Durante la rivoluzione francese è stato il "portavoce della sana Virtù",
ma certamente anticipò il ruolo politico dei dittatori del XX secolo.
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ROBESPIERRE L' INCORRUTTIBILE.
IL TERRORE IN NOME DELLA LIBERTÀ
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L'anno 1789 è una linea che divide la storia politica dell'Europa. Con i moti rivoluzionari francesi nasce il mito solare della Rivoluzione. Il 5 settembre 1793, invece, il sogno della rivoluzione si trasforma nell'incubo del terrore.
La Rivoluzione Francese fu una vera e propria "rivoluzione sociale", smisuratamente più radicale di qualunque equivalente sollevazione. Fu la sola fra tutte le rivoluzioni contemporanee ad essere veramente universale: le sue soldatesche popolari si levarono per rivoluzionare il mondo, le sue idee lo rivoluzioneranno veramente. Nella stessa Costituzione del 1795, nel Preambolo - noto come "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino" - ritroviamo riassunti gli ideali rivoluzionari, poi condensati nell'espressione: "Liberté, Égalité, Fraternité".
La prima parola del motto repubblicano, Liberté, fu concepita secondo l'idea liberale. Essa, nella "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino", fu definita in questo modo: "La libertà consiste nel potere di fare ciò che non nuoce ai diritti altrui". "Vivere liberi o morire" fu la grande massima repubblicana. L'Uguaglianza, invece, ha un alto valore morale, poiché con il termine Égalité si voleva assegnare alla legge un valore democratico: tutti divenivano uguali e le differenze per nascita o condizione sociale dovevano essere abolite. Ognuno, quindi, aveva il dovere di contribuire alle spese dello Stato in proporzione a quanto possedeva, tutti divenivano uguali dinanzi alla legge. Il terzo motto repubblicano, Fraternité, fu infine definito così: "Non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi". In pratica, "fate costantemente agli altri il bene che vorreste ricevere".
Del valore esclusivo della rivoluzione in Francia n'è convinto anche uno dei suoi maggior rappresentanti, Maximilien Marie Isidore Robespierre: "Le rivoluzioni che, sino a noi, avevano cambiato la faccia degli imperi non avevano avuto per oggetto che un cambiamento di dinastia o il passaggio del potere da un uomo solo a più persone. La Rivoluzione francese è la prima che sia stata fondata sulla teoria dei diritti dell'umanità e sui principi della giustizia. Le altre rivoluzioni esigevano soltanto dell'ambizione; la nostra impone delle Virtù".
Virtù, dunque, e con la "V" maiuscola, come si scriveva all'epoca. In questo periodo non c'è concetto che sia stato tanto abusato come quello di "Virtù". Esso fu utilizzato sia dai sanculotti, che esaltavano la "Virtù repubblicana", sia da parte degli aristocratici che difendevano la "Virtù monarchica".
Ma se la "Virtù repubblicana" cresceva giorno per giorno, lo stesso non può dirsi di quella monarchica che, per un errore di valutazione politica, divenne essa stessa una delle principali cause del Terrore rivoluzionario. Infatti, proprio con la fuga di Varennes, quando il 10 agosto del 1791 il re Luigi XVI e la sua famiglia ripararono all'estero, furono poste le radici del Terrore rivoluzionario. Il re, lo ricordiamo, scappò non tanto per sottrarsi ad un pericolo in ogni caso reale, quanto per trovare alleati, Austria e Prussia in particolare, pronti ad offrire assistenza e difesa alla "Virtù monarchica" francese. La fuga di re Luigi XVI e della sua famiglia, dunque, fu intesa dall'opinione pubblica francese (anche da quella parte ostile, o quanto meno indifferente, alla rivoluzione) come un alto tradimento verso la Patria e, grazie a questo "errore" di calcolo politico, il patriottismo rivoluzionario si alimentò crescendo a dismisura.
Insomma, la "Virtù repubblicana", minacciata ora dalle armate straniere schierate accanto al re traditore, diede la sua giustificazione morale nobilitando l'utilizzo del terrore.
Secondo i contemporanei coinvolti negli avvenimenti della rivoluzione in Francia, anche il "Terrore" che scaturì dai moti rivoluzionari andava giudicato essenzialmente secondo il metro della Virtù. Il "Terrore" riferì Robespierre nel suo celebre discorso "Sui principi della morale politica" esposto alla Convenzione nazionale, come vedremo più avanti, "non è altro che la giustizia severa e inflessibile, ossia l'emanazione della Virtù".
All'apice della Rivoluzione francese troviamo quindi il "Terrore" come necessità, che mise a soqquadro la Francia. Esso fu la naturale conclusione di un movimento che, per accelerazioni progressive, volle fare terra bruciata del passato religioso, culturale e civile della Francia, e praticò sistematicamente, come metodo di lotta politica, l'annichilamento dell'avversario esercitando il potere in modo totalitario.
Entra in scena la ghigliottina. Durante tutto il periodo rivoluzionario esiste un binomio terrificante: "Rivoluzione-patibolo". Esso si precisa meglio con l'assimilazione del patibolo con una nuova macchina: la ghigliottina. Anche se già inventata nel 1790, il suo uso è introdotto da un voto dell'Assemblea Legislativa nel 1792. La "macchina per ammazzare" è inventata da Joseph Ignace Guillotin, un ex gesuita uscito dalla Compagnia di Gesù nel 1763 per studiare la medicina del corpo anziché quella dell'anima. Nel 1789 entra negli Stati Generali (poi trasformatisi in Assemblea Nazionale) come rappresentante del Terzo Stato di Parigi, la città dove esercita l'arte medica.
In tale veste, nel novembre dello stesso 1789, egli presenta un progetto di legge che comprendeva, fra l'altro, l'introduzione di un nuovo sistema di morte democratico e indolore. L'articolo 6 del suo progetto recitava: «Il criminale sarà decapitato: lo sarà per effetto di un semplice meccanismo». In pratica, secondo la mente contorta di Guillotin, estendere la decapitazione a tutti e sopprimendo l'impiccagione, si eliminava un privilegio nobiliare: in questo modo si rendeva tutti i cittadini uguali, anche di fronte alla morte legale. Ma il progetto è accantonato (in questo periodo lo stesso Robespierre si dichiara favorevole all'abolizione della pena di morte).
