Nonostante la firma dei Patti Laternensi, l'Azione Cattolica venne percepita
dal regime come un ostacolo alla fascistizzazione della gioventù italiana
MUSSOLINI E IL PAPA:
LA CHIESA SOTTO IL FASCISMO
(Seconda Parte)
di RENZO PATERNOSTER
Per il regime fascista i Patti Lateranensi rappresentarono un notevole successo propagandistico: Mussolini si presentò agli occhi degli italiani come l'artefice della conciliazione, l'uomo che era riuscito là dove i precedenti governi liberali avevano fallito. Anche la Santa Sede ottenne vantaggi significativi dall'accordo: in cambio della rinuncia al suo potere temporale, già di fatto perso più di sessant'anni prima, la Chiesa rafforzò notevolmente la sua presenza nella società. Critiche arrivarono dagli antifascisti, che considerarono gli accordi una grande vittoria morale del fascismo che ottenne la legittimazione.
Gli accordi del Laterano fecero assumere, teoricamente, all'Italia fascista quel carattere confessionista tanto desiderato dai pontefici romani e dalla loro gerarchia ecclesiastica. A testimonianza di ciò vanno ricordate l'opportune istruzioni che il regime diede alla magistratura e all'amministrazione nell'interpretare le leggi in senso favorevole al clero, ma anche le nomine di "commissioni amiche" destinate alle scuole private cattoliche. Mussolini ordinò anche di demolire gli edifici medioevali della Spina di Borgo, che ostacolavano la prospettiva dell'antica piazza progettata dal Bernini tra il 1656 e il 1667 e la vista della facciata della basilica vaticana di San Pietro. Al loro posto fu costruito uno stradone che dava un accesso trionfale alla piazza; e in onore della pace ritrovata tra la Chiesa universale e lo Stato italiano, la nuova strada si chiamò "via della Conciliazione".
Gli accordi del Laterano rappresentano indubbiamente un lavoro di alta politica diplomatica, tanto che alcuni accordi successivi a questo, che la Santa Sede stipulerà con altri Stati, rifletteranno grosso modo le disposizioni contenute in questa pattuizione. Il concordato firmato con la Spagna nel 1953 può servire come esempio, ma anche le disposizioni dettate nell'art. 11 dell'Accordo fondamentale firmato dalla Santa Sede e dallo Stato d'Israele nel 1993 sono di chiaro sapore italiano.
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Mussolini il giorno della firma dei Patti
Con gli accordi del Laterano si realizzava il disegno politico di papa Achille Ratti; ovvero, porre la Santa Sede in una posizione di sovranità che mettesse in rilievo la sua natura di soggetto di diritto internazionale alla pari degli altri Stati. I Patti lateranensi mettevano in chiaro che gli organi centrali della Santa Sede non erano collocati sotto alcuna influenza e sovranità nazionale, ma si trovavano incorporati nello Stato della Città del Vaticano, sotto la diretta responsabilità del pontefice, che diveniva al contempo anche capo del nuovo Stato. I patti rappresentarono, in qualche misura, la condanna del Risorgimento e la sconfessione del principio della separazione fra sfera civile e sfera religiosa, fra Stato e Chiesa.
Immediata conseguenza della stipulazione degli accordi del 1929, fu il massiccio apporto dei cattolici all'elezioni plebiscitarie del marzo dello stesso anno, avvenute su lista unica. Da queste votazioni doveva uscire il Parlamento italiano che avrebbe dovuto ratificare le pattuizioni firmate con la Chiesa.
Gli accordi con la Santa Sede erano serviti a Mussolini come strumento per dirigere le masse popolari nello Stato fascista e, ancor più, per contenere l'emancipazione di quelle rurali e affermare - sulla scia dell'universalismo pontificio - l'espansione nazionale. In pratica Mussolini era convinto che gli accordi sarebbero stati il primo passo per "fascistizzare" la Chiesa, per mettere il "distintivo" anche sulle anime.
