Il dibattito sul comportamento di Pio XII nei confronti della dittatura hitleriana.
Da una parte il regime che porta alla Shoà, dall'altra la feroce tirannia di Stalin.
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PIO XII E IL NAZISMO. E QUELLA SCELTA ANCORA DISCUSSA
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Non è mia intenzione "processare" Pio XII-Pacelli per il comportamento verso la tragedia degli ebrei. Ho una tesi tutta mia che in ogni modo scagiona il pontefice dall'accusa di filo-nazismo e antisemitismo, anche se il "suo" anticomunismo lo consigliò male su come agire. In pratica papa Pacelli è stato costretto a scegliere tra la minaccia nazista e quella bolscevica, tra Hitler e Stalin. Preferì contrastare apertamente solo il secondo, senza esporsi in prima linea contro la Germania: il nazismo in ogni modo rappresentava per la Santa Sede un baluardo contro il bolscevismo!
Il primo grande incontro con la Germania, Eugenio Pacelli lo ebbe nel 1917, durante la Prima Guerra Mondiale. Era il 26 maggio quando monsignor Pacelli presentò a Monaco, al vecchio re Luigi III, le sue credenziali di nunzio. Arrivato in Germania immediatamente si mise al lavoro. Il 26 giugno subito s'incontrò a Berlino con il cancelliere imperiale Theobald Bethmann Hollewegg. Nell'incontro il nunzio Pacelli non perse occasione per intraprendere un'azione diplomatica per la conclusione della guerra in corso, proponendo la riduzione degli armamenti e la liberazione del Belgio, occupato - in disprezzo alla sua dichiarata neutralità - dalle truppe tedesche. Il cancelliere si disse disponibile alla riduzione degli armamenti, purché tutti gli altri Stati avessero fatto altrettanto. Era altresì favorevole a restituire la piena indipendenza al Belgio a condizione che il Paese non entrasse nell'area politica, economica e militare anglo-francese. Sul problema dell'Alsazia-Lorena, dichiarò possibile un'intesa in conformità a reciproche rettifiche di frontiera.
Pacelli incontrò, in seguito, nel quartier generale tedesco di Bad Kreuznach - nel Palatinato renano - anche Guglielmo II, consegnandogli una lettera autografa del papa. Nella missiva era ribadita l'esigenza di porre fine al flagello della guerra, anche se questo poteva comportare per i tedeschi rinunce territoriali. L'imperatore, dapprima sembrò non accettare le proposte, anche perché le sue offerte di pace non erano state neanche prese in considerazione, poi si proclamò lieto di prendere in considerazione i propositi pontifici, a condizione che papa Benedetto XV impartisse severe istruzioni ai sacerdoti in tutti gli Stati, affinché smettessero di predicare odio e vendette.
Subito dopo, soddisfatto di quel colloquio, monsignor Pacelli corse ad incontrare l'imperatore d'Austria Carlo I, giunto nel frattempo a Monaco, il quale si dimostrò disponibile per la pace, dicendosi perfino disposto a cedere all'Italia il conteso Trentino. Tutto si arenò in seguito a pressioni militari che determinarono una crisi politica che, nel luglio del 1917, travolse lo stesso cancelliere Bethmann Hollwegg costretto alle dimissioni.
All'indomani del primo conflitto mondiale, la sconfitta della Repubblica di Weimar aveva rafforzato il prestigio del cattolico partito di Centro, che durante la guerra aveva sostenuto e lavorato per una pace di compromesso. Mentre il partito cattolico estendeva all'esterno la sua influenza nella società tedesca, all'interno si esercitava sempre di più la spinta della gerarchia ecclesiastica. Nel 1924, al Katholikentang di Hannover, il presidente dell'assemblea, il principe di Löwenstein, propose di condizionare l'ingresso della Germania nella Società delle Nazioni, alla rappresentanza in essa del papa e all'attribuzione allo stesso pontefice della presidenza del tribunale d'arbitraggio della stessa Società delle Nazioni.
Nel frattempo salì alla ribalta della scena politica tedesca il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (Nsdap), con esponenti come Hermann Göring, Heinrich Himmler, Rudolf Hess, Adolf Hitler (quest'ultimo divenne presidente della Nsdap nel 1921). L'accesso anticomunismo di questo movimento politico suscitava le simpatie di molti ambienti clericali, anche se coscienti delle reali potenzialità totalitarie dei suoi membri, prima fra tutti di Hitler.
L'aggravarsi della crisi economica, tra il 1932 e il 1933, l'acuirsi dei movimenti sindacali e il rafforzarsi del movimento comunista, sviluppò tendenze per una certa convergenza politica fra i cattolici e lo stesso nazionalsocialismo. Il pericolo che mise in allarme la Santa Sede riguardò subito la defezione di alcuni sacerdoti dai ranghi del clero secolare. Questi, storditi dalla campana nazista, s'erano iscritti al partito nazionalsocialista nonostante il divieto della Conferenza episcopale tedesca. Le preoccupazioni vaticane riguardavano il rischio di veder sorgere una Chiesa nazionale tedesca, una Reichskirche.
Quando nel gennaio 1933 Hitler divenne cancelliere, prese questo solenne impegno: «Lo Stato nazional-socialista professa il cristianesimo positivo. Sarà mio sincero sforzo proteggere le due grandi confessioni cristiane nei loro diritti e salvaguardarle nelle loro dottrine, dalle interferenze, e nei loro doveri di produrre armonia con gli obblighi e le richieste dello stato attuale.[...]. Il Governo Nazionale considera le vere comunità cristiane come fattori indispensabili alla vita del popolo tedesco [...] e dichiara la sua volontà di lasciare intatti i loro diritti. Nelle scuole, il Governo proteggerà l'influenza legittima degli enti cristiani. Il nostro primo scopo è che ci sia pace e concordia tra Chiesa e Stato. Le forze spirituali del Cristianesimo sono per noi elementi essenziali all'elevazione morale del popolo tedesco».
Questa non era la posizione personale di Hitler, ma di tutto il partito. Al Punto 24 del programma del Partito Tedesco Nazional-Socialista dei Lavoratori, infatti, si poteva legge: «Il Partito come tale rappresenta il punto di vista del "Cristianesimo positivo" senza essere vincolato confessionalmente ad una particolare confessione religiosa». Questo spiega perché la Chiesa tedesca salutò con favore l'avvento del regime nazista in Germania, regime che si opponeva sia al liberalismo sia al marxismo. Questo spiega anche perché, il 23 marzo dello stesso 1933, il Zentrum cattolico, con a capo monsignor Kaas, votò i pieni poteri a Hitler.
La Chiesa cattolica di Germania appoggiò Hitler, ma alcune voci isolate capirono da subito della pericolosità del nuovo regime. L'espressione più concreta dell'ostilità della Chiesa tedesca contro il regime la ritroviamo, infatti, solamente nelle dichiarazioni di alcuni valorosi uomini di Chiesa, come von Galen (vescovo di Münster), Bornewasser (vescovo di Treviri), Faulhaber (arcivescovo di Monaco), Groeber (arcivescovo di Friburgo), Bernhard Lichtenberg (rettore della cattedrale di S. Hedwig a Berlino). Questi stilarono diverse lettere pastorali per mettere in guardia i cattolici e per denunciare pubblicamente le condizioni in cui vivevano i fedeli della Chiesa di Roma e il clero in Germania, sfidando in questo modo il regime.
Bernhard Lichtenberg, rettore della cattedrale di S. Hedwig a Berlino, nel 1938 fu l'unico che ebbe il coraggio di condannare pubblicamente l'oltraggio avvenuto nella cosiddetta "notte dei cristalli".