Successivamente l'infernale macchina inventata da Guillotin, per volere dell'Assemblea Legislativa, è messa a punto per risolvere un piccolo problema: chi poteva assicurare che la vittima fosse stata ferma nel momento dell'esecuzione? L'incarico è assegnato a dottor Louis, il segretario a vita dell'Accademia di Chirurgia. Il medico la mette a punto con il "blocca testa". Così trasformato, il nuovo strumento di morte è inaugurato il 25 aprile 1792, con l'esecuzione di un bandito da strada, tale Nicolas Jacques Pelletier. Il nome che si pensa di assegnare al nuovo strumento rivoluzionario è quello di Louison o di Louisette.
Il popolo che assiste alle prime esecuzioni rimane in ogni modo deluso per la brevità del terribile spettacolo, ma la funzione della nuova macchina di morte è più importante d'ogni considerazione popolare: essa sopprime ogni possibilità di riscatto dell'anima del condannato attraverso le sofferenze del corpo. Scrive Daniel Arasse nel suo "La ghigliottina e l'immaginario del Terrore":
«Folgorante, essa proibisce ogni appello, essa è una risposta: risposta laica della Legge al Crimine». In occasione della messa a morte del re Luigi XVI, il 21 gennaio 1793, è inaugurato anche un cerimoniale per le sentenze capitali. Infatti c'è la convinzione che l'esecuzione del re doveva incarnare da quel momento non solo l'abolizione della stessa monarchia ma doveva rappresentare, secondo le parole di Robespierre, anche il suo «carattere solenne di una vendetta pubblica»: «Luigi deve morire perchè la Nazione deve vivere». Il re, quindi, è giustiziato con quell'infernale marchingegno per evidenziare l'uguaglianza di tutti davanti alla legge : «Io non posso oltraggiare la ragione e la giustizia, considerando la vita di un despota come se avesse maggior valore di quella di un semplice cittadino», asserisce il rivoluzionario Robespierre nel suo intervento del 21 gennaio 1793 dinanzi alla Convenzione riunita per il processo al re.
La storia della Francia di questo periodo è strettamente legata proprio al nome di Maximilien Marie Isidore Robespierre (o de Robespierre). E' in lui che s'incarna lo spirito della sollevazione, arrivando da cittadino in una rivoluzione in cui gli altri sono ancora sudditi. Egli, durante tutto il periodo rivoluzionario, per sconfiggere i suoi rivali politici, si attribuì il ruolo di "strumento della Verità", "sacerdote della sana Virtù", "difensore della Democrazia", "eroe della Patria francese". La sua probità è incontestabile tra i suoi contemporanei: egli è per tutti l'Incorruttibile.
L'essere stato il più celebre dei primi grandi capi della democrazia francese, Maximilien Marie Isidore Robespierre lo deve, senza dubbio, al filosofo Jean-Jacques Rousseau, ma anche alla sua origine, oltre che al suo carattere.
Robespierre nasce il 6 maggio 1758 ad Arras, città nella Francia settentrionale, capoluogo del dipartimento del Pas-de-Calais, sul fiume Scarpe. Suo padre è un ventiseienne avvocato, figlio di un avvocato, mentre sua madre è Jacqueline Carrault, figlia di un birraio.
A sette anni Maximilien Marie Isidore, rimasto orfano di madre e con un padre che scompare di scena per motivi sconosciuti, entra nel collegio della cittadina di Arras. A 11 anni, grazie al vescovo del Paese che gli concede una borsa di studio, passa quindi al collegio Louis-le-Grand di Parigi, una delle migliori scuole di Francia. La sua buona condotta scolastica gli permette di ricevere, tra il 1771 e il 1776, tre secondi premi e sei menzioni. Nel 1775 fu scelto per leggere un messaggio in latino a re Luigi XVI in occasione del suo passaggio nei pressi dell'istituto. Nel 1781, a 23 anni, lascia il collegio con la qualifica di avvocato. Per la sua "buona condotta durata dodici anni e i successi conseguiti negli studi", la scuola Louis-le-Grand lo congeda con un premio di 600 livres.
Ritornato da Parigi è subito ammesso a patrocinare presso il Consiglio dell'Artois. Nel marzo 1782 il vescovo lo chiama a succedere al decano del tribunale del suo Paese, come uno dei cinque giudici del tribunale vescovile.
Nel 1783 Nel 1783, grazie ad un'abile e brillante difesa dei parafulmini, di cui non è neppure l'autore, raccoglie il successo assaporando una grandissima notorietà. Difatti è ricevuto dalla "buona società" nei propri salotti, mentre l'accademia di Arras gli apre le porte, nominandolo nel 1786 direttore. Nel giugno 1787 entrò nel circolo letterario Rosati, formato da una quindicina di iscritti aspiranti poeti.
Nel 1788 si unisce ai suoi colleghi del tribunale vescovile nella condanna della riforma giudiziaria introdotta dal governo francese.
La sua attività di avvocato inizia con una causa all'apparenza banale: deve difendere un cordaio accusato di furto da un monaco preoccupato di coprire le proprie scelleratezze. Robespierre ottiene facilmente soddisfazione e, non contento di limitarsi a questo, reclama anche un indennizzo economico per il suo cliente. Per l'occasione redige un memoriale assai violento che presenta al giudice, in cui denuncia le disuguaglianze davanti alla legge e censura i costumi ambigui del religioso. Un po' per invidia, un po' perché poco sensibili al suo fervore nel difendere gente povera, i colleghi del tribunale disapprovano il metodo "dell'infame libello" che Robespierre, contrariamente ad ogni usanza, stampa e presenta prima d'ogni sentenza.
