Strumenti associativi ma anche organizzazioni partitiche in nuce, i club bretone, dei giacobini, dei foglianti e dei girondini sancirono la fine degli antichi ordini nella Francia di ancien régime. Parola d'ordine? "Ogni testa un voto". Ma non mancarono scissioni, aspre rivalità personali e processi sommari
I CLUB CHE
RIVOLUZIONARONO LA FRANCIA
di ROBERTO POGGI
Il 5 maggio 1789, con un fastoso cerimoniale che sottolineava le differenze di rango anziché sfumarle, furono inaugurati a Versailles gli Stati Generali. Dopo il discorso di apertura pronunciato da Luigi XVI, i lavori si impantanarono per oltre un mese sulla questione della verifica dei poteri.
Il terzo stato premeva affinché tale verifica fosse fatta in comune dai tre ordini, con l'intento di porre le premesse per una fusione degli ordini stessi in un'unica assemblea, in cui il tradizionale principio del voto per ordine, che offriva alla nobiltà ed al clero un incolmabile vantaggio politico, avrebbe potuto essere superato con facilità a favore del principio del voto per testa.
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Fallito ogni tentativo di compromesso, il 10 giugno 1789, il terzo stato, su proposta di Sièyes, invitò la nobiltà ed il clero a confluire nel suo seno. Alcuni esponenti del clero accettarono l'invito che fu invece ignorato dalla nobiltà. Al fine di enfatizzare la dissoluzione della suddivisione in ordini, l'assemblea del terzo stato assunse la denominazione di assemblea nazionale e, nella riunione tenutasi il 20 giugno nella sala della pallacorda, manifestò con un giuramento la propria volontà di procedere all'approvazione di una costituzione.
Di fronte all'insubordinazione del terzo stato, il re dichiarò, il 23 giugno, di essere disposto a garantire le libertà individuali e la libertà di stampa e a riconoscere agli Stati Generali il diritto di consentire le imposte e i prestiti. Tuttavia, non imponendo l'eguaglianza fiscale, serbando il silenzio sull'accesso alle cariche pubbliche e, soprattutto, sottraendo al voto per testa alcuni temi cruciali, tra cui il regime signorile e l'organizzazione stessa degli Stati Generali, irritò l'assemblea nazionale e legò la propria immagine alla ostinata conservazione dell'Antico Regime.
I deputati del terzo stato rimasero irremovibili anche di fronte alle velate minacce di scioglimento dell'assemblea; rifiutarono sia di abbandonare il progetto di costituirsi in assemblea costituente, sia di ristabilire la suddivisione in ordini.
Constatata la fermezza del terzo stato e l'impossibilità di un immediato ricorso alla forza, il re dovette cedere e invitò la nobiltà e il clero a confluire nell'assemblea nazionale.
Il giuramento della pallacorda da un lato fece crollare negli ambienti di corte l'illusione di poter ristabilire la suddivisione in ordini e di circoscrivere le riforme al terreno fiscale, dall'altro accelerò il delinearsi dei gruppi politici. L'affermazione del principio "ogni testa un voto" impose all'azione politica rivoluzionaria la creazione di centri di aggregazione, di dibattito e di confronto che fornissero una struttura alla dialettica parlamentare.

Il club bretone fu uno dei primi gruppi politici ad affacciarsi sulla scena della rivoluzione francese. Esso nacque dalla decisione della delegazione del Terzo Stato di Bretagna (44 deputati) di riunirsi come "camera provinciale" per concertare l'azione politica prima di partecipare alle sedute degli Stati Generali. Nella genesi del club bretone si intrecciarono la volontà di rinnovamento politico ed il richiamo alla difesa dei privilegi concessi alle comunità ed alle province dalla monarchia assoluta. Uomini come Le Chapelier, Laujuinais, Glezen erano mossi dal desiderio di affermare gli interessi del Terzo Stato attraverso il riconoscimento dei principi della deliberazione comune e del voto procapite; al tempo stesso però erano attenti a tutelare accuratamente i tradizionali diritti e le franchigie della Bretagna.
Il club bretone operò quindi come un gruppo di pressione a difesa degli interessi della Bretagna; non ebbe una solida struttura organizzativa, la sua vocazione non fu né di elaborare né tanto meno di rappresentare un corpo di dottrine, si sforzò piuttosto di creare la più ampia solidarietà tra i deputati della Bretagna.
