenti per quanto riguarda la struttura sociale e politica. Numerosi popoli indigeni delle regioni subartiche, della costa nord-occidentale, del Plateau, dell’ attuale California e del Sud-Ovest erano organizzate, in base al territorio o al regime economico, in gruppi famigliari, bande, mini-tribù e tribù vere e proprie. La complessità della struttura organizzativa cresceva con la disponibilità di ampi spazi da abitare e nei gruppi dediti all’agricoltura che presentavano degli ordinamenti molto più articolati rispetto a quelli che trovavano fonte di sostentamento nella caccia e nella raccolta. Ciascuna organizzazione era guidata da un capo , scelto in vari modi, in base alle sue capacità più spesso che per carica ereditaria. I capi militari, della guerra, si distinguevano nettamente dai capi civili. Il coraggio in guerra non era una qualifica indispensabile del capo di tutte le tribù indiane.
I capi civili rivestivano il ruolo fondamentale degli arbitri e dei pacieri in caso di liti interne all’organizzazione, erano i garanti della pace e difendevano il principio di accordo pacifico con i gruppi estranei. La responsabilità di organizzare e dirigere le spedizioni in tempo di guerra era affidata ai capi militari. Non erano rare le alleanze fra più gruppi e tribù per far fronte a compiti o eventi straordinari come spostamenti, la caccia e di solito esistevano associazioni maschili che elaboravano regolamenti in merito a tali questioni, elaborati a vantaggio dell’intera società. Tali consuetudini hanno continuato a caratterizzare le popolazioni indigene anche in seguito all’arrivo dei bianchi. Alleanze e partecipazione corale alla stipula di trattati, alle assemblee ed agli incontri con i delegati dei governi coloniali ed americani erano una consuetudine consolidata di tutti i nativi nord americani.

Nell’attuale territorio degli Stati Uniti, era raro trovare forme di potere assoluto come
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Ritratto di Cavallo Pazzo
quello di cui si avvalevano i sovrani e le oligarchie degli imperi Aztechi ed Inca di Messico e Perù. L’eccezione era rappresentata dall’autorità esercitata dai capi delle tribù Nachez che abitavano la zona del Golfo del Messico, dove si faceva sentire l’influenza degli stati teocratici aztechi. In misura minore, la “monarchia centralizzata” di re Powhatan in Virginia e i capi Calusa della Florida si avvalevano di un forte potere sulle decisioni delle loro comunità.
Dalla storia dei Cherokee, la cui organizzazione politica reagì prontamente alle occasioni ed ai pericoli che si presentavano, si evince una documentazione ricca ed articolata sulle strutture politiche delle società indiane più evolute. Nei primi anni del Diciottesimo secolo non era presente nessun legame formale fra le comunità Cherokee, che si governavano autonomamente.
In seguito ai primi contatti stabiliti con gli inglesi e, in misura minore, con i francesi, incominciò a prendere forma uno stato tribale capace di trattare con i bianchi, i quali per ignoranza e per convenienza preferirono considerare tutti i Cherokee come cittadini di un unico stato. Di fatto si trattava di una aggregazione o confederazione di singole comunità, coordinate da un sistema complesso di consigli tribali che esprimevano la volontà di ogni gruppo. In un primo momento questa organizzazione assunse le caratteristiche di uno stato teocratico. Con l’aumentare dei contatti fra nativi e coloni si modificò con l’introduzione dei consigli di guerrieri che nacquero con lo scopo di garantire l’incolumità dei mercanti bianchi dalle azioni dei giovani guerrieri che minavano la disciplina della vita politica dei Cherokee. I villaggi modificavano la propria organizzazione in base alle esigenze contingenti, rendendo assai flessibile la composizione sociale della tribù o della comunità che conferiva la responsabilità a membri differenti in situazioni diverse.

La caccia, per esempio, toccava ad un agglomerato di famiglie autonome, specialmente in inverno, quando gruppi formati da non più di dieci cacciatori partivano a caccia di cervi, fonte indispensabile di cibo e pelli. Quest’ultimo articolo costituiva la merce più importante per gli scambi con cui si acquistavano i prodotti europei, per lo più armi, utensili ed indumenti.
Fra i Cherokee esistevano sette clan, ognuno rappresentato in ogni comunità. Le questioni riguardanti la distribuzione della terra, i matrimoni e la vendetta erano oggetto delle decisioni di clan. In questa rete di rapporti, l’omicidio di un membro di un clan esigeva una vendetta di sangue che era responsabilità di tutti i maschi dello stesso. Se il colpevole fuggiva in casa del sacerdote capo della comunità, non poteva essere punito. Quindi seguiva una specie di udienza in casa del capo dove si incontravano le due parti in causa, ovvero la sezione di clan della vittima e quella dell’assassino, che alla fine giungevano ad un accordo.
Il villaggio Cherokee assumeva un'altra configurazione in occasione del consiglio del villaggio che veniva istituito per prendere le decisioni in merito ai rapporti con le tribù vicine o con le colonie europee. Per tali questioni tutte le tribù agivano unitariamente, rappresentate dal consiglio degli anziani, i “Beneamati” scelti dai sette clan e tutti i maschi avevano diritto di parola sulle questioni trattate dal consiglio. In caso di guerra veniva formato un organo decisionale differente, il comitato di guerra eletto dai guerrieri che designavano un capo guerriero, un sacerdote di guerra, un oratore ed un chirurgo, nonché otto ufficiali scelti fra i giovani e sette rappresentanti dei clan. Le spedizioni di guerra erano composte da bande di circa trenta guerrieri che godevano di autonomia completa nel raggiungere gli obiettivi assegnati dal consiglio di guerra.