Mussolini, alla prima assemblea quinquennale del regime, tenutasi a Roma nel teatro reale dell'Opera, il 10 marzo 1929, interpretò in questo modo gli accordi: «Accordi equi e precisi, creano tra l'Italia e la Santa Sede una situazione, non di confusione o di ipocrisia, ma di differenziazione e di lealtà. Io penso, e non sembri assurdo, che solo in regime di concordato si realizza la logica, normale, benefica separazione tra Chiesa e Stato, la distinzione, cioè, tra i compiti e le attribuzioni dell'una e dell'altro. Ognuno coi suoi diritti, coi suoi doveri, con la sua potestà, coi suoi confini. Solo con questa premessa si può, in taluni campi, praticare una collaborazione da sovranità a sovranità [.]. Abbiamo lealmente riconosciuto la sovranità della Santa Sede, non solo perché esisteva nel fatto; non solo per la quasi irrilevante esiguità del territorio richiesto, esiguità che non toglie nulla alla sua grandezza d'altra natura, ma per la convinzione che il Sommo Capo di una religione universale non può essere suddito di alcun Stato, pena il declino della cattolicità, che significa appunto universalità».
Anche alla Camera dei deputati, il 13 maggio dello stesso anno, tornò a giustificare ed interpretare i patti con la Chiesa: «Noi non abbiamo risuscitato il potere temporale dei Papi: lo abbiamo sepolto. Con il trattato dell'11 febbraio 1929 nessun territorio passa alla Città del Vaticano all'infuori di quello che essa già possiede e che nessuna forza al mondo e nessuna rivoluzione le avrebbe tolto. Non si abbassa la bandiera tricolore, perché là non fu mai issata [.]. Lo Stato fascista rivendica in pieno, il suo carattere di eticità: è cattolico, ma è fascista, anzi soprattutto esclusivamente fascista. Il Cattolicesimo lo integra, e noi lo dichiariamo apertamente, ma nessuno pensi, sotto la specie filosofica o metafisica, di cambiarci le carte in tavola». Concludendo il suo discorso, Mussolini lanciò il suo scontato presentimento: «Voi non vi spaventate, né mi spavento io, dicendo che degli attriti ci saranno, malgrado la separazione nettissima di ciò che si deve dare a Cesare e di ciò che si deve dare a Dio». In definitiva, nei disegni di Mussolini la conciliazione tra lo Stato e la Chiesa di Roma, doveva risolversi in una stretta subordinazione della Chiesa stessa ai fini dello Stato. Papa Pio XI, ovviamente, volle intenderla in maniera diversa.

Le relazioni fra lo Stato italiano e la Santa Sede non furono mai ottime, neanche durante i negoziati, e soprattutto
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San Pietro prima dell'apertura
di via della Conciliazione
all'indomani della conclusione degli Accordi. L'idillio Chiesa-fascismo era destinato ad avere breve durata: la Chiesa e lo Stato si ritrovarono ben presto in aperta concorrenza nel settore delle organizzazioni giovanili. Già la trasformazione del Ministero della Pubblica Istruzione in Ministero dell'Educazione Nazionale, alcuni mesi dopo i Patti Lateranensi, rimise in campo la questione del monopolio statale sulle direttive da dare all'istruzione scolastica. Si trattava più chiaramente di una ulteriore tappa di quella fascistizzazione della scuola che passava necessariamente anche attraverso ritocchi ed aggiustamenti all'impianto generale della riforma Gentile.