La graduale apertura del club a patrioti estranei alla Bretagna e a qualche nobile liberale non contribuì a chiarirne l'orientamento politico. Dal maggio all'ottobre del 1789 la sua linea politica si stabilì di volta in volta in relazione a ciascuna scelta politica, non dipese da un progetto o da un modello, ma dall'obiettivo di mobilitare forze, di intimidire gli avversari e di creare consenso.

Nell'ottobre 1789, dopo il trasferimento della corte
da Versailles a Parigi, il club bretone fissò la sua sede nella biblioteca del convento dei domenicani, detti giacobini, in rue Saint Honoré ed assunse il nome di "Società degli amici della costituzione". Il cambio di sede e la nuova denominazione ufficiale non furono le uniche novità. Pur rimanendo vaghi i suoi contorni politici, il club dei giacobini, come ben presto iniziò ad essere chiamato, si impegnò in un notevole sforzo organizzativo. Per ampliare il numero dei suoi soci ridusse la quota d'iscrizione a 24 lire annue, pagabili in rate mensili o trimestrali, e cercò di stabilire saldi legami con le società patriottiche che, sul suo esempio, andavano formandosi in provincia. Nei primi mesi del 1790 i club sorti spontaneamente in città come Digione, Lilla, Grenoble e Marsiglia inviarono in rue Saint Honoré la propria richiesta di affiliazione. I giacobini di Parigi non si lasciarono sfuggire l'occasione di coinvolgere la
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Robespierre: con Marat uno
dei massimi esponenti giacobini
borghesia di provincia nei dibattiti politici della capitale: diedero ampia pubblicità al loro statuto, inviarono ai quattro angoli del Paese i propri attivisti per fondare e organizzare le sezioni locali. Pur favorendo in ogni modo il coinvolgimento politico della provincia, la società-madre di Parigi tenne tuttavia a sottomettere gli affiliati a una stretta regolamentazione. La legittimità giacobina fu dispensata con parsimonia, fu accordata a una sola società per comune, non senza la raccomandazione di un deputato dell'Assemblea nazionale o di un membro del club parigino.
L'espansione della Società fu comunque rapidissima: nell'agosto 1790 i circa 1200 giacobini di Parigi potevano già contare sull'appoggio di circa 150 club provinciali, numero destinato a raddoppiarsi nell'arco di pochi mesi. La passione tipicamente settecentesca per i club e le società di pensiero ebbe un ruolo fondamentale nella diffusione delle società giacobine sul territorio.
Fin dal loro nascere i giacobini non furono immuni dall'influenza della cultura massonica da cui trassero il gusto del rituale e della simbologia arcana, innestando il messaggio della politica rivoluzionaria in emblemi massonici come l'occhio di sorveglianza e la livella del muratore, simbolo di eguaglianza. Queste evidenti influenze non devono tuttavia trarre in inganno: i giacobini aborrivano la segretezza e concepivano i loro club come luoghi di proselitismo e di pubblica moralità e non certo come una setta per iniziati.
Anche nell'aspetto esteriore i club giacobini erano una via di mezzo tra una chiesa e una scuola. Spesso avevano sede in monasteri abbandonati, talora in edifici governativi o addirittura in piccoli teatri. L'arredamento prevedeva quasi sempre una tribuna per gli oratori, collocata su di una predella non troppo alta sulla quale trovavano posto anche i dirigenti della società. I non iscritti erano ammessi alle riunioni, ma venivano separati dagli iscritti mediante una bassa balaustra o un cordone teso da una parete all'altra nel senso della larghezza. Le pareti erano ornate con i simboli della fratellanza: busti in gesso di esemplari figure dell'antichità quali Catone o Bruto, accanto all'effigie di eroi più recenti come Jean-Jacques Rousseau, non potevano mancare. Fra un busto e l'altro pendevano copie incorniciate della Dichiarazione dei diritti dell'uomo, affiancate da stampe che rappresentavano le grandi giornate rivoluzionarie.
Nei club era la parola a dominare: discorsi, dibattiti, letture critiche delle leggi offrivano agli oratori più abili e virtuosi la possibilità di mettersi in luce. Ogni club aveva il suo "divo" che emulava nelle espressioni di patriottica indignazione e di eloquenza ciceroniana gli stili retorici concorrenti di Mirabeau (focoso), di Barnave (vivace), di Robespierre (logico-sentimentale).
L'estrazione sociale degli aderenti ai club giacobini era in linea di massima la stessa degli ufficiali della Guardia nazionale: professionisti, medici, avvocati, scrittori, giornalisti, commercianti, funzionari pubblici e, seppur in misura minore, artigiani. La quota di iscrizione annuale di 24 lire, cifra non troppo alta, ma neppure troppo bassa, lasciava spazio alle società popolari che facevano appello agli strati sociali più bassi, esclusi dal diritto di voto su base censitaria, ai lavoratori dipendenti e alle donne.