Gli anziani non esercitavano alcun controllo su di loro. Il sacerdote chiedeva il benestare degli spiriti mediante riti appropriati e cercava visioni che prevedessero l’esito delle spedizioni. Al ritorno dalla guerra i soldati pellerossa dovevano subire una purificazione rituale prima del reinserimento nella vita quotidiana della comunità.
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Il colonnello George Custer
La normalità era comunque la pace, la guerra era un eccezione dal momento che l’uomo virtuoso evitava il conflitto, per il pensiero dei Cherokee e di molte tribù del Nord Ovest. Questo atteggiamento era alla base del principio dell’ “unanimità” di molti gruppi indiani che ad ogni prezzo ricercavano armonia e consenso. Chi aveva opinioni differenti dall’unanimità, si metteva da parte, dal momento che l’uomo virtuoso sapeva evitare gli scontri anche con una ritirata.
Da questo punto di vista il singolo guerriero era molto autonomo, e le sue decisioni erano dettate sia dall’indirizzo unanime sia dai suoi “sogni”, ovvero le visioni che ogni combattente indiano ricercava alla vigilia di un combattimento per ottenere indicazioni dagli spiriti circa il suo ruolo e la sua figura all’interno della comunità in lotta. Un guerriero poteva anche disertare se i suoi sogni lo spingevano a ritirarsi. Il principio di unanimità rappresentava dunque la solida base sulla quale si costruiva la fiducia reciproca di coloro che formavano la spedizione di guerra, così come la forte identità tribale. L’incapacità dei Cherokee e della maggior parte dei gruppi indiani che si oppose alla dominazione dei bianchi di resistere all’invasione è da attribuire più alla loro inferiorità numerica che ad un ipotetica mancanza di organizzazione.

Fin dall’inizio l’incontro fra due culture diametralmente opposte come quella cattolica ed individualista dei coloni europei e quella collettiva e spirituale dei nativi americani portò a grandi incomprensioni ed a forti scontri. Ciononostante, in principio le relazioni fra i due popoli si basarono su basi paritarie, in modo particolare per quanto riguarda i contatti commerciali che attecchirono da subito grazie alla forte rilevanza dello scambio e del dono nelle civiltà tribali. Il principio di ospitalità e di mutuo soccorso che caratterizzava le collettività indiane fu sfruttato dal mercante europeo e portò notevoli cambiamenti, non sempre negativi, per le tribù indigene. I bianchi portarono le armi da fuoco, i cavalli, l’utilizzo delle pentole e degli utensili in ferro che contribuirono a migliorare la qualità di vita degli indiani. Al contrario, alcolismo e malattie costituirono da subito le prime conseguenze negative per i nativi in questi primi contatti con le civiltà europee. Da subito la convivenza delle due culture portò a scontri violenti e sempre più ricorrenti principalmente per questioni territoriali.
La prima cessione di terra indiana agli inglesi avvenne nel 1625 quando i Pemaquid consegnarono la terra ai coloni con una cerimonia durante la quale fu segnato il primo pezzo di carta da un capo indiano, per assecondare gli usi degli europei. La maggior parte dei coloni che giunse in seguito non si attenne sempre a questa procedura e la violenza fu subito il metodo più facile e veloce utilizzato dai coloni per occupare nuovi territori. Nel 1675 i Wampanoag ed i Narraganasset furono sterminati dalle armi da fuoco degli abitanti della Nuova Inghilterra in seguito alla rivolta della prima confederazione indiana guidata da “re Filippo” contro le azioni provocatorie dei bianchi.