Isolato dai suoi colleghi, Robespierre si allontana volontariamente dall'accademia, prendendo posizione contro il malcostume dell'alto clero e dei notabili. Anche se il vescovato non gli perdona le sue accuse, trova sostegno presso i parroci, che diventano i suoi propagandisti. La corporazione più povera di Arras, quella degli zoccolai, lo sceglie come proprio deputato.
La convocazione degli Stati Generali in Francia cambia la vita di Robespierre, ma non i suoi modi. Ad esempio niente lo induce a rinunciare all'abbigliamento meticoloso: quando la Convenzione si affollerà di sanculotti, egli continuerà ad ostentare cravatta e parrucca incipriata.
Robespierre è e resta sino alla fine un piccolo borghese, e questo sarà in parte la causa della sua popolarità. Infatti, la piccola borghesia francese che costituisce la parte più numerosa del partito giacobino e sanculotto, rintraccerà in lui la dinamicità politica, l'onestà nei modi, la moralità esteriore, la dignità di costumi, la contrarietà verso l'eccessiva ricchezza e il lusso smodato.
Nella primavera del 1789 Maximilien Marie Isidore è eletto tra i dodici rappresentanti del Terzo Stato all'assemblea della città di Arras, diventando poi il quattordicesimo degli eletti tra i ventiquattro rappresentanti della città. Infine si piazza al decimo posto tra i centottantaquattro membri del baillage di Arras. Il 26 maggio 1789 riesce a farsi eleggere al quinto posto sugli otto disponibili per i rappresentanti del Terzo Stato della provincia di Artois. Si trasferisce a Parigi dove abita in rue Saintonge nel Marais, presso un certo Humbert, e prende parte all'Assemblea Costituente dal 5 maggio 1789 al settembre 1791, sedendosi all'estrema sinistra.
Nell'autunno del 1790 è nominato presidente del nuovo tribunale di Versailles. Ma rifiuta per dedicarsi alla politica a Parigi. Nel giugno 1791 è nominato pubblico ministero del tribunale penale di Parigi con uno stipendio di 8.000 livres (in pratica non esercita mai la funzione). Nel frattempo è uno dei soci fondatori del Club dei Giacobini, diventandone il presidente il 24 marzo 1790. In Francia diventa uno dei leader riconosciuti della rivoluzione.
Nel marzo 1791 Robespierre fa stampare ed inviare ad ogni società affiliata al Club dei Giacobini un testo che si concludeva così: "L'eterna Provvidenza grazie alle circostanze quasi miracolose che le è piaciuto creare ha chiamato i francesi ad essere gli unici dopo l'origine del mondo, a ristabilire sulla terra l'impero della Giustizia e della Libertà".
Grazie alla sua attività politica, nell'aprile 1791 è nominato rappresentante del Club giacobino di Marsiglia presso l'Assemblea Costituente. A Parigi diviene subito molto popolare tra i sanculotti e i cittadini "passivi", ossia quelli privi di voto, specialmente dopo che il 9 maggio 1791 presenta una petizione per il loro diritto di voto. Durante la presentazione della petizione egli concluse l'arringa con la seguente frase ad effetto: «Dio accoglie le preghiere di tutti».
E' durante i lavori dell'Assemblea che viene fuori un Robespierre altamente motivato a fare piazza pulita quanto di "vecchio" e marcio la Francia offriva in quel periodo. Le sue grandi battaglie in seno all'Assemblea riguardano la richiesta del suffragio universale per la nuova Costituzione, la pretesa di solide garanzie per l'istituto della rappresentanza, l'ostilità totale alla guerra, nociva per le verità fondamentali della Rivoluzione.
La presa di posizione di Robespierre contro la limitazione del suffragio, in particolare contro il marco d'argento richiesto per la eleggibilità all'Assemblea Legislativa, è precisa e inflessibile. Lo si capisce dai discorsi che lo stesso Robespierre fa all'Assemblea Costituente:
«Tutti i cittadini, di qualunque condizione essi siano, hanno diritto di rappresentanza» (22 ottobre 1789); «Nulla e più conforme alla vostra Dichiarazione dei diritti, di fronte alla quale deve scomparire ogni privilegio, ogni distinzione, ogni eccezione. La Costituzione stabilisce che la sovranità risiede nel popolo. Ogni individuo ha pertanto diritto di concorrere alla formazione della legge cui e sottoposto e all'amministrazione della cosa pubblica che e sua, altrimenti non sarà vero che tutti gli uomini sono eguali nei diritti, che ogni uomo e un cittadino» (25 gennaio 1790). Un'altra dissertazione sull'argomento non è pronunciata dinanzi all'Assemblea, così Robespierre la fa stampare e distribuire. In essa si legge: «La legge è forse l'espressione della volontà generale, quando il maggior numero di coloro per i quali essa è fatta non possono concorrere, in nessun modo, alla sua formazione? No. Tuttavia proibire a coloro che non pagano un tributo uguale a tre giornate di lavoro il diritto stesso di scegliere gli elettori destinati a nominare i membri dell'assemblea legislativa, che cos'altro è se non rendere la maggior parte dei francesi assolutamente estranei alla formazione della legge? [...] Si, a dispetto di tutta la vostra prevenzione a favore delle virtù che darebbe la ricchezza, oso credere che ne trovereste altrettante nella classe dei cittadini meno agiati che in quella dei più opulenti. Credete forse veramente che una vita dura e laboriosa generi più vizi che la mollezza, il lusso e l'ambizione? E avete meno fiducia nella probità dei nostri artigiani e dei nostri contadini, i quali secondo la vostra tariffa non saranno quasi mai cittadini attivi, che in quella dei trafficanti, dei cortigiani, di coloro che chiamavate gran signori e che, in base alla stessa tariffa, lo sarebbero seicento volte? Voglio una volta per sempre vendicare coloro che chiamate popolo da queste sacrileghe calunnie [...].
