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DALL'ARISTOCRAZIA
ALLE SIRENE DELLA DEMAGOGIA
di ALESSANDRO FRIGERIO
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Democrazia e populismo. Come i media, la pubblicità e la propaganda hanno alimentato una nuova forma di populismo, di John Lukacs - Longanesi, Milano 2006, pp. 230, euro17,60
Com'è cambiata la democrazia da Tocqueville a oggi? Le ideologie che da due secoli e mezzo costituiscono le griglie interpretative del presente hanno ancora senso di esistere? Il percorso del mondo moderno, passato dall'aristocrazia all'epoca democratica, si sta evolvendo verso nuove forme di partecipazione politica? John Lukacs, storico di origine ungherese dal 1946 trapiantato negli Stati Uniti, ci propone queste e numerose altre riflessioni in un volume non propriamente di taglio storico, ma che la storia delle idee, e in particolare dei sistemi politici contrapposti che hanno attraversato il Novecento, sfrutta a piene mani come traccia per interrogarsi sul futuro del mondo occidentale.
Alla base del discorso di Lukacs c'è la "distruzione" delle tradizionali categorie interpretative. A partire da "destra" e "sinistra": la prima ormai priva del suo retaggio aristocratico-conservatore e ormai scivolata lungo una deriva populista, la seconda arroccata attorno a parole d'ordine incapaci di leggere e interpretare il mondo moderno. La grande novità degli ultimi centocinquant'anni - l'emergere delle coscienze nazionali e di quella di classe - ha cancellato l'antica contrapposizione tra conservatori e liberali, sostituendovi un'esplosiva miscela di socialismo nazionalista: «Mussolini, Hitler, Péron, Stalin furono tutti socialisti nazionalisti, con l'accento che batteva sul secondo termine. Nel 1870, e ancora decenni più tardi, sembrava impossibile che il nazionalismo e il socialismo si sarebbero mai alleati. Eppure se si pensa all'onnipresenza dello Stato sociale oggi siamo tutti nazionalsocialisti, almeno in un certo senso». Il risultato è un sempre più massiccio appello al popolo. Progressisti e populisti sono convinti che il maggiore pericolo per la democrazia siano gli interessi finanziari del capitalismo internazionale, ma chiudono un occhio, e anzi apprezzano, il dirigismo statale e il capitalismo di stato, cioè le nuove forme attraverso cui si manifesta il nazionalismo.
All'autore non manca certo la vis polemica, che esercita con giudizi netti, non sempre condivisibili ma certo stimolanti e ben argomentati. L'arte moderna? «Un fallimento; un episodio, un sintomo, tra le altre cose, di una civiltà sul punto di crollare». L'anticomunismo? «Ha dovuto la sua diffusione e popolarità non al suo essere conservatore, ma al suo essere nazionalista». La politica estera americana? Dal 1918 ad oggi è quella prefigurata da Wilson, una crociata per «il compimento storico della democrazia». I regimi di Hitler e Mussolini? «Erano più moderni, più populisti (e, almeno per alcuni aspetti, più democratici) non soltanto di quelli di Lenin e Stalin, ma anche dei regimi liberali che li avevano preceduti». Non mancano stoccate a colleghi e nomi illustri. Hannah Arendt? «Una studiosa confusionaria e disonesta». Ian Kershaw, autore di una recente biografia di Hitler? È «moderato e modesto». Ernst Nolte? Il suo I tre volti del fascismo è «completamente sbagliato».
Polemiche e giudizi tranchant a parte, nella sua graffiante galoppata attraverso la storia e le forze ideali che hanno plasmato la politica moderna Lukacs giunge a conclusioni orientate a un lucido pessimismo. Si percepisce un rimpianto per la smarrita funzione delle aristocrazie di governo, considerate elemento di moderazione rispetto alla ben più manipolabile sovranità popolare, e una condanna della sempre più ampia partecipazione democratica («se si vuole una democrazia sana il voto dovrebbe essere reso non più facile ma più difficile, col risultato che la maggioranza elettorale sarebbe espressa da una cittadinanza non meno, ma più responsabile - proprio come è giunta l'ora di limitare anziché accrescere il traffico automobilistico se si vuole viaggiare meglio sulle nostre strade»). Le attuali democrazie liberali stanno ormai degenerando verso un populismo intriso di nazionalismo, provocato da un indebolimento del parlamentarismo, dal materialismo e dalla progressiva invasione dei media nella sfera privata dei cittadini. Tutte cose che Tocqueville aveva intravisto due secoli e mezzo fa.