Fatti di questo genere si ripeterono per due secoli, alimentati dalla costante espansione nelle regioni interne dei coloni, che si spinsero fino ai due fiumi che delimitavano il confine naturale con le grandi pianure occidentali, il Mississippi ed il Missouri. Le Cinque Nazioni degli Irochesi, le più progredite fra le
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La tomba di Custer
nella piana di Little Big Horn
tribù orientali, si sforzarono invano nel mantenere la pace e l’armonia nei rapporti con i nuovi arrivati. Dopo anni di spargimenti di sangue per mantenere la loro autonomia politica furono sconfitti e molti ripararono in Canada, altri si spinsero ad Ovest mentre molti furono rinchiusi nelle prime riserve. Intorno agli anni sessanta del diciottesimo secolo il capo Pontiac degli Ottawa riunì le tribù della zona dei Grandi Laghi con la speranza di cacciare gli inglesi dai loro territori. Commisero l’errore di allearsi con i francesi che fecero mancare il loro appoggio durante l’assedio decisivo di Detroit.
Dopo alcuni anni in cui i conflitti fra le due civiltà si manifestarono a livelli contenuti e circoscritti, nei primi anni del Diciannovesimo secolo alcune tribù si riorganizzarono sotto la guida di un capo carismatico per cercare di frenare le continue pressioni dei nuovi cittadini del Nuovo Mondo Per nuove terre da abitare, possedere e trasformare. Tecumseh degli Shawnees guidò una confederazione di tribù del Sud e del Middle West per proteggere i loro territori dall’invasione. Dopo alcune vittorie il sogno svanì con la morte di Tecumseh sul campo di battaglia, nel 1812. Con la presidenza di Andrew Jackson la questione indiana arrivò ad una svolta decisiva che condusse bianchi e pellerossa allo scontro campale delle guerre indiane che si protrassero per più di trent’anni ed in seguito alle quali i bianchi si impossessarono di tutto il territorio del West.

Durante la sua carriera militare si era occupato in prima persona delle lotte contro le tribù ostili dei Cherokee, dei Chckasaw, dei Creek e dei Seminole le quali, nonostante le continue aggressioni subite che provocarono innumerevoli lutti ad entrambe le parti, rimanevano ostinatamente attaccate ai territori a loro assegnati dai numerosi trattati stipulati con le autorità locali degli Stati americani. Eletto nel 1829 Jackson propose da subito la creazione di un ampio distretto ad Ovest del Mississippi la cui proprietà fosse garantita a tutte le tribù indiane. Un anno dopo la sua elezione le proposte divennero legge. Nel 1832 il Presidente nominò un commissario responsabile degli affari indiani alle dipendenze del Dipartimento della Guerra. Il suo compito era principalmente quello di garantire che le leggi stipulate in materia indiana venissero applicate correttamente. Il 30 giugno del 1834 il Congresso varò l’ Act to regulate trade and intercorse with the indian ribes and to preserve peace on the frontiers.
Venne stabilita così la frontiera Indiana permanente che si estendeva ad ovest del novantacinquesimo meridiano con l’esclusione degli stati del Missouri, della Louisiana e del Territorio dell’Arkansas. Tutte le tribù ad est di questo nuovo confine fra “civili” e “selvaggi” furono costrette a spostarsi sotto la supervisione dell’esercito al di là della “frontiera”. Per tenere gli indiani oltre il novantacinquesimo meridiano e per impedire ai bianchi non autorizzati di superarlo, vennero istituiti una serie di presidi militari permanenti. Nei dieci anni che seguirono la nascita della frontiera celebrata da innumerevoli racconti, film e perfino dai fumetti le tribù orientali si trovarono di fronte al periodo più buio della loro storia.

La grande Nazione Cherokee era sopravvissuta per oltre cento anni alle guerre, alle malattie, al whiskey, i suoi componenti ammontavano a diverse migliaia pertanto si progettò di spostarli ad ovest per gradi. La scoperta dell’oro sugli Appalachi non rese possibile questo progetto ad ampio respiro. Nell’autunno del 1838 il generale Scott organizzò il loro accerchiamento e ordinò di radunarli in campi di prigionia dai quali partì la marcia di spostamento verso il Territorio Indiano. Durante la lunga migrazione invernale, il “cammino delle lacrime” dei Cherokee, un indiano su quattro morì di freddo, inedia o malattia. La stessa sorte toccò anche ad altri gruppi tribali. Creek, Seminole, Miami, Ottawa, Uroni giunsero come profughi nei territori liberi degli indiani delle grandi pianure. Ai superstiti del sanguinoso spostamento rimase poco tempo per godere della pace e della serenità dei territori indiani.
La guerra contro il Messico che portò l’annessione di Texas e Nuovo Messico, la scoperta dell’oro in California attirarono nuove ondate di emigrazione bianca da est ad ovest. Le piste si riempirono di carovane di avventurieri e bianchi che tentavano la fortuna a occidente. Queste palesi violazioni della frontiera trovarono giustificazione nella teoria del Manifest Destiny con la quale si affermava che gli europei ed i loro discendenti erano chiamati a governare tutta il continente americano. Veniva sancita la superiorità della civiltà europea su quella indiana, pertanto tutto ciò che apparteneva alle tribù native, terre, foreste, ricchezze minerarie e gli stessi pellerossa sarebbe dovuto ricadere sotto la responsabilità dei nuovi Stati americani.