Fate bene attenzione: coloro che vi hanno scelto, coloro in funzione dei quali voi esistete, non erano certo contribuenti per un marco d'argento, per tre, per dieci giornate d'imposte dirette; erano tutti i francesi, cioè tutti gli uomini nati e domiciliati in Francia, o naturalizzati, paganti una qualsiasi imposta. Lo stesso dispotismo non aveva osato imporre altre condizioni ai cittadini che convocava».
Per quanto riguarda il concetto di sovranità popolare, il discorso di Robespierre, coerentemente con la concezione rousseauiana, si sostanzia nel voler circondare di garanzie e di restrizioni l'istituto della rappresentanza: essa deve quindi essere temporanea, soggetta a continui controlli del popolo sovrano, che deve stare in guardia contro la corruttibilità dei suoi mandatari, deve inoltre assicurarne l'indipendenza da costrizioni, deve vegliare contro la falsità politica.
La guerra, infine, anche se già sulla fine del 1791 è presentata come necessaria dai capi rivoluzionari, è per Robespierre contrastante agli interessi della Rivoluzione: «la nazione non rifiuta affatto la guerra se essa è necessaria per conquistare la liberta; ma essa vuole la libertà e la pace, se è possibile, e respinge ogni progetto di guerra che sarebbe proposto per annientare la liberta e la Costituzione, anche sotto il pretesto di difenderle» (dal discorso ai Giacobini fatto il 18 dicembre 1791).
L'attivismo di Robespierre in questo periodo è illimitato. Dinanzi all'Assemblea Costituente presentò molte petizioni, tra le quali quella per cui nessun deputato poteva diventare ministro o avere incarichi pubblici per quattro anni a partire dallo scioglimento dell'Assemblea (la proposta passò con l'appoggio della destra) e quella della non eleggibilità e di auto-esclusione dei deputati di quel congresso in future assemblee (anche questa volta la destra votò per la proposta di Robespierre). Quando il 30 settembre 1791 l'Assemblea concluse i propri lavori, Robespierre e il sindaco di Parigi Pétion furono inneggiati dal popolo al momento della loro uscita dalla sede dell'Assemblea.
Quando l'Assemblea Legislativa si riunì il 1° ottobre 1791, in forza della propria proposta di auto-esclusione, Robespierre non si presentò alle elezioni, continuando però la sua attività politica nel Club dei Giacobini. Ritornato ad essere un cittadino come gli altri riprese il lavoro di pubblico ministero, ma il 10 aprile 1792 Maximilien Marie Isidore fu costretto alle dimissioni, poiché il giudice che presiedeva il tribunale riteneva Robespierre un assenteista, in quanto non aveva discusso nemmeno una causa.
Rimasto senza l'indennità di deputato e senza lavoro vive con la rendita di circa 600 lire derivante da due piccole proprietà che possiede insieme al fratello Augustin ad Arras. Nel frattempo egli inizia ad affidare molte delle sue idee a due fogli periodici, il " Defenseur de la Constitution" (maggio-agosto 1792) e le "Lettres a ses commettans " (ottobre 1792-aprile 1793). Il secondo periodico ci ha lasciato un vero e proprio scritto di teoria politica nei suoi Fragments d'institutions Republicaines.
In occasione delle elezioni alla Convenzione, Maximilien si presenta in due circoscrizioni: nel Pas-de-Calais, che comprendeva Arras, e a Parigi. Il 5 settembre 1792 Robespierre è eletto ed entra nella Convenzione. Dopo aver sostituito la Convenzione con un'Assemblea legislativa, la monarchia è abolita e viene proclamata la repubblica. Poco dopo, il 10 marzo 1793, si istituiscono anche il "Tribunale Rivoluzionario"e, in ogni comune e in ogni sezione delle principali città, i "Comités Révolutionnaires".
Il 6 aprile la Convenzione istituisce il "Comitato di Salute Pubblica", i cui poteri dovevano essere rinnovati ogni mese. Nel giugno 1793, su proposta Maximilien Marie Isidore, la Convenzione istituisce una Commissione per l'istruzione nominando lo stesso Robespierre presidente.
Il 10 luglio è eletto il nuovo Comitato di Salute Pubblica, ma Robespierre rifiuta di entrarvi. Più tardi, su richiesta di Saint-Just e Couthon, decide però di farvi parte.
Il 17 piovoso anno II, secondo il calendario rivoluzionario, il 5 febbraio 1794 per la storia, Robespierre tiene un discorso alla Convenzione in cui si evince la giustificazione teorica del governo del Terrore, assieme alle sue motivazioni insieme politiche e morali di tale regime. E' il celebre discorso intitolato "Sui principi di morale e politica che devono guidare la Convenzione nazionale nell'Amministrazione interna della Repubblica", in cui il giacobino valuta l'utilizzo del Terrore secondo il metro della Virtù:
«Noi vogliamo adempiere ai voti della natura, compiere i destini dell'umanità, mantenere le promesse della filosofia, assolvere la provvidenza dal lungo regno del crimine e della tirannia. [.]. La grande purezza dei fondamenti della Rivoluzione francese, la sublimità stessa del suo oggetto, è precisamente ciò che ha fatto la nostra forza e la nostra debolezza. La nostra forza, perché ci dà la superiorità della verità sopra l'impostura e dei diritti dell'interesse pubblico sopra quelli degli interessi particolari. La nostra debolezza perché allea contro di noi gli uomini viziosi, tutti coloro che meditavano nel loro cuore di spogliare il popolo e tutti quelli che vorrebbero averlo potuto spogliare impunemente; sia quelli che hanno respinto la libertà come una calamità personale, sia quelli che hanno abbracciato la Rivoluzione come un mestiere e la Repubblica come una preda. Da qui la defezione di tante persone ambiziose o avide, le quali, dopo la partenza ci hanno abbandonato lungo il cammino, per il motivo che non avevano iniziato il viaggio con il nostro medesimo scopo. Si direbbe quasi che i due geni contrari, che abbiamo rappresentato come disputantisi il dominio della natura, combattano in questa grande epoca della storia umana per fissare definitivamente i destini del mondo, e che proprio la Francia sia il teatro di questa terribile lotta.