Il Terzo Reich e il sogno di Atlantide, di F. Wegener - Lindau, Torino 2006, pp. 188, euro 19,00
Atlantide ha attraversato come un filo rosso la storia del radicalismo di destra: dagli ariosofi, che giocarono un ruolo importante nella fase del nazionalsocialismo, passando per i numerosi autori nazionalisti degli anni Venti, la Società Teosofica di Helena Blavatsky e illustri esponenti del Partito nazista come Wirt e Rosenberg, per arrivare alla nuova destra europea e ai neonazisti tedeschi. Una continuità che esige una riflessione approfondita in grado di decifrare i meccanismi che hanno attivato questa fascinazione.
L'autore, Franz Wegener, prende in considerazione le analisi di illustri studiosi del mito di Atlantide: fra le altre, quella di Julius Evola, secondo cui «l'uomo dominatore» appartenente alla razza nordica avrebbe affrontato le «assai meno valorose razze del Sud»; e quella di Georges Sorel, che vedeva nel mito una successione di immagini in grado di suscitare stati d'animo ed emozioni di portata sociale.
Rifacendosi agli studi sul mito di Roland Barthes, dietro all'immagine dell'isola paradisiaca, Wegener giunge però a scorgere una sostanziale pulsione di morte. Una pulsione da cui non sono esenti le teorie nazionalsocialiste: alla ricerca delle origini del popolo ariano, Hitler e Himmler formularono la tesi secondo la quale la pura razza degli abitanti di Atlantide - da loro collocata nel Nord del mondo - tramontò essendosi mescolata con specie inferiori. I pochi ariani sopravvissuti, migrati sul continente, sarebbero i progenitori della superiore razza tedesca destinata a dominare la terra. Seguaci di una visione apocalittica del mondo, i nazisti trovarono nell'immagine-modello di Atlantide il folle ideale di perfezione e superiorità che li risucchiò, inconsapevolmente, in un vortice sempre più rapido di autodistruzione.
Il massacro degli armeni. Un genocidio controverso, di G. Lewy - Einaudi, Torino 2006, pp. 394, euro 25,00
Nel 1915, in piena Guerra mondiale, il regime dei Giovani Turchi fece deportare la gran parte degli armeni di Turchia nelle lontane terre dell'Anatolia orientale. Quasi il quaranta per cento della popolazione armena morì nel corso di poche settimane, tra marce forzate, massacri e brutalità di ogni genere. Da allora gli armeni di ogni paese ricordano quel tragico avvenimento come il primo genocidio del XX secolo. Guenter Lewy, celebre storico del nazismo, ha ricostruito la vicenda attraverso un imponente lavoro su archivi riservati e sulle testimonianze dei sopravvissuti. Il risultato è il primo, vero lavoro di storia su una delle pagine più discusse del Novecento. Che Lewy ricostruisce nei passaggi più oscuri e controversi, evitando la polemica interpretativa e concentrandosi invece sul racconto di una tragedia collettiva che ancora oggi condiziona il nostro sguardo verso la Turchia.
«"Una polemica storica dai toni accesi pesa sulle relazioni fra Turchia e Armenia, accrescendo le tensioni in una regione instabile. Polemica che, inoltre, riaffiora periodicamente in altre parti del mondo, quando appartenenti alla diaspora armena sollecitano il riconoscimento del genocidio degli armeni da parte dei rispettivi parlamenti, e il governo turco minaccia ritorsioni. Il punto centrale di questo dibattito non è l'entità delle sofferenze degli armeni, quanto la premeditazione; ossia, se il regime dei Giovani Turchi, all'epoca della prima Guerra mondiale, abbia organizzato intenzionalmente i massacri. Alcune centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini furono sloggiati dalle loro case pressoché senza preavviso e, nel corso di un penoso cammino tra montagne e lande, un numero assai elevato di costoro morì di stenti e di malattie o fu ucciso. Per le vittime fa poca differenza morire in seguito all'attuazione d'un piano d'annientamento meticolosamente organizzato o a causa d'una reazione eccessiva, dettata dal panico, davanti a una minaccia o per qualsiasi altro motivo. Fa, invece, molta differenza dal punto di vista dell'attendibilità storiografica; per non parlare del futuro delle relazioni turco-armene».