Ma, a parte pochissimi ecclesiastici tedeschi, l'atteggiamento della Chiesa cattolica tedesca è stato preoccupante. Lo affermò lo stesso primo cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, Konrad Adenauer, in una lettera del 23 febbraio 1946 al pastore di Bonn Bernhard Custodis: «A mio avviso il popolo tedesco porta, come pure i vescovi e il clero, una grande responsabilità per i fatti accaduti nei campi di sterminio [...]. La colpa è stata commessa prima. Il popolo tedesco, e in buona misura anche i vescovi e il clero, ha aderito al nazionalsocialismo. Ci si è lasciati uniformare [...] quasi senza resistenza, in parte anzi con entusiasmo. Qui sta la colpa [...] Io credo che se i vescovi tutti insieme ed in un determinato giorno avessero preso posizione dal pulpito contro ciò, avrebbero potuto impedire molte cose. Così non è avvenuto e per questo non ci sono scuse. Se per tale motivo i vescovi fossero finiti in prigione o in un campo di sterminio, non sarebbe stato un male, al contrario. Tutto questo non è accaduto e perciò è meglio tacere».
Il 12 aprile 1933, alcune settimane dopo l'insediamento di Hitler al cancellierato, una filosofa cattolica tedesca d'origine ebraica trova l'ardire di scrivere a Roma per chiedere a papa Pio XI e al suo segretario di Stato - il cardinale Pacelli, vecchio nunzio apostolico in Germania e futuro Pio XII - di non tacere e di denunciare la pericolosità dei nazisti e il carattere tutto razzista del nuovo governo. Si tratta della voce di Edith Stein, convertita al cattolicesimo e fattasi carmelitana con il nome di Teresa della Croce, morta ad Auschwitz e canonizzata da Giovanni Paolo II l'11 ottobre 1998.
La preveggenza di Edith Stein è pari al coraggio del suo intervento. Ella scriveva al papa:
«Padre Santo! Come figlia del popolo ebraico, che per grazia di Dio è da undici anni figlia della Chiesa cattolica, ardisco esprimere al padre della cristianità ciò che preoccupa milioni di tedeschi. Da settimane siamo spettatori, in Germania, di avvenimenti che comportano un totale disprezzo della giustizia e dell'umanità, per non parlare dell'amore del prossimo. Per anni i capi del nazionalsocialismo hanno predicato l'odio contro gli ebrei. Ora che hanno ottenuto il potere e hanno armato i loro seguaci - tra i quali ci sono dei noti elementi criminali - raccolgono il frutto dell'odio seminato. [...]. Sono convinta che si tratta di un fenomeno generale che provocherà molte altre vittime. [...].Ma se la responsabilità in gran parte ricade su coloro che li hanno spinti a tale gesto, essa ricade anche su coloro che tacciono. Tutto ciò che è accaduto e ciò che accade quotidianamente viene da un governo che si definisce "cristiano". Non solo gli ebrei ma anche migliaia di fedeli cattolici della Germania e, ritengo, di tutto il mondo da settimane aspettano e sperano che la Chiesa di Cristo faccia udire la sua voce contro tale abuso del nome di Cristo. [...].Questa guerra di sterminio contro il sangue ebraico non è un oltraggio alla santissima umanità del nostro Salvatore, della beatissima Vergine e degli Apostoli? [...]. L'idolatria della razza, con la quale la radio martella le masse, non è di fatto un'eresia esplicita? [...]. Noi tutti, che guardiamo all'attuale situazione tedesca come figli fedeli della Chiesa, temiamo il peggio per l'immagine mondiale della Chiesa stessa, se il silenzio si prolunga ulteriormente. Siamo anche convinti che questo silenzio non può alla lunga ottenere la pace dall'attuale governo tedesco. La guerra contro il Cattolicesimo si svolge in sordina e con sistemi meno brutali che contro il Giudaismo, ma non meno sistematicamente. Non passerà molto tempo perché nessun cattolico possa più avere un impiego a meno che non si sottometta senza condizioni al nuovo corso».
Già durante il suo mandato, il nunzio apostolico Eugenio Pacelli aveva tentato invano di arrivare alla stipulazione di un concordato con l'intera Germania. Fu il vice cancelliere tedesco von Papen, dopo aver costituito un'associazione di cattolici favorevoli al nazionalsocialismo, chiamata L'Aquila e la croce, ad intavolare, con la mediazione di monsignor Kaas, le trattative per un accordo generale. Queste culminarono con la firma di un concordato il 20 luglio 1933.
Il Reichskonkordat dava indubbiamente una certa onorabilità al regime hitleriano sul piano internazionale, come in Germania stessa; negli ambienti della Curia romana si pensava invece che tale accordo potesse, in qualche modo, mettere un freno alle pretese assolutistiche del führer. Ma la statolatria nazista, non solo vanificò non poche clausole concordatarie, ma finì per rendere l'istituzione ecclesiastica subalterna ai propri disegni politici.
La relazione di Martin Bormann, vice del führer e capo di Stato Maggiore della cancelleria del partito, sui "rapporti tra cristianesimo e nazionalsocialismo" fu un vero e proprio proclama della superiorità assoluta di Hitler, anzi la sostituzione del Vangelo con la dottrina nazista, della croce del Cristo con quella uncinata del führer, era considerata una giusta e legittima pretesa dei tedeschi:
«La dottrina nazionalsocialista è inconciliabile con quella cristiana. Le Chiese cristiane sono basate sull'ignoranza ed hanno tentato di mantenere la maggioranza della popolazione in stato di ignoranza, perché solo così potevano mantenere il loro potere. Il nazionalsocialismo invece è basato su fondamenti scientifici. Il Cristianesimo ha fondamenti immutabili fissati circa duemila anni fa e si è irrigidito sempre più in dogmi artificiosi; il nazionalsocialismo, se vuole adempiere ai suoi compiti a venire, deve quindi essere costruito costantemente sulle più recenti scoperte della scienza. [...]. Tutte le influenze che potrebbero recar pregiudizio al supremo governo del Führer sul popolo devono essere soppresse; il popolo deve essere strappato dalle mani delle Chiese e dei loro preti. [...]. Soltanto lo Stato con le sue ramificazioni ha il diritto di governare e guidare il popolo. [...]. E' nell'interesse del Reich, non d'incoraggiare l'unità, ma di mantenere e inacerbire le divisioni fra le Chiese».
Man mano che all'illusione concordataria si sostituiva la realtà dei propositi nazisti, in Vaticano s'iniziò a pensare quale fosse il miglior antidoto contro il veleno nazista.
Nel gennaio del 1937, così, a seguito di ulteriori violazioni del concordato, Pio XI invitò il cardinale tedesco von Faulhaber a redigere la traccia di un documento che denunciasse il comportamento anticristiano di Hitler. Si arrivò così alla stesura di un'enciclica intitolata Mit brennender sorge (Con viva ansia).
L'enciclica, tutta in lingua tedesca, arrivò a condannare il "neopaganesimo" instauratosi in Germania a servizio dello Stato definito totalitario e razzista. Il testo fu trasmesso clandestinamente in Germania per essere stampato e divulgato nelle chiese del Reich. Con parole assai dure, il pontefice notificava:
«Se l'albero della pace, da Noi piantato con pure intenzioni in terra tedesca non ha dato il frutto che desideravamo nell'interesse del vostro popolo, nessuno può dire oggi che la colpa sia della Chiesa o del suo Capo Supremo. L'esperienza degli ultimi anni fissa la responsabilità, mette a nudo degli intrighi che, fin da principio, non miravano ad altro che ad una guerra di sterminio».