Al di fuori tutti i tiranni vi circondano, all'interno tutti gli amici della tirannia cospirano: cospirano finché al crimine non sia tolta perfino la speranza. Bisogna soffocare i nemici interni ed esterni della Repubblica, oppure perire con essa. Ora, in questa situazione, la massima principale della vostra politica dev'essere quella di guidare il popolo con la ragione, e i nemici del popolo con il Terrore. Se la forza del governo popolare in tempo di pace è la Virtù, la forza del governo popolare in tempo di Rivoluzione è ad un tempo la Virtù e il Terrore. La Virtù, senza la quale il Terrore è cosa funesta; il Terrore, senza il quale la Virtù è impotente. Il Terrore non è altro che la giustizia pronta, severa, inflessibile. Esso è dunque una emanazione della Virtù. È molto meno un principio contingente, che non una conseguenza del principio generale della democrazia applicata ai bisogni più pressanti della patria. Si è detto da alcuni che il Terrore era la forza del governo dispotico. Il vostro Terrore rassomiglia dunque al dispotismo? Sì, ma come la spada che brilla nelle mani degli eroi della libertà assomiglia a quella della quale sono armati gli sgherri della tirannia. Che il despota governi pure con il Terrore i suoi sudditi abbrutiti. Egli ha ragione, come despota. Domate pure con il Terrore i nemici della libertà: e anche voi avrete ragione, come fondatori della Repubblica. Il governo della Rivoluzione è il dispotismo della libertà contro la tirannia. La forza non è dunque fatta che per proteggere il crimine? E non è forse per colpire le teste orgogliose che il fulmine è destinato?
La natura impone a ogni essere fisico o morale la legge di provvedere alla propria conservazione. Il crimine uccide l'innocenza per regnare, e l'innocenza si dibatte con tutte le forze nelle mani del crimine. Che la tirannia regni un giorno soltanto e l'indomani non resterà più un solo patriota. Ma fino a quando il furore dei despoti sarà chiamato giustizia, e la giustizia del popolo barbarie o ribellione? Come si è teneri verso gli oppressori e inesorabili verso gli oppressi! Nulla di più naturale: chiunque non odia il crimine non può amare la Virtù. Tuttavia, occorre che l'uno o l'altra soccomba. "Indulgenza verso i realisti! - gridano certuni. - Grazia per gli scellerati!" No: grazia per l'innocenza, grazia per i deboli, grazia per gli infelici, grazia per l'umanità!
La protezione sociale è dovuta solo ai cittadini pacifici e nella Repubblica non vi sono altri cittadini se non i repubblicani. I realisti, i cospiratori, non sono che stranieri, per essa, o piuttosto dei nemici. Questa guerra terribile che la libertà sta sostenendo contro la tirannia non è forse indivisibile? I nemici dell'interno non sono forse alleati con i nemici dell'estero? E gli assassini che lacerano la patria all'interno, gli intriganti che comprano le coscienze dei mandatari del popolo, i traditori che le vendono, i libellisti mercenari che sono assoldati per disonorare la causa del popolo, per far morire la Virtù pubblica, per attizzare il fuoco delle discordie civili e per preparare la controrivoluzione politica per mezzo della controrivoluzione morale: tutti questi individui sono forse meno colpevoli o meno pericolosi dei tiranni di cui stanno al servizio?».
Virtù, dunque, con la "V" maiuscola, dalla quale scaturisce la "giustizia pronta, severa ed inflessibile". La Virtù diviene così il principio di una discriminante politica e sociale, quel principio che per portare alle accentuazioni egualitarie nella nuova Francia deve necessariamente cassare dal potere tutti coloro che appaiono alleati di un ordine corrotto di disuguaglianza e d'ingiustizia. Non c'è concetto che sia stato tanto abusato all'epoca come quello di virtù: i sanculotti esaltavano la "Virtù repubblicana", mentre gli aristocratici difendevano la "Virtù monarchica". Secondo i contemporanei coinvolti negli eventi della Rivoluzione, il "terrore" che scaturì dai moti rivoluzionari andava giudicato essenzialmente secondo il metro della Virtù. E le parole di Robespierre alla Convenzione nazionale davano il giusto peso: "il terrore non è altro che la giustizia severa e inflessibile, ossia l'emanazione della Virtù".
Prima della Rivoluzione in Francia, l'unico sostenitore del terrore è stato Niccolò Machiavelli, affascinato dai metodi di governo di Cesare Borgia, tanto da arrivare ad esporne i crimini a giovamento dei futuri prìncipi. Nei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, Machiavelli ricordava che per «ripigliare lo Stato» [ossia per conservare il potere] fosse necessario periodicamente «mettere quel terrore e quella paura negli uomini che vi avevano messo nel pigliarlo».
Il "terrorismo francese" del periodo rivoluzionario nasce in definitiva come un'estrema degenerazione dell'idea stessa di rivoluzione, volto all'eliminazione fisica d'ogni fattore d'opposizione, reale o presunta, e all'instaurazione di un nuovo ordine politico e sociale. Gli stessi giacobini avevano usato il termine terrorismo in senso positivo, riferendolo a se stessi. Solo più tardi il vocabolo terrorista si evolse in un'espressione disonorante, con l'approssimato significato di "criminale".
Per Robespierre la fedeltà alla rivoluzione non si poteva comunicare unicamente con una manifesta adesione ad un programma. Essa doveva essere prima di tutto una disposizione alla Virtù, che doveva permeare il buon rivoluzionario in tutti i suoi pensieri, oltre che nelle sue azioni. Egli stesso vive come un'asceta, senza vizi e senza neppure una casa propria, affittando una stanza presso amici. E lì, virtuosissimo, senza bere alcolici, senza frequentare donne, senza avere la debolezza del gioco, pensa a come realizzare il "Regno della Virtù". Non a caso era chiamato "l'Incorruttibile".