Così le violazioni alla costituzione della frontiera si susseguirono rapidamente, nel 1850 la California divenne il trentunesimo stato dell’Unione; venne trovato oro sulle montagne del Colorado e nuovi convogli di cercatori sciamarono nelle pianure; furono organizzati due nuovi territori, il Kansas ed il Nebraska; nel 1858 il Minnesota divenne un nuovo Stato ed i suoi confini furono portati ad un centinaio di chilometri oltre la linea del novantacinquesimo meridiano. Nel 1860, allo scoppio della grande Guerra Civile, c’erano con molta probabilità trecentomila indiani negli Stati Uniti e nei Territori. La quasi totalità abitava le terre destinate loro dall’Act di Jackson. La tribù occidentale più numerosa e
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Il grande capo Toro Seduto
potente era quella dei Sioux o Dakota, che fino ad allora era riuscita a mantenere un certo distacco con i coloni e che ancora riusciva a mostrare un atteggiamento di forte opposizione alle loro incursioni nel loro territorio, al contrario delle disilluse tribù che avevano già lottato e perso contro i futuri proprietari del continente.
I Sioux erano organizzati in maniera molto simile ai Cherokee, divisi in due grandi gruppi tribali. I Santee che vivevano nelle foreste del Minnesota e da pochi anni stavano cedendo il passo ai coloni, ritirandosi all’interno. Piccolo Corvo, il loro capo, dopo essere stato condotto a visitare le città orientali si era convinto che non era possibile fronteggiare la potenza degli Stati Uniti e stava tentando di guidare la sua tribù sulla via dell’uomo bianco , deciso comunque a opporsi ad ulteriori cessioni di terre. Più ad ovest abitavano i Teton Sioux, tutti indiani a cavallo, completamente liberi e che quindi disprezzavano i cugini Santeee che cercavano il compromesso con i coloni. Erano i più numerosi ed i più fiduciosi sulla capacità di difendere il loro territorio. All’inizio della Guerra Civile, il capo più in vista era Nuvola Rossa, un guerriero di trentotto anni, mentre Cavallo Pazzo, membro del gruppo degli Oglala Teton, a dieci anni era ancora troppo piccolo per essere un soldato.

Fra gli Hunkpapa Teton si era già fatto una reputazione come cacciatore e guerriero Tatanka Yotanka, Toro Seduto un giovane di venticinque anni che nei consigli tribali sosteneva una ferma opposizione a qualsiasi intrusione dei bianchi. Coda Chiazzata invece era il portavoce di un altro piccolo gruppo dei Teton, i Brulè, che vivevano nelle pianure dell’estremo occidente. Coda Chiazzata era contrario allo scontro, soddisfatto del suo modo di vivere e legato alla terra sulla quale viveva, era disposto a qualsiasi accordo pur di mantenere la pace ed evitare lo scontro. Un'altra tribù, meno numerosa, era legata ai Teton, gli Cheyenne che in passato occupavano alcuni territori del Minnesota ed in seguito si spostarono ad ovest, dove dividevano con i Sioux i territori lungo il fiume Powder ed il territorio del Bighorn e spesso si accampavano vicino a loro. I cheyenne del nord erano guidati da Coltello Spuntato, mentre quelli meridionali, che abitavano le pianure oltre il fiume Platte, facevano capo a Pentola Nera un anziano, valoroso capo, più propenso alla pace che allo scontro.
Gli Arapaho erano alleati di lunga data dei Cheyenne e stabilivano i loro insediamenti nelle stesse terre. Piccola Cornacchia, con più di quarant’anni, era il loro capo più conosciuto e celebrato. Diversa era l’organizzazione dei Comanche e dei Kiowa, che erano stati cacciati da Sioux, Cheyenne ed Arapaho. Entrambi erano divisi in bande, i primi non presentavano un comando accentrato mentre i Kiowa seguivano le decisioni di un consiglio di leader fra i quali spiccavano Satana, Lupo solitario ed un sottile ed intelligente statista, Uccello che Scalcia. Fra i Comanche godeva di grande stima Dieci Orsi, molto anziano, era più un poeta che un capo guerriero. Nel 1860 il futuro condottiero meticcio Quanah Parker che avrebbe guidato i Comanche nell’estrema lotta contro i bianchi, non aveva ancora vent’anni.

Gli Apache erano un altro gruppo abbastanza numeroso, negli anni sessanta del Diciannovesimo secolo erano circa seimila, divisi in bande. Erano celebri per le aspre lotte contro gli spagnoli, dai quali appresero a loro spese tecniche di tortura e guerriglia che gli consentirono insieme alla loro tenacia e determinazione a difendere il loro inospitale territorio.
Mangas Colorado, uno dei loro guerrieri, oramai settuagenario, aveva firmato a quei tempi un trattato di amicizia con gli Stati Uniti, puntualmente disatteso dall’Afflusso di minatori e soldati nelle sue aree di influenza. Kociss, suo genero, era fiducioso nei confronti degli accordi con gli americani mentre Nana si era opposto tenacemente al compromesso, convinto della malafede degli americani per lui del tutto simili agli spagnoli. Geronimo, l’ultimo grande capo Apache non si era ancora messo in luce.
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Il leggendario Geronimo,
a destra, con due guerrieri
I Navaho erano imparentati con gli Apache, al contrario dei loro cugini bellicosi e nomadi, questa tribù aveva assunto le usanze degli spagnoli, viveva di allevamento ed agricoltura ed era organizzata in villaggi di hogans. Le tipiche abitazioni navaho avevano porte caratteristiche orientate ad est ed erano costruite con tronchi e fango secco. Manuelito era il loro capo supremo e non aveva potere su alcuni gruppi di facinorosi che assalivano con scorribande i vicini Pueblo e gli accampamenti di minatori. Con il pretesto di difendersi da questi sbandati, l’esercito non colpì i colpevoli ma distrussero gli hogans e si appropriarono del bestiame di Manuelito e dei membri del suo popolo. A nord dei territori Apache e Navaho, le Montagne Rocciose erano dominio indiscusso degli Ute gidati da Ouray che si schierò dalla parte degli Stati dell’unione per combattere gli altri gruppi indiani.