L'enciclica, che aveva come sottotitolo Sulle condizioni della Chiesa cattolica nel Reich tedesco, denunciava le violazioni del concordato ai danni del clero, degli ordini religiosi e delle scuole confessionali, in quanto "con metodi mascherati o aperti di coercizione, coll'intimidazione, con promesse di vantaggi economici, civili, professionali o d'altro genere, si sottopone ad una violenza tanto illegale quanto inumana la leale adesione alla loro fede dei cattolici tutti, e in specie modo di certe classi di funzionari cattolici".
Nell'enciclica, inoltre, papa Pio richiamava i fedeli tedeschi alla norma morale e al diritto naturale, contrapponendo i princìpi tradizionali della fede cristiana, vilipesi dai nazisti, con il cosiddetto "mito del sangue e della razza" in odio agli ebrei:
«Come il sole di Dio splende indistintamente su tutto il genere umano, così la sua
Nell'enciclica,
inoltre, papa Pio
richiamava
i fedeli tedeschi
alla norma morale
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legge non conosce privilegi ed eccezioni. Chiunque voglia attribuire alla razza o al popolo o allo Stato o alla forma dello Stato o a coloro che detengono il potere, cose tutte che fra gli uomini occupano opportuno e onorevole posto, un valore diverso da quello loro attribuito dalla tavola dei valori stessi, anche in materia religiosa, e li divinizzi in culto idolatrico, si pone fuori della vera fede in Dio e della concezione della vita a tale fede rispondente».
Tutto sommato, però, non si arrivò ad una vera e propria scomunica. L'enciclica Divini Redemptoris di Pio XI, coeva della Mit brennender Sorge, però, rappresentò un duro attacco contro il comunismo ateo e le sue implicazioni.
Per ritorsione al documento pontifico, Goebbels, capo della propaganda nazista, fece stampare un libello in cui si raccontavano i malaffari del Vaticano (come gli scandali finanziari, il traffico di valuta, gli episodi d'immoralità) perpetuati dalla gerarchia ecclesiastica tedesca e da quella della Curia romana; vicende in ogni modo inventate e partorite dalla mente dello stesso Goebbels e dei suoi fedelissimi per screditare la Chiesa cattolica agli occhi dell'opinione pubblica. I problemi con il regime si aggravarono ancor più nel 1934, quando morto il presidente von Hindenburg, con un'apposita legge Hitler concentrò le cariche di cancelliere e di presidente del Reich.
Indubbiamente la Chiesa, con il concordato, aiutò Hitler a conseguire una legittimazione internazionale, indebolendo notevolmente la resistenza cattolica contro il Reich. Alla base della firma degli accordi, stava in ogni caso una reale preoccupazione della protezione dei diritti dei cattolici tedeschi e la volontà di preservare la Chiesa cattolica in Germania.
Ovviamente Hitler, come già riferito, non solo non rispettò le garanzie verbali, procedendo ad una sistematica eliminazione cruenta degli ebrei, ma anche quelle scritte. Dal 1933, anno della firma del concordato, al 1939, partirono dal Vaticano verso Berlino ben cinquantacinque note di protesta, e appena dodici ebbero una vaga risposta. Così, quando Hitler visitò l'Italia, dal 5 al 9 maggio 1938, papa Pio decise di incontrare il führer, ma a condizione che all'incontro doveva essere preceduto da un protocollo, da un previo accordo, al centro del quale doveva essere dissipata la questione della persecuzione anticattolica da parte del regime (queste rivelazioni sono di padre Giovanni Sale, in La Civiltà cattolica, quaderno 3679, 4 ottobre 2003). Non ci fu alcun incontro, anzi, il pontefice prese le distanze dal cancelliere tedesco e lasciò Roma per tutto il tempo della presenza di Hitler nella capitale.
La morte impedì a Pio XI di prendere posizione contro l'antisemitismo nazista: egli aveva già infatti commissionato un'enciclica su questo tema, anzi, l'enciclica contro il totalitarismo razzista era pronta alla fine del 1938, ma il papa esitò a pubblicarla, finché lo colse la morte il 10 febbraio 1939. Vediamo molto brevemente la storia di quest'enciclica.
Nel giugno del 1938, mentre in Germania e nei Paesi filo-nazisti infuriava l'odio razziale, il gesuita statunitense John LaFarge, di passaggio a Roma, fu convocato a sorpresa da Pio XI in Vaticano. Il Papa aveva in mente di predisporre un'enciclica contro il razzismo. Egli, dopo aver letto il suo "Interracial Justice ", un libro dove il giovane gesuita aveva spiegato che la divisione del genere umano in "razze" non ha alcun fondamento scientifico, nessuna base biologica, essa è solo un mito, una maschera che serve al mantenimento dei privilegi delle classi sociali più agiate, aveva pensato di affidare il compito di redigerla proprio a John LaFarge. Il gesuita si mise al lavoro assieme ad altri due suoi confratelli gesuiti, il tedesco Gustav Gundiach e il francese Gustav Desbuquois. Secondo le indicazioni del pontefice, il documento avrebbe portato il titolo di Humani generis unitas (L'Unità del genere umano). Essa tuttavia non piacque ad alcuni superiori gesuiti che la ebbero in esame, compreso il Generale dell'ordine padre Wladimir Ledochowski.
L'enciclica, in ogni modo, pur condannando il "razzismo biologico", riproponeva i vecchi modelli dell'antisemitismo cattolico proprio della Chiesa cattolica e della cosiddetta "segregazione amichevole". Nel progetto di padre Lafarge si dice chiaramente che il razzismo è un puro pretesto per perseguitare gli ebrei: «Risulta chiaramente che la lotta per la purezza della razza finisce coll'essere unicamente la lotta contro gli ebrei». Anche l'antica accusa di deicidio non cadeva. Si legge ancora nel documento:
«la vera natura della separazione sociale degli ebrei dal resto dell'umanità, ha un carattere religioso e non razziale. La questione ebraica, non è una questione di razza, né di nazione, né di nazionalità terrena e neppure di diritto di cittadinanza fra gli Stati. È una questione di religione e, dopo la venuta di Cristo, una questione di cristianesimo. [...] Il popolo ebreo ha messo a morte il suo Salvatore [...] Constatiamo in questo popolo un'inimicizia costante rispetto al cristianesimo. Ne risulta una tensione perpetua tra ebrei e cristiani mai sopita. Il desiderio di vedere la conversione di tale popolo non acceca la Chiesa sui pericoli ai quali il contatto con gli ebrei può esporre le anime. Fino a che persiste l'incredulità del popolo ebraico la Chiesa deve prevenire i pericoli che questa incredulità potrebbe creare per la fede e i costumi dei fedeli».
La storia dell'enciclica negata, da una parte conferma la determinazione con cui la Santa Sede di Pio XI avrebbe voluto condannare il "razzismo biologico", dall'altra è diventata fonte di calunnie contro il successore di papa Ratti, Pio XII, il quale, secondo i suoi critici, avrebbe rinunciato inspiegabilmente alla pubblicazione dell'enciclica.
Il cardinale Eugenio Pacelli divenne papa della Chiesa di Roma con il nome di Pio XII, il 2 marzo 1939. Alla cerimonia d'incoronazione del nuovo pontefice mancava la delegazione ufficiale tedesca; tuttavia l'ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, Diego von Bergen, fece recapitare le congratulazioni di Hitler e di tutto il governo del Reich. Nelle istruzioni sulle modalità dei complimenti per la nomina a pontefice della Chiesa di Roma dell'ex nunzio, il governo tedesco volle precisare che queste "non dovevano essere formulati in maniera particolarmente calda".