L'esaltazione della Virtù repubblicana diviene un indispensabile stimolo e un'essenziale motivazione morale della Rivoluzione. E' ossessiva, quindi, la sua predicazione a tutti i rivoluzionari francesi d'obbedienza incondizionata verso l'unico ideale costruttivo: tutto il popolo doveva divenire "virtuoso". Non solo, per Robespierre la rivoluzione, considerata la difesa delle libertà del popolo francese, doveva divenire una fonte di stimolo per gli altri popoli. Per questo Robespierre fa subito suo il pensiero del giacobino Louis-Antoine-Léon de Saint-Just, che sulla rivoluzione aveva idee precise: «Coloro che operano le rivoluzioni a metà, non fanno altro che scavarsi la tomba» (continua Saint-Just: «gli incorreggibili sostenitori della tirannia non sognano altro che la nostra perdita, e ogni giorno creano nuovi nemici della libertà [...]. Epurate dunque la patria dai suoi nemici dichiarati [...]. Non si può sperare prosperità finché il nemico della libertà respirerà. Voi dovete punire non soltanto i traditori, ma anche gli indifferenti dovete pulire chiunque e passivo nella Repubblica e non fa nulla per essa; perché dopo che il popolo francese ha manifestato la sua volontà, tutto ciò che le si oppone è fuori del corpo sovrano, e tutto ciò che è fuori del corpo sovrano è nemico [...]. Bisogna governare col ferro con coloro che non possono essere governati con la giustizia: bisogna opprimere i tiranni»).
Secondo Robespierre, l'unico rimedio per portare la Francia ad un ordine naturale è quello di rovesciare quel mondo corrotto, purgare il corpo sociale, restaurare un "Regno della Virtù": in pratica accendere il fuoco rivoluzionario per purificare la Francia e porre fine, una volta per tutte allo scandalo del Male proveniente dall'aristocrazia e dai falsi francesi.
In Robespierre ritroviamo quindi la sublimazione dell'amore per la rivoluzione in una sorta di nuova religiosità, che avrebbe dovuto animare tutto il popolo: «Cittadini», avrebbe detto alla Convenzione il 27 marzo 1793, «solo l'energia repubblicana e la Virtù possono salvare lo Stato. Da dove vengono i nostri pericoli? Non solo dagli aristocratici dichiarati, che abbiamo vinto e respinto ben lontano dal nostro territorio, ma da questa moltitudine di uomini deboli, ipocriti, che nascondono il loro attaccamento ai principi nobiliari sotto un aspetto di moderazione e di patriottismo [.] i nostri pericoli vengono dall'impunità accordata a tutti i funzionari pubblici prevaricatori, a tutti i capi dei nostri eserciti, di fronte ai quali si son visti piegare gli stessi rappresentanti del popolo francese».
Lo stesso Terrore, considerato da Robespierre un rimedio doloroso ma giustificato dallo stato di necessità della rivoluzione in corso, trova la sua collocazione nell'ambito della "salute pubblica" della nuova comunità democratica. Scriveva nel foglio periodico "Lettres a ses commettans ", il 28 dicembre 1792:
«La prima fra tutte le leggi è la salute pubblica. Io ho sempre avuto per principio che un popolo, il quale si slancia verso la libertà, deve essere inesorabile verso i cospiratori; che in tal caso la debolezza è crudele, l'indulgenza è barbara, e che una giusta severità è imperiosamente ordinata dall'umanità stessa».
Alla Convenzione, nella seduta dell'8 maggio 1793, Robespierre precisò ulteriormente il contenuto politico-sociale dell'azione rivoluzionaria, individuando i nemici da abbattere: «Colui che non è per il popolo è contro il popolo, colui che ha delle culottes dorate è il nemico di tutti i sanculotti. Esistono due partiti, quello degli uomini corrotti e quello degli uomini virtuosi. Non distinguete gli uomini in base alla loro fortuna e al loro stato, ma in base al loro carattere. Vi sono soltanto due classi d'uomini, gli amici della libertà e dell'uguaglianza, i difensori degli oppressi, gli amici dell'indulgenza e i fautori dell'opulenza ingiusta e dell'aristocrazia tirannica».
Il 18 piovoso, dell'anno II, Robespierre declama alla Convenzione nazionale i principi di morale politica che la devono guidare nell'amministrazione interna della Repubblica: «[.] Qual è lo scopo a cui tendiamo? Il pacifico godimento della libertà e dell'uguaglianza; il regno di quella giustizia eterna le cui leggi sono state incise non già sul marmo o sulla pietra, ma nel cuore di tutti gli uomini, anche in quello dello schiavo che le dimentica e del tiranno che le nega. Vogliamo un ordine di cose nel quale ogni passione bassa e crudele sia incatenata, nel quale ogni passione benefica e generosa sia ridestata dalle leggi; nel quale l'ambizione sia il desiderio di meritare la gloria e di servire la patria; ove le distinzioni non nascano altro che dalla stessa uguaglianza; nel quale il cittadino sia sottomesso al magistrato, e il magistrato al popolo, e il popolo alla giustizia; nel quale la Patria assicuri il benessere a ogni individuo, e nel quale ogni individuo goda con orgoglio della prosperità e della gloria della Patria; nel quale tutti gli animi si ingrandiscano con la continua comunione dei sentimenti repubblicani, e con l'esigenza di meritare la stima di un grande popolo; nei quale le arti siano gli ornamenti della libertà che le nobilita, il commercio sia la fonte della ricchezza pubblica e non soltanto quella dell'opulenza mostruosa di alcune case.