Le tribù della California erano divise e già sottomesse ai bianchi, mentre i Nez Perces dell’estremo nord ovest si accontentavano di vivere in pace entro i confini di una immensa riserva. Heinmot Tooyalaket, il loro famoso Capo Giuseppe che si trovò a scegliere nel 1877 fra pace e guerra era un ragazzo, figlio di un nobile capo. Nel territorio del Nevada dei Paiute Wovoca, la famosissima guida spirituale, che in seguito alla disfatta totale degli indiani ebbe una notevole influenza per ristabilire una identità religiosa dei nativi, era ancora un bambino. Gran parte di questi capi ed altri ancora entrarono nella storia e nella leggenda, nei trent’anni che seguirono la caduta della frontiera occidentale, fino al massacro di Wounded Knee del dicembre 1890. In quel tragico giorno trovarono la morte circa trecento indiani sotto i colpi di artiglieria e di mitraglia della cavalleria. Furono catturati mentre cercavano di fuggire dalla riserva in cui Toro Seduto fu assassinato, in seguito alle ribellioni ed alle lotte fra indiani civilizzati, soldati e ribelli che scoppiarono nell’agenzia di Nuvola Rossa. Qui avrebbero potuto colmare il vuoto spirituale sotto la guida del celebre capo e medicine man che da tempo aveva accettato il compromesso con l’uomo bianco.
A causa di un gesto di orgoglio di un indiano sordo che non volle consegnare il proprio fucile alle truppe statunitensi, venne fatto fuoco con artiglieria e fucili sui prigionieri, con una violenza giustificata dall’odio e dal rancore. Alcuni fra gli ufficiali di cavalleria erano reduci della battaglia del Little Bighorn, il celebre fiume delle pianure lungo le cui rive ebbero la meglio gli indiani guidati da Cavallo Pazzo e Toro Seduto sul reggimento comandato dal Colonnello Custer che morì in quell’occasione, all’apice della sua gloria militare. La battaglia del Little Bighorn rappresenta l’episodio simbolo delle guerre indiane. E’ stata mitizzata, raccontata in numerosi film, citata in romanzi e addirittura fumetti. Forse perché è l’unica battaglia campale in cui pellerossa ebbero la meglio sui “visi pallidi”.

Forse perché riassume in un unicum tutte le premesse che hanno portato alle centinaia di scontri, scaramucce, massacri fra due civiltà opposte. Da un lato la volontà di preservare la propria identità, le tradizioni di caccia del bisonte ed alla spiritualità legata al rispetto della natura e del territorio. Dall’altro la parossistica ricerca di ricchezze, l’ansia di dominio e possesso che ha precluso ogni strada al dialogo ed alla convivenza. In ultimo, lo scontro di Little Bighorn vide protagonisti gli uomini simbolo, le figure che incarnano le due opposte filosofie. Cavallo Pazzo, un vero e proprio Messia per la nazione Sioux, capo degli Oglala, condottiero e guida spirituale si contrappone al colonnello Custer, figlio di un eroe della guerra civile, ambizioso ufficiale della nobiltà cadetta Wasp che aprì la strada alla corsa all’oro del Dakota.
Lo sfruttamento delle miniere delle Black Hills fu il solo presupposto della battaglia in cui il mitico “Capelli Biondi” Custer cadde sotto le frecce acuminate degli indiani di Cavallo Pazzo.
I “Paha Sapa”, le colline nere, si trovavano al centro del territorio dei Sioux, erano il loro territorio sacro, dimora degli dei, montagne sacre dove i guerrieri si recano per pregare ed attendere le visioni mandate dal Grande Spirito. La guerra per il controllo delle “Black Hills” trova le sue premesse nel 1868, quando il presidente Grant, il Grande Padre, dichiarò il territorio privo di valore e ne attribuisce il legittimo possesso ai Sioux mediante un trattato, come consuetudine. Dopo quattro anni alcuni minatori bianchi si avventurano per i passi montuosi delle colline sacre e trovano nei ruscelli tracce d’oro.