All'indomani degli accordi del Laterano, l'Azione Cattolica riprese quella vitalità, che pareva essersi spenta. Ma ciò, per il regime, costituiva un grosso problema. L'Azione Cattolica non solo faceva ombra all'Opera Nazionale Balilla (articolata nei "balilla", 8-12 anni; negli "avanguardisti", 12-18 anni; nei "Fasci giovanili",18-21 anni), ma, da parte del regime, si sospettava che in essa trovassero un ben mimetizzato rifugio transfughi del Partito Popolare, sindacalisti cattolici, antifascisti. Una "colonna" alternativa, insomma, sotto l'ombrello connivente del papato. Del resto l'Azione Cattolica aveva man mano esteso i suoi interventi al di fuori dei compiti strettamente religiosi, con iniziative sociali, attività culturali e ricreative. E, come era facile prevedere, il regime fascista reagì immediatamente a questa intromissione.
Già nel discorso pronunciato alla Camera dei deputati sui Patti Lateranensi, il 13 maggio 1929, Mussolini dichiarò apertamente che, per tutto il 1927, le trattative per la Conciliazione erano rimaste sospese proprio per la questione della gioventù, risolta, poi, secondo i propositi del Governo. «Un altro regime che non sia il nostro, un regime demo-liberale, un regime di quelli che disprezziamo, può ritenere utile rinunciare alla educazione delle giovani generazioni. Noi no. Su questo campo siamo intrattabili! Nostro deve essere l'insegnamento. Questi fanciulli devono essere educati nella nostra fede religiosa; ma noi abbiamo bisogno di integrare questa educazione, abbiamo bisogno di dare a questi giovani il senso della virilità, della potenza, della conquista; soprattutto abbiamo bisogno di trasmettere la nostra fede, le nostre speranze».
A queste intenzioni facevano eco quelle del pontefice che, parlando agli alunni del Collegio di Mondragone, aveva subito polemizzato sull'argomento dell'educazione, da lui e dalla Chiesa rivendicata come un inalienabile "diritto delle famiglie". Di rimando Mussolini aveva replicato al Senato: «Dire che l'istruzione spetta alle famiglie, è dire cosa al di fuori della realtà contemporanea. La famiglia moderna, assillata dalle necessità di ordine economico, vessata quotidianamente dalla lotta per la vita, non può istruire nessuno. Solo lo Stato, coi suoi mezzi di ogni specie, può assolvere questo compito. Aggiungo che solo lo Stato può anche impartire la necessaria istruzione religiosa, integrandola con il complesso delle altre discipline. Qual è, allora, l'educazione, che noi rivendichiamo in maniera totalitaria? L'educazione del cittadino».
Come se non bastasse, una circolare del presidente della federazione romana della Gioventù cattolica italiana, annunciò la costituzione di un segretariato nazionale operaio e di gruppi operai da affiancare ai circoli della Gioventù cattolica. Scopo di questi doveva essere quello di «curare la formazione tecnica dei soci operai, sviluppare le opere assistenziali, svolgere nel campo sociale ogni azione, che possa essere di aiuto, di incoraggiamento nelle diverse condizioni della vita operaia».
Fu allora che intervenne il direttorio del PNF, adunato a Roma il 9 giugno sotto la presidenza dello stesso Mussolini. Ci fu poco da discutere. Il direttorio votò un perentorio ordine: «Il Direttorio, portando il suo esame sulle recenti polemiche suscitate dal documentato atteggiamento, larvatamente o palesemente ostile, di alcuni settori dell'Azione Cattolica, mentre afferma il suo profondo e immutato rispetto per la Religione Cattolica, il suo sommo Capo, i suoi Ministri, i suoi Templi, dichiara nella maniera più esplicita che è fermamente deciso a non tollerare che sotto qualsiasi bandiera, vecchia o nuova, trovi rifugio o protezione l'antifascismo residuato e fin qui risparmiato; ordina ai dirigenti dei novemila fasci d'Italia di ispirare la loro azione a queste direttive, ricordando che i caduti per la Rivoluzione esigono che essa sia difesa inflessibilmente contro chiunque e a qualunque costo».