Noi vogliamo sostituire, nel nostro Paese, la morale all'egoismo, l'onestà all'onore, i principi alle usanze, i doveri alle convenienze, il dominio della ragione alla tirannia della moda, il disprezzo per il vizio al disprezzo per la sfortuna, la fierezza all'insolenza, la grandezza d'animo alla vanità, l'amore della gloria all'amore del denaro, le persone buone alle buone compagnie, il merito all'intrigo, l'ingegno al bel esprit, la verità all'esteriorità, il fascino della felicità al tedio del piacere voluttuoso, la grandezza dell'uomo alla piccolezza dei "grandi"; e un popolo magnanimo, potente, felice ad un popolo "amabile", frivolo e miserabile; cioè tutte le virtù e tutti i miracoli della Repubblica a tutti i vizi e a tutte le ridicolaggini della monarchia. Noi vogliamo, in una parola, adempiere ai voti della natura, compiere i destini dell'umanità, mantenere le promesse della filosofia, assolvere la provvidenza dal lungo regno del crimine e della tirannia. Ecco la nostra ambizione: ecco il nostro scopo.
Quale tipo di governo può mai realizzare questi prodigi? Solamente il governo democratico, ossia repubblicano. Queste due parole sono sinonimi, malgrado gli equivoci del linguaggio comune: poiché infatti l'aristocrazia non è repubblica più di quanto non lo sia la monarchia. La democrazia non è già uno Stato in cui il popolo - costantemente riunito - regola da se stesso tutti gli affari pubblici: e ancor meno è quello in cui centomila fazioni del popolo, con misure isolate, precipitose e contraddittorie, decidono la sorte dell'intera società. Un simile governo non è mai esistito, né potrebbe esistere se non per ricondurre il popolo verso il dispotismo. La democrazia è uno Stato in cui il popolo sovrano, guidato da leggi che sono il frutto della sua opera, fa da se stesso tutto ciò che può far bene, e per mezzo dei suoi delegati tutto ciò che non può fare da se stesso.
É dunque nei principi del governo democratico che dovrete ricercare le regole per la vostra condotta politica. [.]. Ora, qual è mai il principio fondamentale del governo democratico o popolare, cioè la forza essenziale che lo sostiene e che lo fa muovere? È la Virtù. Parlo di quella Virtù pubblica che operò tanti prodigi nella Grecia e in Roma, e che ne dovrà produrre altri, molto più sbalorditivi, nella Francia repubblicana. Di quella Virtù che è in sostanza l'amore della patria e delle sue leggi. Ma, dato che l'essenza della Repubblica, ossia della democrazia, è l'uguaglianza, ne consegue che l'amore della patria comprende necessariamente l'amore dell'uguaglianza. [.]. Non soltanto la Virtù è l'anima della democrazia, ma addirittura essa può esistere solo in quella forma di governo. [.]. Soltanto in un regime democratico lo Stato è veramente la patria di tutti gli individui che lo compongono e può contare tanti difensori interessati della sua causa, quanti sono i cittadini che esso contiene. Ecco qui la fonte della superiorità dei popoli liberi su tutti gli altri popoli. Se Atene e Sparta hanno trionfato sui tiranni dell'Asia, e gli svizzeri sui tiranni di Spagna e d'Austria, non occorre affatto cercare altra causa. [.]».
Con il Terrore la Rivoluzione iniziò a divorare i suoi stessi figli. L'infrastruttura indispensabile alla "Repubblica del Terrore" era costituita dal "Comitato di Salute Pubblica", dal "Comitato di Sicurezza Generale", dal "Tribunale Rivoluzionario", dal "Comitato di Sorveglianza". Quest'ultimo era diffuso su tutto il territorio nazionale, ed aveva poteri di polizia che prevedevano l'arresto di tutti quei cittadini ritenuti "nemici della Repubblica e della libertà".
Il "Comitato di Salute Pubblica" come organo della repubblica nasce il 6 aprile 1793, in
Non soltanto la Virtù
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sostituzione del "Comitato di Difesa generale". Esso nasce come organo di sorveglianza ma diventa di fatto organo di governo della Francia rivoluzionaria.
Il 27 luglio 1793 Robespierre entra nel Comitato, per sostituire Georges-Jacques Danton, da sempre schierato su posizioni più moderate, accusato con il gruppo detto degli "indulgenti" di essere un "nemico della Repubblica".
Nel "Comitato di Salute Pubblica" Robespierre tentò di riformare la Francia secondo i concetti di umanitarismo, idealismo sociale e patriottismo. Nello sforzo di istituire una "Repubblica della Virtù", egli enfatizzò la devozione alla Nazione e alla vittoria, combattendo corruzione e ribellione. Egli, che era un seguace convinto di Rousseau, riteneva come il filosofo che gli uomini fossero buoni di natura, ma corrotti dalla società, decise quindi che andava intrapresa la riforma della collettività per sradicare il vizio. Robespierre spesso con nostalgia evocava Rousseau: «Ah! Se fosse stato testimone di questa rivoluzione di cui fu il precursore e che lo ha portato al Panthéon, chi può dubitare che la sua anima generosa avrebbe abbracciato con trasporto la causa della giustizia e dell'uguaglianza?». Le condanne a mor¬te, perciò, non erano espressione di crudeltà, bensì necessarie amputazioni di parti della società incancrenite che potevano infettare tutto il resto. Robespierre tuttavia non si rese mai conto che questo "metodo di cura" rischiava, prima o poi, di isolarlo ma soprattutto di diffondere un terrore permanente per tenere a bada tutto il popolo francese.
Così tra il Regno della Virtù e quello degli ideali patriottici, c'è il Regno della Storia, un elenco lungo quarantamila nomi di persone morte o giustiziate in nome della rivoluzione.
La mostruosità, in questo modo, si fece legale con la legge del 22 Pratile (il 10 giugno 1794), che inaugurò il periodo del "Grande Terrore", una legge voluta dalla seconda anima di Robespierre, Georges Couthon, il quale, a giustificazione della stessa legge, riferì al Comitato: «Niente più difensori nei processi contro i traditori. Difendere i traditori vuol significare cospirare contro la Patria. Abolite gli interrogatori preliminari, abolite le testimonianze scritte, i testimoni stessi. La prova morale è sufficiente».
Il mese di Messidoro, che precede immediatamente la reazione termidoriana e la fine del Terrore, vide dunque le ceste dei boia riempirsi di teste.