La reazione degli indiani è prevedibile. Tutti i coloni vennero uccisi. A questo punto la situazione iniziò a degenerare. Nel 1874 su pressioni dei minatori venne organizzata una spedizione scortata alla ricerca dell’oro sulle Paha Sapa. Dal vicino forte Lincoln partirono mille soldati guidati da Custer. La fama del comandante era tristemente nota ai pellerossa, dal momento che Capelli Biondi aveva sterminato i Cheyenne di Pentola Nera sei anni prima, sul fiume Washita. Il capo dei Sioux, Nuvola Rossa protestò per questa invasione che di fatto infranse gli accordi con il governo. Grant riuscì a stento a contenere le
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Donne indiane davanti
alla tipica tenda
richieste dei minatori, soprattutto in seguito alle dichiarazioni di Custer, il quale sostenne che le colline fossero colme d’oro “ dalle radici dell’erba in giù”.
Sì aprì una pista, che presto i pellerossa battezzano “Pista dei Ladri”. Nuvola Rossa continuò a confidare nell’appoggio e nell’autorità del Grande Padre. Numerosi guerrieri e le loro famiglie, a causa dei soprusi che erano costretti a subire nelle agenzie e delle condizioni di vita miserevoli alle quali erano ridotti, cercarono conforto e rifugio al fianco di alcuni capi carismatici che non erano d’accordo con il compromesso governativo che li obbligava a sottostare alle regole dell’uomo bianco. Fra questi vi era Cavallo Pazzo. Le notizie sulla vita di questo grande condottiero Sioux sono per la maggior parte legate a fonti orali ed alle esigue cronache degli scontri fra esercito statunitense e pellerossa. Il suo nome da ragazzo era Riccetto, per via dell’insolita capigliatura. Suo padre gli trasmise il proprio nome in seguito ad un cruento scontro contro la tribù rivale degli Arapaho, quando l’allora diciottenne condottiero indiano si distinse per valore e coraggio.

Si crede che il giovane Cavallo Pazzo fosse nel campo dei Brulè all’epoca del massacro condotto dai soldati del comandante Grattan, scatenato da un banale incidente, nel quale aveva trovato la morte la mucca di un colono. Dopo aver assistito, impotente, alla decimazione della tribù di Orso che Conquista, il giovane Cavallo Pazzo vagò per le Sand Hills, territorio della tribù Sioux dei Brulè. Qui ebbe la visione che accompagnò le sue imprese per tutta la vita. Sapeva vagamente cosa avrebbe dovuto fare. La visione sarebbe arrivata soltanto grazie a grandi sofferenze fisiche, dopo giorni di digiuno e silenzio, quando il corpo avrebbe oltrepassato i confini della resistenza e della coscienza. Una volta lasciato il villaggio, si appartò su una collina nei pressi di un lago. Qui si costruì un giaciglio di pietre dove sul quale si sdraiò come un fachiro in attesa della visione. Dopo tre giorni di digiuno da cibo e acqua, il Grande Spirito non era venuto a fargli visita. Rassegnato prese il cavallo e si diresse verso il lago per dissetarsi.
Vinto dalla stanchezza, cadde da cavallo e perse i sensi. A quel punto ebbe la visione. Un cavaliere, senza insegne di guerra, senza i piumaggi che contraddistinguevano i guerrieri sioux, emerse dalle acque del lago e gli venne incontro. Galoppava fluttuando nell’aria, avvolto da un nugolo di frecce e proiettili che si dissolvevano prima di colpirlo. Il cavaliere gli disse che non avrebbe mai dovuto indossare il piumaggio dei guerrieri, ad esclusione di una penna di falco rosso Non avrebbe mai dovuto dipingere il cavallo con colori di guerra e nemmeno ornare la sua coda con piume o insegne. Gli disse che nessuna freccia o proiettile nemico l’avrebbe colpito se avesse coperto il suo cavallo con lunghe strisce di polvere ed avesse fatto lo stesso con il suo corpo ed i suoi capelli.

Mentre il cavaliere parlava, alle sue spalle comparvero centinaia di persone che tentavano di afferrarlo, di fermarlo. Il cavaliere riusciva a divincolarsi mentre si scatenava una tempesta di grandine. Una saetta colpì il guerriero e mentre la grandine si abbatteva sul baio che cavalcava, la folla riuscì a disarcionare il cavaliere. A quel punto il ragazzo si svegliò. Tornò al villaggio degli Oglala dove fu severamente rimproverato dal padre, in ansia dopo aver ricevuto le notizie del massacro dei Brulè. A lui Cavallo Pazzo raccontò la sua visione. Il padre gli disse che il Grande Spirito aveva riservato per lui un futuro da guerriero. Gli impose di non indossare nessuna insegna ad eccezione della piuma di falco rosso, come il cavaliere gli aveva consigliato. Gli impose di non prendere nessun trofeo o scalpo dopo qualsiasi battaglia. Ma non gli svelò mai il significato dell’ultima parte della visione, che preannunciava la morte prematura del guerriero per mano della sua stessa gente.
Cavallo Pazzo seguì alla lettera i consigli del padre e della sua visione. Negli scontri contro le tribù ostili così come nella lotta contro l’esercito delle giacche blu. Si distinse in numerose campagne, contro i Crow e gli Arapaho. In più occasioni ebbe modo di scontrarsi con la cavalleria ed i soldati del governo americano. Ne uscì sempre vincitore. Non cercò mai il compromesso e non si sottomise mai alle regole imposte dai trattati. Dopo il trionfo ottenuto nell’imboscata ai danni delle truppe in forza al forte Kearny, nei pressi del territorio Oglala, la sua fama crebbe e molte famiglie si unirono al suo seguito. Attratte dalla vita in libertà. Illuse dal miraggio di poter continuare a vivere di caccia nei territori sacri al loro popolo. Mentre aumentava l’interesse dei bianchi per i giacimenti auriferi delle Black Hills, Cavallo Pazzo era impegnato a difendere la sacralità di quei luoghi con ricorrenti imboscate ai convogli dei minatori.