Certamente la nomina di Eugenio Pacelli a pontefice della cattolicità non fu ben vista dal regime nazista. Già all'indomani della morte di papa Achille Ratti la stampa tedesca predispose una campagna per evitare l'elezione dl Pacelli, il quale, evidentemente, non doveva essere considerato così "amico" dai notabili del Reich. Il giornale nazista "Das Reich", ad esempio, pochi giorni prima del conclave, scriveva: "Pio XI era un mezzo ebreo, poiché sua madre era una giudea olandese, ma il cardinale Pacelli è interamente ebreo". Eletto papa, la campagna denigratoria continuò.
Il 3 marzo 1939 Il "Berliner Morgenpost" faceva osservare che "l'elezione dl Pacelli non è accolta favorevolmente in Germania, perché egli è sempre stato ostile al nazionalsocialismo". L'organo ufficiale delle SS, "Das Schwarze Korps" è meno diplomatico: "Il nunzio e cardinale Pacelli ci ha dimostrato scarsa comprensione, ed è la ragione per la quale noi gli accordiamo poca fiducia. Pio XII non seguirà certamente una strada diversa".
All'inizio del suo pontificato, Eugenio Pacelli concentrò tutti i suoi sforzi al fine di evitare la guerra, ormai alle porte. Nel radiomessaggio del 24 agosto 1939, egli ebbe parole durissime contro la politica delle armi: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra». In seguito, quando ormai la guerra con tutta la sua crudeltà scoppiò, tutte l'energie del pontefice saranno assorbite dal problema di limitare il conflitto sul pianeta, favorendo una politica di convinzione atta ad aumentare la neutralità di terzi Stati.
La posizione della Chiesa di Roma durante il secondo conflitto mondiale, fu del tutto particolare. Pio XII, rifiutando la neutralità di Benedetto XV, dichiarò fin dall'inizio la sua "imparzialità" e quella di tutta la Chiesa.
In una lettera datata 31 gennaio 1943, papa Pacelli spiegò all'arcivescovo di Monaco Faulhaber che la «neutralità potrebbe essere intesa nel senso di una passiva equivalenza che non viene al Capo supremo della Chiesa di fronte a tanti fatti», mentre «l'imparzialità vuol dire per Noi giudizio delle cose secondo verità e giustizia».
La filosofia dell'imparzialità, non è stata solo un calcolo diplomatico di convenienza per la sopravvivenza stessa della Chiesa di Roma, al fondo, in ogni caso, ritroviamo un atteggiamento vero di ripudio della guerra, poiché per papa Pacelli "la spada non crea la pace!" (fu proprio questo il moto di Pio XII durante la guerra, come quello di Benedetto XV fu di "inutile strage").
Papa Pio volle mostrare subito l'imparzialità della sua Chiesa, condizione indispensabile - secondo il pontefice - per un'azione diplomatica a favore del ripristino della pace, non sostenendo l'appello del presidente statunitense Roosevelt (14 aprile 1939) rivolto a Hitler e Mussolini. L'appello, che invitava le potenze dell'Asse ad astenersi per dieci anni da qualsiasi aggressione contro trentuno Stati indicati in una lista, appariva agli occhi di Pio XII troppo parziale per risolvere la questione. Egli, allora, attraverso il suo segretario di Stato, il cardinale Maglione, e i nunzi dei Paesi interessati, cercò d'organizzare una conferenza internazionale fra Germania, Italia, Inghilterra, Francia e Polonia, al fine di risolvere diplomaticamente il problema. Ma i vari sondaggi che il pontefice fece svolgere agli incaricati vaticani, ebbero esito negativo.
Dopo l'imbarazzante fallimento della convocazione di una conferenza internazionale, papa Pio, il 30 agosto 1939, intervenne sul governo polacco, tramite il nunzio a Varsavia Filippo Cortesi, affinché cedesse alle rivendicazioni territoriali tedesche (rinuncia di Danzica, apertura di negoziati intorno alla questione del "corridoio" e al trattamento delle rispettive minoranze), sollecitando anche Mussolini per una mediazione in tal senso. Il governo polacco rigettò la proposta, preferendo sperare nell'appoggio di Roosevelt. Il conflitto, con tutte le sue tragedie, diventava sempre più concreto. Così il 31 agosto, papa Pacelli fece recapitare un suo ultimo disperato messaggio di pace agli ambasciatori d'Italia, Germania, Francia, Polonia e Stati Uniti. L'appello restò inascoltato e la guerra inevitabilmente scoppiò. La mediazione di pace non aveva dato frutti concreti, e al pontefice non restò quindi che pregare e lavorare per una rapida conclusione del conflitto.
Durante la guerra il Vaticano, in virtù della sua dichiarata "imparzialità" non prese posizione a favore di nessuno tra i contendenti: eventi come l'invasione della Polonia e la caduta della Francia non smossero la diplomazia vaticana da una posizione di sostanziale neutralità. Questo atteggiamento fu duramente criticato dagli Stati colpiti dalla follia nazista. Gli osservatori che puntualmente andavano dal governo polacco in esilio, ad esempio, si fecero portavoce dell'opinione di molti cattolici polacchi, tanto all'interno della Polonia che fuori, secondo cui la Chiesa di Roma li aveva traditi perché era stata in silenzio di fronte alla loro tragedia nazionale.
All'indomani della caduta della Francia, tuttavia, Pio XII sondò le possibilità di una pace, che in ogni modo avrebbe sancito un'egemonia di fatto della Germania sull'Europa.
Il pericolo principale, per la stabilità dell'Europa, per Pio XII, non era comunque la Germania nazista, ma la Russia sovietica. Così, di fronte alla "guerra totale" e ai crimini di guerra compiuti dai nazisti sin dall'inizio del conflitto, il papa, e con lui la stampa vaticana, non andarono oltre generiche condanne e atteggiamenti crittografici, mentre fu condannata con molto vigore l'invasione sovietica della Finlandia. Una solidarietà generica fu espressa al sovrano del Belgio e nessuna condanna ufficiale fu espressa nei confronti del terribile bombardamento tedesco di Coventry e Londra.
Durante la guerra il Vaticano guardava con ansia e preoccupazione alla saldatura creatasi tra l'Unione Sovietica e le potenze occidentali. Probabilmente nelle sale della Santa Sede si sperava che l'Unione Sovietica e la Germania nazista si annientassero a vicenda.
Alla fine del conflitto, quando la Santa Sede fu a conoscenza della formula unconditional surrender lanciata dagli alleati dopo il convegno di Casablanca del gennaio 1943, papa Eugenio Pacelli cercò in tutti i modi di esprimere il suo dissenso. Così, nel radiomessaggio che Pio pronunciò nel quarto anniversario dell'inizio della guerra, fece suo il desiderio di una pace giusta con queste parole:
«Ci rivolgiamo a tutti quelli, cui spetta promuovere l'incontro e l'accordo per la pace, [...], e diciamo loro: la vera forza non ha da temere di essere generosa [...]. Non turbate né offuscate la brama dei popoli per la pace con atti, che, invece di incoraggiare la fiducia, riaccendono piuttosto gli odi e rinsaldano il proposito di resistenza. Date a tutte le Nazioni la fondata speranza di una pace degna, che non offenda né il loro diritto alla vita né il loro sentimento di onore. Fate apparire in sommo grado la reale concordanza tra i vostri princìpi e le vostre risoluzioni, tra le affermazioni per una pace giusta e i fatti. Soltanto così sarà possibile di creare una serena atmosfera, nella quale i popoli meno favoriti, in un dato momento, dalle sorti della guerra possono credere al rinascere e al crescere di un nuovo sentimento di giustizia e di comunanza tra le Nazioni, e da questa fede trarre le naturali conseguenze di maggiore fiducia per l'avvenire, senza dover temere di compromettere la conservazione, l'integrità e l'onore del loro Paese. [...]».