Nelle regioni della Francia, infatti, dove era ancora forte la disapprovazione verso la rivoluzione, e dove vi era un aperto sostegno al re e ai nobili, centinaia di titolati e borghesi, appartenenti ai partiti della Gironda, degli Indulgenti e degli Hebertisti, furono arrestati, processati e giustiziati. Nel Tribunale Rivoluzionario i giudici potevano condannare a morte, anche sulla base di semplici "prove morali". Anzi, le innumerevoli soffiate stavano portando il sistema penale ad un collasso, per questo arrivò una riforma: il 10 giugno 1794 per rendere più efficiente il tribunale, si decise che i testimoni della difesa non sarebbero stati più ascoltati (a meno che l'interrogatorio potesse servire a smascherare altri controrivoluzionari), le deposizioni divenivano solo orali e non più scritte. L'unica pena prevista era la morte.
La fine di Robespierre arriva nel pomeriggio del 28 luglio (il 10 termidoro) 1794 sul palco della ghigliottina, quella stessa infernale macchina che tante teste dei nemici della rivoluzione aveva tagliato. La paura e il sospetto dominavano la Francia. Fu così che Robespierre fu schiacciato dal suo stesso potere.
Due giorni prima, il 26 luglio, Robespierre aveva tenuto un violentissimo discorso dove attaccò tutti e tutto. Il giorno dopo, durante l'ennesima seduta della Convenzione, gli venne negata la parola. In questa drammatica seduta della Convenzione, l'ex Prete Fouchè e l'ex visconte Barras investirono violentemente Robespierre, accusandolo di volersi fare "Tiranno della Francia" e di alimentare il culto della sua personalità. Gli oppositori di Robespierre ottennero il suo arresto: la congiura si trasformò in un colpo di Stato controrivoluzionario (chiamato dagli storici "termidoriano", dal nome del mese di luglio mutato in Termidoro, secondo il nuovo calendario repubblicano). Il giorno seguente, il 28 luglio, nonostante l'opposizione della Comune di Parigi, si riuscì a condannare alla morte per ghigliottina sia Robespierre sia i dirigenti del governo giacobino, senza alcuna forma di processo. Quello stesso giorno Robespierre, assieme ad altri ventidue suoi fedelissimi, fu condotto dapprima alla Conciergerie per un formale atto di riconoscimento e poi avviati alla ghigliottina ed immediatamente giustiziati.
In pratica, quando cessò il pericolo esterno (le invasioni delle potenze stra¬niere) e
La paura
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la Francia.
Fu così che
Robespierre fu
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quello interno (le rivolte delle province monarchiche), i francesi che volevano godere i frutti dei mutamenti avvenuti, trovarono inaccettabile la "Dittatura della Virtù" proposta ed attuata da Robespierre e si accordarono per eliminarlo. Quando la testa di Robespierre cade nel paniere del boia, molti tirano un sospiro di sollievo. Ma la morte di Robespierre è stata la morte della Rivoluzione. Molti storici, infatti, sono d'accordo nel riabilitare la figura di Maximilien Marie Isidore de Robespierre, presentandolo, al di là del suo essere un filosofo o un politico, come l'incarnazione stessa dell'individualità rivoluzionaria più pura. Molti hanno messo ingiustamente Robespierre alla sbarra degli imputati della storia, quale il massimo ispiratore e responsabile del "regime del Terrore". Ma nel "Comitato di Salute Pubblica" Robespierre entrò - lo ricordiamo - solo il 27 luglio 1793. Qui, tra l'altro, egli aveva un ruolo di secondo piano. Egli, non solo non capiva niente di cose militari, ma era lontano anche dal comprendere gli affari economici. Lo stesso Comitato lo guardava con sospetto, e alla prima occasione non solo lo esautorò, ma lo fece arrestare e giustiziare. Egli era dunque un politico, il "sacerdote della Virtù", il patriota della speranza popolare, l'unico contemporaneo che arriva da cittadino in una rivoluzione in cui gli altri sono ancora sudditi. Questo è confermato dallo stesso Robespierre, quando dirà all'avvocato e politico girondino Jacques-Pierre Brissot, «io non sono il difensore del popolo [.] sono parte del popolo, non sono mai stato altro che questo, non voglio essere che questo. Disprezzo chiunque abbia la pretesa di voler essere qualcosa di più». Egli stesso si aspetta una morte prematura e violenta per le sue idee.
Per questo nella celebre dedica a Rousseau scriveva: un «trapasso prematuro» è il prezzo che deve pagare l'«uomo virtuoso» (anche l'assassinio del capo del club parigino dei giacobini Jean-Paul Marat, ucciso nel 1793 da Carlotta Corday, è un presagio di morte per lo stesso Robespierre: «Gli onori del pugnale saranno riservati anche a me», ebbe a dire dopo la notizia dell'uccisione).
Robespierre esecrava il Terrore, detestava le macabre esecuzioni di piazza, anche se ne riconosceva la necessità contingente e la validità nel nuovo corso della storia della Francia.
Per molti storici la morte dell’Incorruttibile Robespierre divenne subito la morte della Rivoluzione, quella vera, mentre quella di tutti gli altri che lo precedettero o lo seguirono una conseguenza degli avvenimenti che li ha ingoiati.
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BIBLIOGRAFIA
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La ghigliottina e l'immaginario del Terrore, di D. Arasse - Xenia, Milano 1988.
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Robespierre politico e mistico, di H. Guillemin - Garzanti, Milano 1989.
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Robespierre, di A. Mathiez - Massari Editore, Roma 1989.
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La Rivoluzione francese, di F. Furet e D. Richet - Laterza, Roma-Bari 1995.
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Il Terrore ricordato. Memoria e tradizione dell'esperienza rivoluzionaria, di S. Luzzatto - Einaudi, Torino 2000.
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La Rivoluzione dopo il «terrore». La virtù «versus» Robespierre, di A. Belgrado - Editoria Universitaria, Venezia 2002.
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Robespierre e il Terrore rivoluzionario, di A. Gnugnoli - Giunti Editore, Firenze 2003.
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