Fra la fine del 1875 e la prima metà del 1876 si assistette ad un’escalation di violenze e la
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Geronimo a ottant’anni
situazione precipitò irrimediabilmente. Le continue pressioni da parte dei minatori spinsero il governo a fare un offerta ai capi sioux per le concessioni minerarie delle Paha Sapa. Nel dicembre del 1875 venne proposto ai pellerossa di vendere i territori . Gli indiani, rappresentati da Coda Chiazzata, Nuvola Rossa si era rifiutato di partecipare alle trattative, rifiutarono ogni offerta. Pertanto il Congresso fissò unilateralmente una cifra “Come giusto equivalente del valore delle colline”. A questo punto la strada per la più grande sconfitta dell’esercito degli stati untiti nelle guerre indiane era spianata, così come la tragica fine della libertà delle popolazioni delle pianure settentrionali.
Il commissario degli affari indiani Edward Smith ordinò agli agenti dei Sioux e dei Cheyenne di avvisare tutti gli indiani che si trovavano fuori dalle riserve di rientrare entro il termine ultimo del 31 gennaio 1876. Altrimenti “sarebbe stato l’esercito a costringerli a farlo”. Il primo febbraio 1876 ci fu la dichiarazione esplicita di guerra ed i giorni successivi il dipartimento della guerra ordinò al generale Sheridan di iniziare le operazioni contro i “Sioux ostili”. Il mandato di preparare una campagna lungo i corsi superiori dei fiumi Powder, Rosebud e Bighorn fu dato a Terry e Crook. A “una stella Terry” riportava direttamente il colonnello Custer. Dal febbraio al giugno del 1876 indiani ed esercito furono impegnati in numerose scaramucce. Da lungo tempo Cavallo Pazzo si preparava ad uno scontro decisivo con le giacche blu.

Negli anni che erano trascorsi dal massacro di Fetterman a Fort Kearny aveva studiato accuratamente il loro modo di combattere. Si recava ancor più di frequente sulle Black Hills per avere visioni, per chiedere consiglio agli spiriti su come combattere e convincere i suoi guerrieri a seguire le sue indicazioni, per fronteggiare il nemico in un modo totalmente diverso dal solito.
Il 17 giugno del 1876 sognò di combattere. Quello stesso giorno sulle rive del Rosebud si scontrarono i Sioux e gli Cheyenne guidati da Cavallo Pazzo e le truppe del Generale Cook. Le nuove tecniche di battaglia messe a punto dal condottiero Oglala, che tenne impegnata la cavalleria su quattro fronti differenti, impegnandola in diverse ondate di attacchi, valse la vittoria dei pellerossa. Fu difficile per le truppe riorganizzarsi, pertanto Crook si ritirò mentre gli indiani si radunarono sulle sponde del Little Bighorn, dove posero l’accampamento le tribù di Cavallo Pazzo, Toro Seduto.
La risposta dell’esercito non tardò a farsi aspettare. La colonna di Crook respinta da Cavallo Pazzo non era che una minima parte delle forze messe in campo dal Governo per contrastare la ribellione di parte della nazione Sioux. Circa seimila soldati fra fanteria, artiglieria e cavalleria, più duemila alleati indiani erano dislocati nella zona delle Black Hills. La mattina del 25 giugno 1876 tremila si mossero verso l’accampamento del Little Bighorn, al comando di Custer. Era un uomo estremamente fortunato ed ambizioso, era convinto che il suo successo nelle campagne contro i pellerossa ed i meriti che gli sarebbero stati attribuiti in seguito alla loro completa sottomissione gli avrebbero spianato la strada verso la Casa Bianca.