L'Italia del Colle 1946-2006. Sessant'anni di storia attraverso i dieci Presidenti, di M. Staglieno - Boroli Editore, Milano 2006, pp. 368, euro 24,00
La Repubblica, nel 2006, compie sessant'anni. E ha visto ascendere al Colle dieci Presidenti. Soltanto tre vennero eletti al primo scrutinio. E gli altri? Attraverso quali mosse, con quali capacità personali e politiche riuscirono a imporsi, sfuggendo alle reti dei sabotatori e spesso intrappolandovi pericolosi concorrenti? E quanto influì il caso nella corsa al Quirinale?
Anche sulla base di documenti inediti, questo libro si propone di rispondere a queste domande attraverso il profilo, insieme umano, politico e istituzionale, di tutti i dieci Presidenti. Senza naturalmente ignorare le vicende che, con vari ruoli prima di ascendere al Colle, essi hanno attraversato. Ispirato alla chiarezza e al rigore documentario, e svelando retroscena poco noti della vita politica italiana, questo saggio si configura quindi come un piccante excursus nel nostro sessantennio repubblicano. Soprattutto in relazione agli ultimi trent'anni e all'attuale (non improbabile) vigilia di una Terza Repubblica che potrebbe decurtare proprio i poteri del Capo dello Stato. La prefazione è di Giulio Andreotti.
L'Unione sovietica in 209 citazioni, di A. Graziosi - Il Mulino, Bologna 2006, pp. 208, euro 17,00
209 frammenti per raccontare la potenza e la vanità del socialismo reale. In queste pagine l'Unione Sovietica si racconta, per così dire, da sé; parla in prima persona attraverso un'incredibile raccolta di citazioni: brani di lettere, di discorsi, di diari e memorie, documenti ufficiali e saggi storici. Il libro non è composto che di questo: 209 citazioni con le relative note che le illustrano (un tesoro di dottrina, per chi voglia integrare su un registro più approfondito). E' insomma un mosaico, un montaggio, che segue ordinatamente l'intera parabola dell'Unione Sovietica e la illumina da prospettive inconsuete, attingendo a dettagli sconosciuti, a parole dimenticate. Una lettura erudita e, per la materia trattata più che per intento autorale, straniante e a volte ironica, oltre che spesso tragica.
Corsari in Adriatico, di E. Bagnasco - Mursia, Milano 2006, pp. 136, euro 14,00
Una serie di imprese che hanno dell'incredibile e che vengono ricostruite in modo dettagliato come in un vero e proprio diario di guerra dall'8 al 13 settembre 1943. Le vicende descritte in questo libro non sono frutto di fantasia. Sono avvenute durante la Seconda guerra mondiale nei confusi giorni dell'armistizio italiano, quando due motosiluranti tedesche, con poco più di quaranta uomini a bordo, lasciarono la base navale di Taranto, dove erano ai lavori, per ritirarsi a Nord. Un trasferimento iniziato apparentemente come se fosse una fuga, ma che si trasformò subito in una lunga serie di azioni insidiose, a danno di britannici e italiani, che ricordano le imprese di corsari d'altri tempi. Al comando di un giovanissimo ufficiale, quelle due piccole unità, tra l'altro con solo una parte dei motori funzionanti, raggiunsero infine Venezia, dopo aver provocato l'affondamento di un incrociatore posamine e di un dragamine inglesi, di un cacciatorpediniere, di due dragamine, di un rimorchiatore e di una cannoniera italiani, oltre ad aver catturato, abbordandole, due navi mercantili. Nella città lagunare, infine, i loro equipaggi svolsero un ruolo determinante nella resa ai tedeschi dei locali contingenti militari italiani, rimasti isolati.