Sulla totale imparzialità di papa Pacelli, sono stati sollevati alcuni dubbi. Innanzitutto Pio non giunse mai, durante la guerra, a prendere esplicita posizione contro il nazismo con una scomunica ufficiale; al contrario, la sua avversione al comunismo e a tutto quello che girava attorno ad esso, fu sempre chiara e dichiarata in modo radicale ed esplicito. Ad esempio, se per l'invasione nazista alla Polonia non ci fu una lucida e precisa presa di posizione, come reclamavano i francesi, per l'attacco e la conseguente invasione sovietica alla stessa Polonia ci fu eccome.
In un discorso pubblico papa Pacelli giustificò la sua posizione: «Il dovere stesso di questo Nostro ufficio non Ci permette di chiudere gli occhi, quando, precisamente per la salute delle anime, sorgono nuovi e incommensurabili pericoli; quando sulla Europa cristiana si allunga ogni giorno più minacciosa e più vicina l'ombra sinistra dei nemici di Dio».
Eugenio Pacelli, tuttavia, non fu "il papa di Hitler", il fatto che il pontefice fosse amico dei tedeschi non significa che fosse amico anche dei nazisti. Indubbiamente la sua avversione contro il regime fu totale, sin dai periodi del segretariato di Stato, anche se non lo dimostrò pubblicamente.
Suor Pascalina Lehnert (tedesca!), la religiosa che accudiva da sempre Eugenio Pacelli, ha raccontato sotto giuramento che già nel 1929, che il monsignore, lasciando Berlino per Roma dove sarebbe stato creato cardinale e nominato segretario di Stato, si dimostrava tormentato per il futuro del popolo tedesco. Riferisce suor Pascalina:
«Un pensiero angoscioso turbava il nunzio alla sua partenza dalla Germania: il continuo progredire del nazionalsocialismo. Come era stato perspicace già allora nel giudicare Hitler e quante volte aveva messo in guardia il popolo tedesco dal tremendo pericolo che lo minacciava! Non gli volevano credere. Personalità di ogni ceto e di ogni classe gli fecero capire al momento del suo congedo ciò che essi attendevano da Hitler: l'ascesa e la grandezza della Germania. Una volta io chiesi al nunzio se non pensava che quest'uomo potesse avere in sé qualcosa di buono e [...] potesse, forse, aiutare il popolo tedesco. Il nunzio scosse il capo e disse: "Dovrei sbagliarmi di grosso pensando che tutto questo possa andare a finire bene. Quest'uomo è completamente invasato; tutto ciò che non gli serve, lo distrugge; tutto ciò che dice e scrive, porta il marchio del suo egocentrismo; quest'uomo è capace di calpestare i cadaveri e di eliminare tutto ciò che gli è d'ostacolo. Non riesco a comprendere come tanti in Germania, anche tra le persone migliori, non lo capiscano e non sappiano trarre insegnamento da ciò che scrive e che dice"».
Dalle carte dell'Archivio segreto del Vaticano emerge anche la prudenza del cardinale-segretario di Stato Pacelli verso il regime di Hitler. Il futuro Pio XII correggeva molto scrupolosamente tutti i discorsi che il nunzio apostolico a Berlino Orsenigo doveva pronunciare alla presenza di Hitler. Dalle bozze che monsignor Cesare Orsenigo inviava a Roma per l'approvazione, il segretario di Stato Pacelli, con l'autorità di Pio XI, cassava tutte le frasi che potevano apparire accondiscendenti verso il führer. Il 25 novembre 1933, ad esempio, Orsenigo inviò in Vaticano la bozza di discorso (catalogata nell'archivio vaticano come posizione 604, p.o, fascicolo 113) che avrebbe pronunciato il gennaio successivo davanti al presidente del Reich, von Hindenburg e al nuovo cancelliere, Adolf Hitler, che aveva ricevuto dal Parlamento poteri speciali. Si legge in un passaggio della stesura originale del documento: «I nostri cuori sempre pronti, in virtù della nostra stessa missione diplomatica, a servire la causa della pace, si sono particolarmente rallegrati, quando gli uomini, ai quali Vostra Eccellenza ha confidato i destini di questo Paese, hanno solennemente dichiarato di essere disposti a regolare le eventuali divergenze fra la Germania e le altre Nazioni, tenendosi sul pacifico cammino di una intesa amichevole». Alla bozza inviata dalla Germania, il 1° dicembre 1936, il cardinale Pacelli rispose cassando l'intero paragrafo e suggerendo, in nome del papa «che gli elogi contenuti nei discorso [devono] essere indubbiamente temperati, in considerazione delle gravi difficoltà quali la Chiesa è esposta ora in Germania».
Si legge
in un passaggio
della stesura
originale del documento:
«I nostri cuori
sempre pronti
a servire la causa
della pace...» |
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Anche la bozza del discorso per il Capodanno del 1936, fu cassata dal cardinale Pacelli. Qui il monsignor Orsenigo definiva Hitler "Duce del popolo tedesco" aggiungendo: "Noi facciamo voti che il tenace programma di Vostra Eccellenza per diminuire sempre più il numero di coloro che, a causa della grave crisi che ancora incombe sull'umanità, sono costretti a rimanere involontariamente inerti, si realizzi ampiamente, totalmente!". Nella risposta, che Pacelli inviò al nunzio utilizzando un codice cifrato, si ordinava di "annullare" le parole "Duce del popolo tedesco" e di "sopprimere" l'intero periodo elogiativo dell'attività del führer.
Anche in occasione del ricevimento per il compleanno di Hitler, il cardinal Pacelli inviò al suo nunzio severe direttive sul comportamento da assumere, prima fra tutti il divieto assoluto di un intervento pubblico durante il ricevimento.
Divenuto pontefice della Chiesa di Roma, Pacelli-Pio XII era così preoccupato per le sorti del popolo tedesco, che tentò addirittura di esorcizzare Hitler a distanza, perché convinto che fosse posseduto dal demonio. Questa notizia è stata confermata dal gesuita tedesco Peter Gumpel, che segue la causa di beatificazione di papa Pacelli.
L'accusa di filo-nazismo mossa a papa Pacelli decade anche prendendo in considerazione l'appoggio del tentativo di rovesciare Hitler messo in atto da alcuni ufficiali tedeschi alla fine del 1939, per il quale il Papa fece da tramite fra i congiurati e il governo inglese.
Certamente "i silenzi pubblici " del Vaticano furono un prudente tatticismo di papa Pacelli per non esporre i cattolici tedeschi e la stessa Chiesa alle rappresaglie hitleriane: realpolitik, si diceva (e si dice), volta ad evitare il peggio. Ma mi chiedo, perché papa Pacelli non fu mai né prudente né silente, né mosso dalle cautele della realpolitik verso il "comunismo ateo" da lui ritenuto un pericolo letale per la Chiesa e il genere umano?
Il terribile "segreto".