Così come accadde per Andrei Jackson o per il Presidente Grant.
I giornali coniarono l’espressione “Custer’s Luck”, per descrivere la sua sfacciata buona sorte che in più di un’occasione lo salvò dalle pallottole avversarie e dai propri errori tattici durante la Guerra Civile. Infatti era solito spingersi alla carica degli avversari senza alcuna cognizione del terreno di scontro e dell’entità delle forze avversarie. Quel giorno saldò i conti con la fortuna. Mosso più dalla sete di gloria e potere che dal buon senso, Custer spinse i suoi uomini al limite delle forze. Li condusse a tappe forzate allo scontro per spazzare via personalmente tutti gli indiani e “costruire su quel successo il trampolino che lo avrebbe portato alla Casa Bianca”, come lui stesso confessò alla sua guida preferita, Coltello Insanguinato. I primi contatti fra truppe dell’avanguardia del comandante Reno ed i pellerossa avvennero attorno a mezzogiorno.
Gli indiani non
si aspettavano
un attacco. L’uomo
bianco era solito
attaccare
alle prime luci
del mattino
Gli indiani non si aspettavano un attacco. L’uomo bianco era solito attaccare alle prime luci del mattino. La polvere sollevata dalla cavalleria fu il segnale improvviso dell’attacco. Nonostante l’effetto sorpresa, i pellerossa impiegarono pochi istanti ad organizzare la difesa e ben presto ebbero la meglio sul manipolo di uomini del luogotenente di Custer, spossati dalle tappe forzate. In molti fuggirono, pochi restarono a difendersi asserragliati su una piccola altura, in attesa che arrivassero i rinforzi della retroguardia di Custer, ovvero un terzo del settimo cavalleria. I restanti erano caduti sul campo, si erano dati alla fuga o resistevano disperatamente agli assalti di alcuni pellerossa che Cavallo Pazzo aveva lasciato sul versante meridionale dell’accampamento, mentre si accingeva ad organizzare le difese del cuore del villaggio.

Infatti la ritirata di Reno non aveva convinto il grande condottiero Oglala. L’esperienza di ventidue scontri diretti con le giacche blu lo portava a credere che altre truppe sarebbero arrivate. Presto il sospetto divenne certezza, quando da Ovest scorse i primi uomini delle tre compagnie al comando diretto di Custer. Ben presto poco più di duecento soldati furono sopraffatti dalla difesa di quasi tremila indiani. Il disperato tentativo degli uomini al comando del colonnello di salvare la pelle durò all’incirca un’ora. “Durò giusto il tempo per un uomo affamato di consumare una buona cena”, come dichiarò il santone Alce Nero, che assistette lo scontro da bambino e misurava il tempo come tutti i sioux con episodi di vita vissuta. Su due alture vicino alle sponde del Little Bighorn persero la vita duecento sessanta quattro soldati blu. Duecento dieci con Custer, cinquanta quattro con l’avanscoperta di Reno e Benteen.
Gli indiani avevano vinto nell’unica, vera battaglia campale di tutti i secoli di guerra fra uomini bianchi e uomini rossi. La più grave sconfitta militare degli Stati Uniti in patria. Tre giorni dopo i soldati del generale Terry trovarono il corpo di Custer intatto e rilevarono i pochi superstiti del manipolo di Reno, ancora asserragliati, nonostante tutti gli indiani avessero levato l’accampamento subito dopo la vittoria. Custer giaceva in mezzo ai suoi uomini trucidati, senza segni di mutilazione. Non gli fu portato via nemmeno lo scalpo. Per il caldo si era fatto tagliare i lunghi capelli biondi pochi giorni prima della battaglia. A nessun indiano interessava uno scalpo rasato.La risposta dell’esercito fu immediata e spietata. Le lotte proseguirono fino a quando nel gennaio del 1877 fu combattuta l’ultima battaglia fra indiani ribelli e truppe regolari.

Nel maggio dello stesso anno Cavallo Pazzo si consegnò con i superstiti del duro inverno delle pianure del Nord a Camp Robinson in Nebraska. Dopo alcuni tentativi di integrazione, cadde vittima della sua stessa gente. Venne accusato di cospirazione contro le autorità della riserva. Tentò di fuggire ma fu catturato dalla polizia indiana e riportato a camp Robinson. Il 5 settembre del 1877 morì colpito a morte a un rene dalla baionetta di un soldato, mentre Piccolo Grande Uomo, un fratello Oglala, lo teneva fermo. Si avverava così la seconda parte del sogno di Cavallo Pazzo. Il cavaliere morì per mano della sua stessa gente.
Dopo Wounded Knee la storia indiana si tinse delle tinte fosche dell’oppressione dello sconfitto. Le tribù ridotte allo stremo dalla potenza militare americana furono definitivamente confinate nelle riserve, misere nazioni indiane sotto la sovranità degli Stati Uniti. I nativi si trovarono ad affrontare la sfida dell’integrazione e della lotta per ritrovare e mantenere la loro identità in una realtà più simile alla prigionia che alla libertà di un tempo. Sfida ancora attuale a distanza di oltre un secolo.
BIBLIOGRAFIA
  • Seppellite il mio cuore a Wounded knee, di D. Brown - Mondadori, Milano 1997.
  • Crazy Horse: the strange man of the Oglalas, di M. Sandoz - University of Nebraska Press, 1982.
  • Gli spiriti non dimenticano, di V. Zucconi – Mondadori, Milano 1996.
  • Uomini bianchi contro uomini rossi, di G. Stefanon – Mursia, Milano 1985.
  • Gli indiani d’America, di W.E. Washburn - Editori Riuniti, Roma 1981.
  • Storia sociale degli Stati Uniti, di P.N. Carroll, D.W. Noble - Editori Riuniti, Roma 1981.
  • La mia Storia, di Geronimo – Bompiani, Milano 2000.
  • La sacra pipa, di Alce Nero – Bompiani, Milano 1986.