Il conflitto tra Stato e Chiesa raggiunse il punto massimo il 28 maggio 1931, con la chiusura da parte del governo fascista delle sedi dell'Azione Cattolica, da sempre oggetto di violenze e devastazioni. A questa misura seguì l'ordine di sciogliere tutte le organizzazioni cattoliche. Papa Ratti intervenne nel luglio 1931 con l'enciclica "Non abbiamo bisogno", in difesa dell'Azione Cattolica e contro la dottrina e la prassi fascista, bollata come «statolatria pagana».
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Il Papa al centro di un'immagine commemorativa
Riferendosi agli «attentati e misure» contro l'Azione Cattolica, che facevano «seriamente dubitare se gli atteggiamenti, prima benevoli e benefici provenissero soltanto da sincero amore e zelo di Religione», il pontefice parlò addirittura di «ingratitudine» del regime fascista nei confronti della Santa Sede: «Che se di ingratitudine si vuol parlare, essa fu e rimane quella usata verso la Santa Sede da un partito e da un regime, che, a giudizio del mondo intero, trasse dagli amichevoli rapporti con la Santa Sede, in Paese e fuori, un aumento di prestigio e di credito, che ad alcuni, in Italia e all'Estero, parvero eccessivi, come troppo largo il favore e troppo larga la fiducia da parte Nostra».
Ribadito il carattere unicamente religioso dell'Azione Cattolica, il Pontefice formulava anche un'accusa: «Non possiamo, Noi, Chiesa, Religione, fedeli cattolici (e non soltanto Noi) essere grati a chi, dopo aver messo fuori socialismo, massoneria, nemici Nostri (e non Nostri soltanto) dichiarati, li ha così largamente riammessi, come tutti vedono e deplorano, fatti più forti e pericolosi e nocivi quanto più dissimulati e, insieme, favoriti dalla nuova divisa. Di infrazioni al preso impegno si è non rare volte parlato; abbiamo sempre chiesto nomi e fatti concreti, sempre pronti a intervenire e provvedere; non si è mai risposto a tale Nostra domanda. Si sono sequestrati in massa i documenti in tutte le sedi dell'Azione Cattolica italiana, si continua (anche questo si fa) a intercettare e sequestrare ogni corrispondenza, che possa sospettarsi in qualche rapporto colle Associazioni colpite, anzi anche con quelle non colpite: gli oratorii. Si dica, dunque, a Noi, al Paese, al mondo, quali e quanti sono i documenti della politica agitata e tramata dall'Azione Cattolica con pericolo dello Stato. Osiamo dire che non se ne troveranno, a meno di leggere e interpretare secondo idee preconcette, ingiuste in pieno contrasto coi fatti e l'evidenza di innumerevoli prove testimonianze».
Il pontefice attaccò anche la concezione fascista della religiosità: «Abbiamo, infatti, vista in azione una religiosità, che si ribella alle disposizioni della Superiore Autorità Religiosa e ne impone o ne incoraggia l'inosservanza; una religiosità, che diventa persecuzione e tentata distruzione di quello che il Supremo Capo della Religione notoriamente più apprezza ed ha a cuore; una religiosità, che trascende e lascia trascendere ad insulti di parole e di fatto contro la Persona dei Padre di tutti i fedeli anno gridarlo abbasso ed a morte; veri imparaticci di parricidio. Somigliante religiosità non può in nessun modo conciliarsi con la dottrina e con la pratica cattolica, ma è, piuttosto, quanto può pensarsi di contrario all'una e all'altra».
La Santa Sede era comunque convinta che mentre col fascismo (e poi il nazismo) si poteva trattare (si veda anche il concordato firmato con la Germania di Hitler nel 1933), col comunismo invece ciò non era assolutamente possibile. Per questo il documento pontificio in sostanza non condannò il regime in quanto tale, ma solo i programmi che attaccavano o apparivano in contrasto con la fede e la dottrina cattolica. Il Papa era evidentemente troppo preoccupato delle conseguenze di una condanna diretta e, saggiamente, non abbandonò la sua tradizionale diplomazia. L'enciclica si concludeva, infatti, in questo modo: «Noi non abbiamo voluto condannare il partito e il regime come tale. Abbiamo inteso segnalare e condannare quanto nel programma e nell'azione di essi abbiamo veduto e constatato contrario alla dottrina ed alla prassi cattolica e quindi inconciliabile col nome e con la professione di cattolici. Crediamo poi di avere contemporaneamente fatto buona opera al partito stesso e al regime. Perché quale interesse ed utilità possono essi avere, mantenendo in programma, in un Paese cattolico come l'Italia, idee, massime e pratiche inconciliabili con la coscienza cattolica?».