I club dei giacobini, primo fra tutti il quello parigino di rue Saint Honoré, furono un crogiolo politico da cui scaturirono le diverse formazioni politiche destinate ad occupare la scena rivoluzionaria. Furono gli avvenimenti, le prese di posizione, gli scontri personali a determinare le scissioni, a rimodellare gli schieramenti e a condurre i giacobini dalla originaria eterogeneità politica verso un'omogeneità che consentiva la convivenza di liberali e democratici, monarchici e repubblicani.

Nel giugno del 1791, la precipitosa fuga del re, conclusasi a Varennes, fece emergere profonde ed insanabili divergenze politiche in seno al club dei giacobini. Una agguerrita minoranza della società parigina si ostinò a non accettare la finzione del rapimento del re approvata dall'Assemblea Nazionale nel tentativo di salvare l'assetto monarchico-costituzionale, compromesso dalla maldestra fuga di Luigi XVI.
Contro questa minoranza, guidata da Robespierre, ormai convinto della necessità di uno sbocco repubblicano, nel luglio del 1791, alla vigilia dei disordini del Campo di Marte, gli elementi più moderati disertarono rue Saint Honorè. Barnave, Duport, Lameth, imitati dalla quasi totalità dei deputati affiliati, si trasferirono a pochi passi dalla società madre, nella chiesa del convento dei foglianti, adiacente alla sala del maneggio, sede dell'Assemblea. Questi dissidenti non intendevano in realtà fondare una nuova società, ma trasferire ai foglianti la "Società degli amici della costituzione" della quale erano stati i fondatori. Si trattò dunque di una scissione di maggioranza e non di una epurazione.
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Brissot, giornalista, leader girondino
Scopo dei foglianti era stabilizzare la rivoluzione, mettendo un freno alle rivendicazioni democratiche e repubblicane che, dopo il crollo di credibilità della monarchia, andavano acquistando forza. Essi concepirono una complessa manovra politica tendente da un lato a neutralizzare i monarchici intransigenti alleandosi con la destra moderata; dall'altro ad isolare, a sinistra, i democratici dalla massa dei deputati patrioti, annientando così l'influenza giacobina che minacciava la legittimità e l'autonomia dell'Assemblea nazionale. Tuttavia, senza il pieno appoggio della corte, pavida e disorientata, incapaci di restaurare presso l'opinione pubblica il prestigio del progetto monarchico costituzionale, i foglianti si trovarono ben presto isolati ed indeboliti.
Il gruppo dei giacobini rimasto in rue Saint Honoré spostò il suo asse politico a sinistra, verso l'alleanza con il movimento popolare. Robespierre, con l'aiuto di Buzot e di Pétion, riuscì nell'arco di poche settimane a riconquistare saldamente il controllo dei club di provincia che inizialmente avevano aderito alla scissione dei foglianti. Egli, dando la prima grande prova della sua abilità politica, impose ai transfughi foglianti il marchio della diserzione e dell'infamia, e si schierò contro a favore del suffragio universale, che mai prima di allora era stato la bandiera dei giacobini. Entro breve tempo oltre 500 club, persuasi dalla politica di Robespierre che si presentava come l'incarnazione della virtù patriottica e rivoluzionaria del popolo sovrano, rientrarono nell'orbita della società madre di rue Saint Honoré; meno di 100 club restarono invece legati ai foglianti.
Alla riconquista dei club seguì il rafforzamento dei canali di controllo sulla periferia del movimento giacobino; venne costituito uno speciale comitato di sorveglianza incaricato di verificare la pronta adesione delle società affiliate alle direttive provenienti da Parigi. Dopo questa riorganizzazione, il club dei giacobini perse la sua vocazione di centro di discussione per preparare il lavoro dell'Assemblea Costituente per diventare sempre più una sorta di controassemblea, cioè un centro politico autonomo capace di assumere il ruolo di sede politica della rivoluzione stessa.
Uno dei momenti cruciali dello scontro tra foglianti e giacobini si verificò nel maggio del 1791 attorno alla questione della rieleggibilità dei membri della Costituente alla successiva legislatura. La posta in gioco era stabilire se la sede legittima della rivoluzione dovesse essere l'assemblea oppure il club. La posizione dei foglianti, favorevoli alla rieleggibilità al fine di ribadire la centralità dell'Assemblea, venne sconfitta e il club dei giacobini vide rafforzarsi il suo ruolo politico.