Al pontefice è stato anche rimproverato di non aver rivelato al mondo il terribile segreto del genocidio ebraico da parte nazista; di non aver mai alzato severamente la voce contro il mito della razza pura, che ha portato vergognosamente a consumare la più gigantesca opera criminale del Novecento, il simbolo eloquente dell'inciviltà che, secondo i calcoli fatti al processo di Norimberga, contò il massacro criminale di 5.700.000 tra ebrei (ma anche zingari, omosessuali, malati di mente, e così via).
La questione dei silenzi della Chiesa sulle atrocità subite dagli ebrei è tra le più spinose e imbarazzanti per la Chiesa di Roma. Essa, da una parte, investe la coscienza dei credenti e, dall'altra, è soggetta alle più svariate reticenze e strumentalizzazioni di parte.
Il dibattito storiografico sui "silenzi sull'Olocausto" di Pio XII è da sempre molto attivo. La posizione ufficiale del Vaticano sul problema scagiona ovviamente papa Pacelli; altre posizioni fanno notare che Pio intervenne sulla questione indirettamente, ovvero attraverso i nunzi e i vescovi locali, salvaguardando l'imparzialità della Santa Sede; altri ancora sostengono che gli interventi pontifici siano stati inadeguati e insufficienti rispetto alla drammaticità della situazione. Un grande teologo, Martin Buber, ha invece con grande coraggio lasciato intendere che Dio si fosse temporaneamente ritirato dalla storia durante l'eccidio ebraico.
La persecuzione degli ebrei da parte nazista iniziò nel 1933 con le leggi razziali di Norimberga. Inizialmente si trattava di semplici espulsioni, in seguito il regime nazista passò allo sterminio pianificato di massa.
Alla conferenza di Wannsee, convocata da Reinhard Heydrich il 20 gennaio 1942, si discusse della "soluzione finale" della questione ebraica, appunto come è definita dallo stesso Heydrich nella lettera d'invito. Gli obiettivi della riunione furono di coordinare la "ripulitura" degli ebrei non solo dalla Germania, ma da tutta l'Europa, evidenziando che l'eliminazione aveva priorità sull'utilizzo della forza lavoro schiavistica.
Pio XII era sicuramente a conoscenza sia delle vessazioni contro gli ebrei, sia dei piani nazisti sulla "soluzione finale" a danno degli ebrei. Una delle prime comunicazioni che arrivarono in Vaticano è datata 23 novembre 1940: monsignor Mario Besson, vescovo di Losanna, Friburgo e Ginevra, tramite il nunzio pontificio in Svizzera, l'arcivescovo Filippo Bernardini, inviò una lettera a Pio XII esprimendo profonda preoccupazione per le gravi condizioni di migliaia di prigionieri, tra cui ebrei, deportati in campi di concentramento nella Francia sud-occidentale. In questo resoconto sollecitò un appello pubblico da parte del papa contro le persecuzioni e una difesa più attiva, da parte cattolica, dei diritti di tutte le vittime.
Anche monsignor Konrad von Preysing, vescovo di Berlino, scrisse a Pio XII, il 17 gennaio 1941, annotando che «Sua Santità è certamente informata sulla situazione degli ebrei in Germania e nei Paesi limitrofi. Vorrei dire che sia da parte cattolica che da parte protestante mi è stato chiesto se la Santa Sede non possa fare qualcosa a questo riguardo, diffondendo un appello in favore di questi sfortunati». Il cardinale scrisse più volte al papa. Il 6 marzo 1943, ad esempio, von Preysing chiese a Pio XII di cercare di salvare gli ebrei berlinesi che erano prossimi alla deportazione; la quale, come affermò lui stesso, li avrebbe portati a morte certa: «La nuova ondata di deportazioni degli ebrei, iniziata appena prima dell'1 marzo, colpisce aspramente e particolarmente noi, qui a Berlino. Diverse migliaia di persone sono coinvolte. Sua Santità ha fatto allusione al loro probabile destino nel suo messaggio radiofonico di Natale. Tra i deportati vi sono pure molti cattolici. Non è possibile a Sua Santità intervenire nuovamente per i molti sfortunati innocenti? Per molti è l'ultima speranza ed è il desiderio profondo di tutte le persone per bene».
Il nunzio in Romania, l'arcivescovo Andrea Cassalo, oltre ad informare il Vaticano sulle leggi anti-ebraiche approvate nel Paese, fece appello direttamente al maresciallo Ion Antonescu affinché limitasse le deportazioni pianificate per l'estate del 1942. Addirittura, nella primavera del 1943, si recò nella Transistria, visitando uno dei principali campi di sterminio degli ebrei del periodo. Monsignor Cassulo fu ricevuto dal cardinale Magione e dal papa nell'autunno del 1942.
Il cardinale primate di Cracovia, Adam Sapieha, senza dubbio sapeva ciò che stava avvenendo ad Auschwitz, che era all'interno della sua arcidiocesi, e sicuramente informò la Santa Sede. Già in una lettera del febbraio 1942 diretta al papa, descrisse vividamente gli orrori dell'occupazione nazista, compresi la presenza di campi di concentramento.
Il 18 marzo 1942, Gerhart Riegner, del Word Jewish Congress e Richard Lichtheim, rappresentante della Jewish Agency for Palestin, inviarono al nunzio in Svizzera, monsignor Filippo Bernardini, un memorandum particolarmente completo sul destino degli ebrei in Europa Centrale ed Orientale. Bernardini inoltrò il documento al segretario di Stato vaticano.
In agosto e settembre 1942, vigorose proteste contro le deportazioni degli ebrei dalla Francia furono esternate da parte dell'arcivescovo Juels Saliège di Tolosa, del vescovo Pierre-Marie Théas di Montaubon, e del cardinale Pierre Gerlier di Lione. Secondo il New York Times, in un articolo pubblicato il 10 settembre 1942, il papa "mandò al maresciallo Pétain un messaggio personale nel quale manifestava la sua approvazione all'iniziativa dei cardinali e vescovi francesi in favore degli ebrei e degli stranieri deportati in Germania".
Nel 1942, a settembre, l'ambasciatore statunitense consegnò alla segreteria di Stato vaticana, un rapporto sull'eccidio degli ebrei nel ghetto di Varsavia, e i piani sullo sterminio degli ebrei nel resto dell'Europa. A dicembre egli fu ricevuto dal pontefice in udienza privata. Nell'incontro, durato quaranta minuti, il pontefice riferì di non essere del tutto convinto delle fonti e che qualcuno avesse esagerato a fini propagandistici. Per questo disse di non essere disposto a denunciare in termini espliciti i nazisti. In ogni caso, nonostante l'assicurazioni del pontefice di un intervento, in un momento che in Vaticano si considerava più "opportuno", non ci furono proteste pubbliche da parte di nessun organo ufficiale della Santa Sede.
Il 7 ottobre 1942, il Vaticano ricevette informazioni sui massacri degli ebrei compilate da un cappellano di un treno-ospedale italiano, padre Pirro Scavizzi, che riportava fino a quel momento due milioni di morti. Il sacerdote si lamentò anche dell'atteggiamento poco caritatevole del nunzio in Germania Cesare Orsenigo, a suo dire troppo timoroso nelle sue reazioni dinanzi al dramma degli ebrei.
Nel 1942, a Natale, papa Pacelli per la prima volta pronunciò pubblicamente una frase che alludeva in modo molto crittografico allo sterminio degli ebrei, ma purtroppo non si andò oltre: non un accenno a chi stava compiendo il delitto, non dove e non contro chi. Frase che in ogni modo testimonia di come Pio XII fosse a conoscenza della drammatica situazione degli ebrei: «Questo voto di pace in un ordine nuovo, l'umanità lo deve alle centinaia di migliaia di persone le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento».