Una prima reazione all'enciclica arrivò con un comunicato dell'Ufficio stampa del PNF: «Presi gli ordini da S.E. il Capo del Governo e Duce del Fascismo, è revocata la compatibilità fra l'iscrizione al Partito Fascista e l'iscrizione alle Associazioni dipendenti dall'Azione Cattolica». Il 14 luglio ebbe luogo a Palazzo Venezia, nel salone delle Battaglie, la riunione del Direttorio del Partito Fascista, sotto la presidenza dello stesso Mussolini. Al termine fu emanata una dichiarazione, dal tono assai vivace e categorico, nella quale alcune affermazioni della enciclica erano definite «vero e proprio appello allo straniero».
Ma da ambedue le parti giunsero consigli di moderazione. Sul Popolo d'Italia apparve un articolo di Arnaldo Mussolini, nel quale si prospettava non la denuncia del concordato, da molti fascisti richiesta, ma l'opportunità di «franche spiegazioni». Anche la stampa cattolica di colpo smise di pubblicare articoli in aperta polemica.

La ri-riconciliazione si verificò nello stesso 1931. Misteriose sono restate le procedure seguite in tali negoziati, né si seppe mai a chi furono affidati. Di fatto la ri-riconciliazione si tradusse in una spoliticizzazione dell'Azione Cattolica: questa era posta direttamente alle dirette dipendenze dell'episcopato e i suoi dirigenti non potevano appartenere a partiti avversi al regime. Si stabilì, inoltre, che gli ex popolari e gli antifascisti non avrebbero avuto posti direttivi nell'Azione Cattolica, e che la bandiera di quest'ultima sarebbe stata il tricolore.
Parlando della nuova conciliazione in un discorso rivolto ai rappresentanti dei direttorii di tutta Italia riuniti nella Sala Maddaloni di Napoli, Mussolini disse: «Poco dopo la firma dei Patti Lateranensi e del Concordato è sorto un conflitto con la Chiesa a proposito dell'Azione Cattolica e delle sue formazioni giovanili. Non è vero che quelle formazioni mi facessero paura, perché erano dei composti ibridi, qualche cosa come l'incrocio fra la pecora e la volpe. Ma mi infastidivano perché avrebbero potuto costituire un pericolo per il
"Poco dopo la firma dei Patti Lateranensi e del Concordato è sorto un conflitto con la Chiesa a proposito dell'Azione Cattolica..."
futuro e mi disturbavano per le continue beghe coi fasci. Perciò non ho esitato a scioglierle malgrado dubitassi che il provvedimento avrebbe provocato un conflitto col Papa. Ma dopo scoppiato il conflitto, ho compreso che bisognava fare la pace perché non potevo andare contro il sentimento religioso degli italiani. Avrei dovuto esasperare il contrasto? Provocare la partenza del Papa da Roma? Ed io so che vi era chi lo consigliava in tal senso. Ma ve lo immaginate, voi, un fuoruscito come il Papa? Senza contare che poi sarebbe tornato, come è tornato da Fontainebleau, come è tornato da Gaeta. Sarebbe tornato una terza volta! Non per niente ho studiato la storia!».