Nell'Assemblea Legislativa, insediatasi nell'ottobre del 1791, i foglianti erano ancora numericamente rilevanti, si dimostrarono però incapaci, non potendo fare leva sul club dei giacobini e sulla sua ramificazione, di una incisiva azione politica. Pertanto, assistettero apatici all'ascesa dei girondini e finirono per abbandonare la scena politica prima di esservi costretti dall'esilio o dalla ghigliottina. Furono gli ultimi moderati della rivoluzione.

A partire dalla fine del 1791, la sinistra, ancora unita nella lotta contro i foglianti al fine di ridurre il peso dell'autorità regia, iniziò a subire, sia all'interno dell'Assemblea Legislativa, sia all'interno del club dei giacobini, l'ascendente di un gruppo di uomini nuovi: i girondini. A capo del gruppo si posero Jacques-Pierre Brissot, deputato di Parigi, giornalista dal passato equivoco, e Pierre-Victurnien Vergniaud, il più noto dei deputati della Gironda.
Il termine girondini ebbe un battesimo tardivo. Nel lessico rivoluzionario comparivano piuttosto termini come "brissotini" oppure "rolandisti", dal nome del deputato Jean-Marie Roland; Robespierre usava spesso in senso dispregiativo l'espressione "fazione girondina". Fu il poeta Lamartine (1790-1869) a coniare, molto tempo dopo la rivoluzione, il termine girondini, oggi entrato nell'uso storiografico.
Il gruppo brissotino proveniva dalla piccola borghesia istruita ma povera degli avvocati e dei giornalisti. Accettava la democrazia politica a patto che essa rispettasse la ricchezza e consacrasse gli uomini d'ingegno, era animato dall'entusiasmo e soprattutto dall'ambizione, subiva perciò il fascino dei salotti mondani e dei centri di potere. Queste sue inclinazioni lo portarono ad intessere relazioni con la borghesia d'affari, con gli armatori, con i banchieri i quali consideravano con favore la prospettiva di una guerra in cui i fornitori avrebbero fatto lauti guadagni, purché essa, restando limitata al continente, non compromettesse la prosperità dei porti. Marsiglia, Nantes, Bordeaux, centri vitali dell'economia francese dell'epoca, svolsero un ruolo di primo piano nella politica girondina che si ispirò ad una difesa, a tratti tenace, dei principi del liberalismo economico.
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Luigi XVI
Le pressioni della borghesia affaristica, unite alla volontà politica di consolidare la rivoluzione, da un lato colpendo l'aristocrazia emigrata, dall'altro costringendo il re e i monarchici a uscire allo scoperto cessando ogni finzione costituzionale, spinsero i girondini a farsi promotori della guerra contro l'Austria.
Nell'aprile del 1792, la dichiarazione di guerra annunciò una nuova frattura all'interno dei club dei giacobini e pose tutte le società affiliate di fronte alla scelta tra Brissot e Robespierre. Quest'ultimo infatti, dopo qualche esitazione, si schierò nettamente contro la guerra ed adottò, da una posizione di minoranza all'interno del club di rue Saint Honoré, un atteggiamento critico verso tutta la politica girondina, accusata di ambiguità e di cedimento di fronte agli interessi della borghesia d'affari e della corte.
Il partito girondino, essendosi identificato con la scelta della guerra, vide oscillare in relazione alle vittorie e alle sconfitte riportate dall'esercito rivoluzionario il numero dei suoi seguaci e dei suoi sostenitori, e di riflesso la consistenza dell'opposizione della sinistra giacobina.