Queste ambigue parole trasmesse durante il messaggio radiofonico della vigilia del Natale del 1942, sono le uniche che ufficialmente Pio XII pronunciò in difesa del popolo ebraico e contro il suo doloroso destino nei campi di sterminio di Auschwitz e affini. Nel merito, il radiomessaggio papale del Natale 1942 fu così generico, elusivo e permeato d'ambiguità che lo stesso Benito Mussolini lo definì «un discorso di luoghi comuni, che potrebbe essere fatto anche dal parroco di Predappio». La seconda ed ultima pronuncia papale riferita al dramma degli ebrei fu fatta il 2 giugno 1943 in un discorso al sacro collegio dei cardinali. Pio XII, infatti, fece riferimento allusivo a coloro «talvolta destinati, anche senza colpa da parte loro, a misure di sterminio».
Informazioni sulla Shoah furono date dall'avvocato bavarese Josef Müller, membro della Abwehr - il servizio segreto della Wehrmacht. Müller agiva in funzione antinazista nella ricerca disperata di una pace separata con gli inglesi, in nome del generale Ludwig Beck. Riferisce Antonio Spinosa che Müller forniva a padre Robert Leiber, segretario di Pio XII, «informazioni di prima mano sui crimini di guerra nazisti; gli dava anche impressionanti documenti fotografici provenienti da Auschwitz in cui erano raffigurati gruppi di ebrei costretti a scavarsi la fossa prima della fucilazione». Müller non era il solo ad essere in contatto con il Vaticano, c'erano anche il colonnello Hans Oster e il consigliere della Corte suprema Hans von Dohnanyi.
Informazioni giunsero in Vaticano anche da una lettera del 28 dicembre 1942, firmata dall'arcivescovo di Lvov (Leopoli) Szeptyckyi, dove si parlava dell'esecuzione di circa settantamila ebrei. Infine, altre segnalazioni sull'esistenza dei campi di sterminio nazisti, giunsero in Vaticano tramite una nota del 1943 del delegato apostolico in Turchia, monsignor Angelo Roncalli (il futuro Giovanni XXIII); altre segnalazioni nello stesso senso furono date dal governo polacco in esilio a Londra nel 1943, tramite una missiva di Wladislaw Raczkiewicz a papa Pio.
Anche quando gli eventi erano così evidenti da non potersi nascondere dietro a silenzi, i comunicati vaticani erano sempre ambigui ed elusivi. In occasione della deportazione degli ebrei romani nell'ottobre 1943, ad esempio, sull'Osservatore Romano del 25/26 ottobre sarebbe stato pubblicato un comunicato ufficiale delle preoccupazioni del pontefice, ma in modo alquanto contorto e oscuro: il papa "estenderebbe la sua cura paterna a tutti gli uomini senza distinzione di nazionalità, di religione e di razza". L'ambasciatore tedesco in Vaticano, Ernst von Weizsacker, riferiva a Berlino : «Contro questa pubblicazione non è il caso di avanzare obiezioni in quanto il suo testo soltanto da pochissimi verrà inteso come specifico accenno alla questione ebraica». In quest'occasione ci fu anche una protesta personale e ufficiale del pontefice, consegnata dal cardinale Maglione all'ambasciatore tedesco Ernst Von Weizsacher, purtroppo essa non fu inoltrata a Berlino per le minacce che il diplomatico tedesco esternò.
Addirittura in Vaticano si preferì demandare all'iniziativa dei singoli: il 30 aprile 1943, il papa manifestò a monsignor von Preysing che i vescovi locali avevano la facoltà di decidere quando tacere e quando parlare di fronte al pericolo di rappresaglie e di pressioni.
Di sicuro, secondo la visione della diplomazia vaticana, una presa di posizione forte avrebbe potuto significare uno sbilanciamento della Santa Sede nei confronti di una delle parti in conflitto, cosa che si voleva evitare, tenendo conto anche del fatto che i nazisti, pur perseguitando gli ebrei, stavano combattendo una spietata guerra contro il nemico sovietico. Certo Pio XII aveva anche paura delle ritorsioni naziste, anzitutto di quelle contro la Chiesa cattolica e, dopo l'occupazione di Roma, anche contro il Vaticano e forse della sua persona.
Altrettanto informati del calvario ebraico furono i governi statunitensi e britannico, tramite il governo polacco in esilio a Londra disponevano d'informazioni sufficienti e sicure sulle misure che i tedeschi avevano preso ai danni degli ebrei. Dai documenti provenienti dagli archivi segreti di Londra, declassificati dalla National Security Agency (il coordinamento del controspionaggio militare statunitense), ora disponibili al pubblico presso gli Archivi nazionali nel Maryland (Usa), risulta chiaro che i britannici erano informati del sistematico sterminio nazista ai danni degli ebrei, fin da 1941.
Infatti gli inglesi, dal giugno al settembre del 1941, intercettarono in tempo reale
L'ambasciatore
tedesco in Vaticano,
Ernst von Weizsacker,
riferiva a Berlino:
«Contro questa
pubblicazione non è
il caso di avanzare
obiezioni» |
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(riuscendo a decifrarli al massimo in tre giorni) i messaggi dei comandanti nazisti che riferivano al comando circa le loro esecuzioni fatte ad ebrei.
Informato era il governo di Washington: attraverso Fritz Kolbe, un funzionario del ministero Affari esteri del Reich tedesco - reclutato dall'Oss, il servizio segreto Usa - gli americani ricevevano copie dei cosiddetti "cablogrammi Kappa", telegrammi inviati a Berlino dal console romano Mölhausen. Addirittura Washington e Londra, oltre ad essere a conoscenza del rastrellamento del ghetto di Roma - seguito all'attentato partigiano di via Rasella a Roma - prima che esso avvenisse, erano informati sul numero degli arresti, sul luogo di deportazione dei prigionieri, sulla loro partenza, l'itinerario del viaggio e il numero della scorta assegnata.
Informati furono anche gli "alleati" di Hitler. In un rapporto diplomatico dell'ambasciatore italiano a Berlino, Alfieri, si legge che la riduzione numerica degli ebrei dalle città tedesche era riscontrabile a vista d'occhio, e quindi «non possono nutrirsi molti dubbi» sulla sorte di questi, anche perché l'autorità tedesche «non hanno fatto e non fanno mistero degli scopi prefissi».
Il silenzio del pontefice su queste terribili atrocità, non significò indifferenza totale della Chiesa cattolica. Famose e nobili sono state le azioni di solidarietà compiute dai nunzi apostolici in Ungheria, in Romania e in Cecoslovacchia. Provvidenziali sono anche le offerte di rifugio date agli ebrei da parte di molte istituzioni ecclesiastiche italiane: ricordiamo i frati minori di san Bartolomeo all'Isola e le suore di Nostra Signora di Sion di Roma, che riuscirono a nascondere molti ebrei; ma anche la solidarietà di padre Benedetto - il francese Marie Benoìt de Bourg - che fece rifugiare ebrei francesi in conventi e seminari romani. Così singoli sacerdoti, monaci, cardinali e vescovi si prodigarono per salvare la vita di migliaia di perseguitati. Solo a Roma, centocinquanta fra conventi e monasteri diedero rifugio a circa cinquemila ebrei, mentre almeno altri tremila trovarono riparo presso la residenza pontificia estiva a Castelgandolfo. Sessanta ebrei vissero per nove mesi nell'Università Gregoriana e molti furono ospitati nella cantina del Pontificio Istituto Biblico. Centinaia trovarono asilo dentro il Vaticano stesso. L'ex rabbino capo di Roma Israel Zolli fu salvato anche lui dalla deportazione per intervento della Santa Sede e per questo, forse, Zolli sì fece cattolico (naturalmente anche sulla base dì ragioni teologiche), cambiando il nome e assumendo con il battesimo quello di Eugenio in onore a papa Pio. (A questo punto sorge legittimo un interrogativo: se non si trattò di episodicità umanitarie o contingenti dovute ad autonome iniziative di singoli, perché quella parte del clero e della gerarchia che si comportarono in maniera opposta non sono stati mai colpiti da alcuna sanzione da parte della Curia romana?)