Anche il pontefice si mostrò soddisfatto, parlando della ripristinata pace nell'allocuzione del 24 dicembre. Dopo l'attrito arrivarono le riconoscenze. Il 9 gennaio 1932 Pio XI conferì a Mussolini l'ordine dello "Speron d'oro". L'11 febbraio, in occasione del terzo anniversario dei Patti Lateranensi, Pio XI ricevette il capo dello Stato italiano in Vaticano. Dal canto suo Mussolini, il 3 marzo, conferì al cardinale Eugenio Pacelli (futuro successore di Pio XI e papa col nome di Pio XII) il "Collare dell'Annunziata" (diventando "cugino" del Re).
Nel 1938 ci fu un altro scontro tra la Chiesa e il regime. Questa volta fu il Vaticano a provocarlo: in pieno contrasto con gli accordi del 1931, la Santa Sede annunciò la ricostruzione di un ufficio centrale per l'Azione Cattolica. Per dissipare la controversia, si giunse ad altri accordi che prevedevano anche il congelamento del movimento dei Laureati cattolici e la rinuncia del basco adottato dalla stessa Gioventù cattolica.
Morto Pio XI, uno dei primi atti del suo successore fu quello d'instaurare una commissione cardinalizia per la riforma della stessa Azione Cattolica.

Dopo alcuni anni di relativa calma, il progressivo avvicinarsi dell'Italia fascista alla Germania nazista raffreddò nuovamente i rapporti tra Santa Sede e fascismo. Il Vaticano riteneva pericolosa l'idolatria nazista sul mito della razza, dottrina poi esportata in Italia. Da parte della Santa Sede, comunque, non ci fu alcun pronunciamento ufficiale, in quanto papa Pio XI, il 10 febbraio 1939, morì improvvisamente alla vigilia del giorno in cui avrebbe dovuto pronunciare un discorso sulle condizioni della Chiesa in Italia all'assemblea dei vescovi italiani riuniti per l'occasione. Secondo la versione ufficiale, il pontefice
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Mussolini al centro di un'immagine commemorativa
venne a morte per attacco cardiaco. In un memoriale pubblicato nel 1972 da Paris Match e Panorama, attribuito al cardinale Tisserant, si afferma invece che il pontefice fosse stato assassinato per ordine di Mussolini. Il duce temeva che il discorso che il papa avrebbe tenuto all'episcopato contenesse un'eventuale scomunica. Autore del delitto, sempre secondo il memoriale, fu il padre di Claretta Petacci, il professore Francesco; un'iniezione di veleno l'arma.
Il testo del discorso che Pio XI avrebbe tenuto in Vaticano, nell'udienza ai vescovi italiani, fu pubblicato quasi integralmente per ordine di papa Giovanni XXIII da L'Osservatore Romano il 9 febbraio del 1959. Esso non conteneva alcuna scomunica; vi si leggeva unicamente una protesta contro il trattamento riservato alla Chiesa dal regime, equiparato allusivamente alla persecuzione di Nerone; inoltre, c'era una deplorazione per il continuo travisamento che la stampa di regime andavano facendo ai danni dell'operato della Santa Sede: «Ci si occupa, e non soltanto in Italia, il più spesso per alterale in falso senso ed anche inventando di sana pianta per farCi dire delle vere ed incredibili sciocchezze ed assurdità. C'è una stampa che può dire tutto contro di Noi e contro le cose Nostre, anche ricordando ed interpretando in falso e perverso senso la storia vicina e lontana della Chiesa».

Nelle vicissitudini della Chiesa sotto Mussolini è facile constatare che, nel grande pollaio italiano due galli erano troppi. Ognuno voleva cantare con la propria musica, servendosi degli strumenti dell'altro. Per Mussolini era indispensabile l'appoggio dei cattolici, in quanto - come la storia insegna - è più difficile conservare il potere che conquistarlo; per la Chiesa era invece indispensabile dimostrarsi permissiva nei confronti del regime, per ottenere solide garanzie di convivenza e, nello stesso tempo, sviluppare il tentativo d'impedire l'omologazione del cattolicesimo italiano al modello vittorioso del fascismo.
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BIBLIOGRAFIA
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