Il fossato tra i girondini e la sinistra giacobina, incarnata da Robespierre e da Marat, si approfondì ulteriormente dopo la "rivoluzione" del 10 agosto 1792. Già nell'ottobre dello stesso anno la sinistra giacobina diede prova di aver superato il suo iniziale isolamento, riuscendo ad ottenere l'espulsione di Brissot dal club di rue Saint Honoré. Il voto contro il leader girondino fu accompagnato dall'invio a tutte le società affiliate di un comunicato diffamatorio in cui la vita e l'impegno politico di Brissot venivano ricostruiti a partire dal suo ruolo di cospiratore. Nonostante i duri attacchi politici e personali l'influenza dei girondini sui club di provincia rimase forte, Robespierre e i suoi seguaci dovettero, almeno inizialmente, accontentarsi di assumere saldamente il controllo soltanto della società madre di Parigi. Il processo a Luigi XVI arroventò ancor più lo scontro. La posizione girondina secondo cui la condanna a morte del re doveva essere approvata da un voto popolare offrì ai giacobini l'occasione di rinnovare e rafforzare le loro sdegnate accuse. In un momento politico in cui la neonata repubblica rivoluzionaria era impegnata in una lotta per la sopravvivenza, i giacobini non ebbero difficoltà ad additare gli scrupoli dei girondini come un'espressione di pavidità, di acquiescenza verso la monarchia in cui si poteva intravedere addirittura l'ombra del tradimento della rivoluzione. I sospetti diffusi a piene mani dai giacobini sulla lealtà verso la repubblica e sulla moralità dei girondini trovarono, nell'aprile del 1793, una clamorosa conferma nel tradimento del generale Dumouriez, amico e protetto di Brissot.
Nelle settimane successive, lo scontro tra i due partiti andò trasformandosi in un duello all'ultimo sangue. Furono i girondini a prendere l'iniziativa e a sferrare il primo attacco. Sfruttando l'assenza dei deputati in missione, ottennero dalla Convenzione che Marat fosse deferito al Tribunale rivoluzionario con l'accusa di aver inneggiato nei suoi scritti all'avvento della dittatura. Questa iniziale vittoria si tramutò per i seguaci di Brissot e di Vergniaud in una durissima sconfitta.
Marat, all'epoca presidente del club giacobino, nel frattempo ribattezzato "Società degli amici della libertà e dell'eguaglianza", si difese con grande abilità, sfruttando la sua oratoria e la sua popolarità. Non gli fu difficile dimostrare come l'iniziativa girondina fosse un deliberato attacco politico per colpire i giacobini in uno dei suoi leader più carismatici. La sua piena assoluzione offuscò la credibilità dei girondini ed accrebbe la popolarità dei giacobini ponendo le premesse per la loro presa del potere.

Il crollo della residua popolarità dei girondini si verificò all'inizio di maggio del 1793, quando essi decisero di battersi contro la proposta, invocata a gran voce dalla base rivoluzionaria, di adottare un calmiere dei prezzi dei cereali. Senza successo essi richiamarono il principio della libertà economica e fecero notare come un tetto massimo dei prezzi dei cereali, per quanto ben calcolato, avrebbe reso più difficili gli approvvigionamenti.
Nell'autunno del 1793,
al termine
di un processo
sommario, i capi
del partito girondino
salirono sul patibolo
Il 2 giugno 1793, i giacobini, facendo leva sul malcontento popolare alimentato dal caroviveri e dalle cattive notizie provenienti dal fronte, organizzarono una sollevazione. La Convenzione fu circondata da un'immensa folla di dimostranti armati e costretta a consegnare i deputati girondini. Nell'autunno dello stesso anno, al termine di un processo sommario, i capi del partito girondino salirono sul patibolo.
Dopo la "giornata" del 2 giugno, il potere passò nelle mani dei giacobini che, pur di salvare la rivoluzione dai suoi nemici interni ed esterni, non esitarono ad esercitare una dittatura rivoluzionaria fondata sul terrore. L'adozione del calmiere dei prezzi per placare il malcontento popolare, l'intervento della mano pubblica nell'economia per coordinare lo sforzo bellico, il ricorso al Tribunale rivoluzionario per eliminare gli oppositori e infondere alla Francia la disciplina indispensabile alla sua salvezza, furono i capisaldi della politica giacobina, di cui Robespierre fu uno dei principali artefici.
La condanna a morte di Robespierre, Saint-Just e Couthon, nel luglio del 1794, non pose immediatamente fine al club dei giacobini; i termidoriani furono cauti su questo terreno. Soltanto nel novembre del 1794, grazie alla pressione dell'opinione pubblica contro i simboli della dittatura rivoluzionaria e del terrore, la Convenzione trovò il coraggio di ordinare la chiusura del club dei giacobini di Parigi. L'anno successivo, un decreto ordinò di trasformare "l'immobile dei giacobini - Saint Honoré" in un mercato pubblico, sotto il nome di "Mercato del 9 Termidoro".
BIBLIOGRAFIA
  • Dizionario critico della rivoluzione francese, a cura di F. Furet e M. Ozouf - Bompiani, Milano 1988
  • Cittadini. Cronaca della rivoluzione francese, di S. Schama - Mondadori, Milano 1989
  • La rivoluzione francese, di G. Lefebvre - Einaudi, Torino 1988