Se il razzismo fascista fu alimentato, in qualche modo, dall'intolleranza religiosa cattolica, quello nazista di Hitler ebbe buon terreno di coltura nell'odio religioso tedesco di matrice luterana (si ricordi che Martin Lutero fu un convinto assertore antiebraico). Tuttavia i cristiani nutrivano sentimenti intolleranti verso gli ebrei solamente per la loro religione, il fascismo e in particolare il nazismo invece nutrivano sentimenti d'odio per la razza.
Com'è stato giustificato il comportamento del romano pontefice? Da parte cattolica si sostiene, difendendo ovviamente l'operato di Pio XII, che una denuncia avrebbe sicuramente accresciuto le persecuzioni, anzi le avrebbe sicuramente allargate ai cattolici. Si sostiene anche che il dilemma di papa Pacelli era quanto chiara dovesse essere la parola che è richiesta dall'ufficio e quanto concreta essa poteva essere in base alle conseguenze. Infatti, in varie lettere ai vescovi tedeschi Pio XII confidò le sue esitazioni e i suoi dubbi.
Così il 20 febbraio 1941: «Là dove il Papa vorrebbe gridare forte, è purtroppo un silenzio di attesa che talora gli viene imposto; là dove vorrebbe agire gli è imposta un'attesa paziente»; e così anche il 3 marzo 1944, quando scrisse all'arcivescovo di Colonia, Joseph Frings: «è dolorosamente difficile decidere se c'è bisogno di mantenere un prudente silenzio o di parlare francamente e agire con fermezza».
Secondo il teologo Kans Küng, Eugenio Pacelli era invece, per mentalità e carriera, un germanofilo dichiarato, che si circondava maggiormente di collaboratori tedeschi, pensava soprattutto secondo criteri giuridico-diplomatici e non teologico-evangelici, operava secondo una mentalità curiale e attaccata all'istituzione piuttosto che da pastore attento agli uomini; ossessionato dalla paura del contatto fisico e dal terrore del comunismo. Egli era di orientamento profondamente autoritario ed antidemocratico. Per il papa-diplomatico Pacelli era importante la "libertà della Chiesa", intesa come il riconoscimento più ampio possibile, da parte dello stato, dell'istituzione ecclesiastica e del codice di diritto canonico. Diritti dell'uomo e democrazia sono realtà rimaste fondamentalmente estranee a questo papa.
Per chiudere la polemica sulle "colpe" e i "silenzi" di papa Pio XII durante il secondo conflitto mondiale, fu concepita e realizzata la raccolta degli Actes et Docurnents du Saint-Siège, pubblicata per volere di papa Paolo VI, che di Pacelli era stato collaboratore, e affidata alle cure editoriali di quattro gesuiti: i padri Pierre Blet, Robert A. Graham, Angelo Martini e Burkhart Schneider (Actes et Documents du Saint-Siège relatifs à la Seconde Guerre mondiale, 11 voll., Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1965-1981). Altri studi sono stati portati a termine in questo senso. Dai documenti dell'archivio Segreto Vaticano si rileva l'avversione del pontefice verso Adolf Hitler e l'attenzione del futuro Pio XII verso gli ebrei attraverso la preghiera e le azioni segrete: il "silenzio apparente" e l'"azione segreta" sono dunque due locuzioni inscindibili per capire l'azione di Pio XII durante la seconda guerra mondiale.
Nessuno storico serio accuserebbe papa Pacelli di complicità con il nazismo sul versante ideologico, certamente era un germanofilo dichiarato, ma questo non vuol dire che era filo-nazista. Una parte della Chiesa si sentiva "vicino" al nazismo unicamente per l'espressione politica comune contro il comunismo.
Pio aveva due nemici, il nazismo e il comunismo; egli pensava che il primo avrebbe annientato il secondo. Con i nazisti Pio aveva concluso dei patti e contava di stipularne degli altri. Inoltre papa Pacelli, durante il suo pontificato, aveva primariamente a cuore gli interessi della Chiesa come istituzione, quindi innanzi tutto tutelare i cattolici, anche a costo di "qualche" mancanza verso i "fuori della fede", per cui venne a trovarsi in un conflitto di coscienza di fronte al nazismo e all'ebraismo. Queste sono probabilmente le ragioni del "doloroso" silenzio pubblico di papa Pacelli.
Sono convinto che lo stesso Pio XII ha avuto seri dubbi sulla saggezza o correttezza della sua politica di "imparzialità", in rapporto agli ebrei e a qualsiasi altra vittima dei nazisti, questo si deduce dal brevissimo testamento spirituale dello stesso pontefice: «Miserere mei, Deus, secundum (magnam) misericordiam tuam. Queste parole, che, conscio di esserne immeritevole ed impari, pronunciai nel momento, in cui diedi tremando la mia accettazione all'elezione a Sommo Pontefice, con tanto maggior fondamento le ripeto ora in cui la consapevolezza delle deficienze, delle manchevolezze, delle colpe commesse durante un così lungo Pontificato e in un'epoca così grave ha reso più chiare alla mia mente la mia insufficienza e indegnità. Chiedo umilmente perdono a quanti ho potuto offendere, danneggiare, scandalizzare con le parole o con le opere. [...] Non ho nemmeno bisogno di lasciare un "testamento spirituale", come sogliono lodevolmente fare tanti zelanti Prelati; poiché i non pochi atti e discorsi, da me per necessità di ufficio emanati o pronunziati, bastano a far conoscere, a chi per avventura lo desiderasse, il mio pensiero intorno alle varie questioni religiose e morali».
Anche se sacralizzare la Shoah mi sembra estremamente pericoloso, poiché potrebbe diventare una prigione culturale da cui non si può più uscire, niente può cancellare il senso dell'orrore di ciò che fu praticato nei campi di sterminio nazisti. Nessuno ha il diritto di cancellare dalla mente umana che l'uomo occidentale, l'uomo che si è sempre considerato civile, potesse arrivare a tanto. Nessuno è autorizzato a giustificare i silenzi di fronte a tali atrocità. Nessuno ha il diritto di strumentalizzare la morte di milioni di vite per tutelare gli interessi di parte. La verità è che tutti, e ripeto tutti, abbiamo la nostra parte di responsabilità, piccola o grande, in ciò che avvenne tra il 1933 e il 1945.
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"Hitler satanista e l'esorcismo del Papa", di Tornelli A. - in 30 Giorni, n. 1, gennaio 2002.
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"L'udienza al diavolo nazista", di Azzaro P., (intervista a padre Giovanni Sale) in 30 Giorni, n. 11, novembre 2003
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Roma città aperta. Settembre 1943 - giugno 1944, di Katz R. - Il Saggiatore, Milano, 2003
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Una questione morale. La Chiesa cattolica e l'Olocausto, di Goldhagen D. J. - Mondadori, Milano, 2003
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