I ragazzi del '36. L'avventura dei fascisti italiani nella guerra civile spagnola, di M. Griner - Rizzoli, Milano 2006, pp. 392, euro 23,00
Dicembre 1936: a bordo del piroscafo Lombardia salpano da Gaeta le prime 3000 Camicie nere dirette in Spagna, dove infuria la guerra civile. Inizia così l'epopea del Corpo truppe volontarie, oltre 70.000 uomini inviati da Mussolini a dar man forte ai golpisti di Franco. Cosa spinse tanti italiani, tra cui moltissimi giovani a partire per una guerra non loro? Per alcuni fu la propaganda fascista che decantava la missione imperiale dell'Italia, il disprezzo per le democrazie liberali e la crociata contro la barbarie bolscevica. Non mancavano canaglie e avventurieri, a caccia di soldi facili e rapide carriere. Ma per la maggior parte, i "ragazzi del '36" erano spinti da motivazioni economiche più che ideali, da ricompense in denaro più che da decorazioni da appuntare sull'uniforme. Chi non perse la vita conobbe l'amarezza di un ritorno in patria in cui la gloria e i riconoscimenti cedettero ben presto il passo alle polemiche: nel corso dei successivi settant'anni la vulgata storica avrebbe infatti sminuito il ruolo dell'intervento italiano, sottolineandone la modesta organizzazione e il tiepido consenso.
Con questa ricostruzione, che fonde ampiezza della rievocazione, ricchezza documentaria e un linguaggio felicemente narrativo, Massimiliano Griner racconta l'avventura degli italiani di Spagna intrecciando la pluralità delle loro vicende. Le rovinose scelte tattiche di Edmondo Rossi che portarono alla sconfitta di Guadalajara, ma anche l'eroica trasvolata di Ruggero Bonomi e le corrispondenze dei giornalisti Giulia D'Arienzo e Sandro Sandri dalla Madrid dell'alzamiento. E come cornice le astuzie di Franco, i ripensamenti di Mussolini, lo spettacolo di equivoci e intrighi inscenato dalle grandi potenze. Griner rilegge questo capitolo della storia italiana depurandolo dai veleni della retorica e dell'ideologia, per tornare a dedicarlo ai suoi protagonisti: quei soldati quasi del tutto ignoti o dimenticati i cui nomi vanno restituiti alla memoria collettiva.
Il sogno del principe. Vespasiano Gonzaga e l'invenzione di Sabbioneta, di E. Ferri - Mondadori, Milano 2006, pp. 248, euro 17,50
Vespasiano Gonzaga, valoroso condottiero e abile diplomatico, ma anche architetto militare, letterato e grande mecenate, inseguì per tutta la vita un sogno: trasformare una piccola località della pianura lombarda situata tra il Po e l'Oglio, la romana Sabloneta, in un gioiello urbanistico, una città ideale a forma di stella a sei punte, sfavillante di palazzi, chiese, giardini e costellata di splendide opere d'arte. Numerosi artisti contribuirono all'impresa - Giovanni Pietro Bottaccio, Vincenzo Scamozzi, Andrea Cavalli, Leone Leoni, Bernardino Campi - ma il progetto era di Vespasiano, studiato in ogni particolare, e solo sua era la forza di realizzarlo. Da semplice discendente di un ramo cadetto il principe Gonzaga seppe innalzarsi ai più alti gradi della nobiltà europea, conducendo una vita pubblica intensissima ed errabonda fra i campi di battaglia e le corti del Cinquecento, e una vita privata turbolenta, segnata da molti lutti e da una immensa solitudine. Sposò in prime nozze Diana de Cardona, con cui condivise il progetto di Sabbioneta, ma che fu assassinata insieme all'amante in circostanze misteriose. Sopravvisse anche alla seconda moglie, Anna d'Aragona e di Segorbe, che morì di malinconia per la sua terra lontana dopo aver partorito due gemelle e un figlio maschio, Luis. Ed ebbe anche una terza moglie, la giovane Margherita Gonzaga, sposata con lo scopo, rimasto frustrato, di generare un secondo figlio maschio dopo la tragica morte del primo, dovuta a un calcio che lui stesso gli avrebbe sferrato in un momento d'ira.
Ma quando Vespasiano morì, a sessant'anni, nel 1591, il sogno di costruire dal nulla una perfetta città rinascimentale, inno alla potenza militare e alla bellezza classica, era compiuto. Sabbioneta, dopo trentasei anni di continui lavori, era un ideale divenuto realtà.
In questa biografia avvincente come un romanzo, Edgarda Ferri fa rivivere le suggestive atmosfere del Rinascimento italiano, ricostruendo con passione e ricchezza di particolari la vita di un uomo tormentato, di un grande principe, di uno spirito forte e visionario, che lasciò come memoria di sé una città intera, di tale stupefacente bellezza da rimanere intatta fino ai giorni nostri, troppo perfetta per subire le offese del tempo.