I flussi migratori verso l'Europa non sono una casualità storica ma il frutto di un progetto messo a punto nei primi anni '70. A organizzarli, potenti gruppi per l'amicizia euro-araba e deboli istituzioni europee. È la tesi sostenuta da una studiosa britannica, che denuncia la progressiva perdita di indipendenza politica del Vecchio Continente. Vi offriamo un estratto dei capitoli più significativi del suo saggio, intitolato Eurabia e pubblicato da Lindau.
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Da oltre trent’anni l’Europa “pianifica” con i paesi della Lega Araba la fusione delle due sponde del Mediterraneo in un nuovo agglomerato che Bat Ye’or, studiosa inglese (di origine egiziana) indagatrice dello status delle comunità etnico-religiose nei paesi islamici, ha suggestivamente denominato “Eurabia”. La tesi è sviluppata nell’omonimo volume (Bat Ye’or, Eurabia. Come l’Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita, Lindau, Torino 2007, pp. 414, euro 24,00) in questi giorni in libreria. Secondo l’autrice, questo progetto, perseguito con coerenza attraverso il cosiddetto Dialogo Euro-Arabo, ha portato alla graduale trasformazione del continente europeo in un ibrido asservito alle esigenze politiche e agli standard culturali del mondo arabo.
Tutto ha avuto inizio con la crisi petrolifera del 1973 e con l’ambizioso progetto, soprattutto francese, di costruire un asse geopolitico e ideologico alternativo a quello americano e atlantico. In un arco di tempo relativamente breve l’Europa ha sacrificato la sua indipendenza politica, oltre che i suoi valori culturali e spirituali, in cambio di garanzie (in parte illusorie) contro il terrorismo e di qualche vantaggio economico.
Sulla base di una documentazione l’autrice ricostruisce le attività e gli strumenti che hanno prodotto questa deriva, dagli anni del pieno funzionamento del Dialogo Euro-Arabo alle scelte sul piano della politica estera (adozione di un’ideologia antisemita e antisionista, demonizzazione di Israele e degli USA, sdoganamento del terrorismo islamico e di Arafat), fino ai recenti tentativi di occultamento della verità seguiti all’attentato dell’11 settembre e ai suoi pendant sul suolo europeo (attentati di Madrid e Londra, caso delle caricature danesi).
Di seguito proponiamo, per gentile concessione dell'editore Lindau, tre capitoli di Eurabia. Vi sono descritte le origini storiche del jihad, gli orientamenti politico-culturali alla base delle relazioni tra mondo arabo e Occidente a partire dagli anni Settanta e i contemporanei progetti di diffusione della cultura araba e della religione islamica in Europa.
Capitolo 2
Il retroterra storico
Al centro della civiltà islamica fin dalle origini, quella del jihad o «guerra santa» è una dottrina giuridico-teologica elaborata secondo un preciso schema legale e religioso da giuristi e teologi musulmani. Essa distingue il dar al-islam o territorio dell’islam, in cui esso regna, dal dar al-harb, il territorio della guerra popolato dagli infedeli, nel quale la guerra è obbligatoria finché essi rifiuteranno di riconoscere la sovranità islamica. Un terzo territorio, il dar al-suhl, è quello in cui gli infedeli ottengono, in cambio del pagamento di tributi, la cessazione (provvisoria) delle ostilità, impegnandosi inoltre a non ostacolare l’espansione dell’islam.
Nonostante alle porte dell’Europa esistano vasti territori islamizzati e indottrinati dall’integralismo, e nonostante milioni di persone provenienti da essi si siano insediate nelle città europee, i leader politici europei non sembrano affatto turbati dalla cosa. Al contrario, se ne rallegrano e non vi scorgono che i positivi risvolti di quella strategia di simbiosi e unificazione delle due sponde del Mediterraneo che hanno concepito e assiduamente perseguono da trent’anni a questa parte. Ma, poiché hanno dimenticato di informarne i loro elettori e connazionali, questi non provano altrettanto entusiasmo e serenità di fronte ai quotidiani episodi di intifada, agli omicidi per bestemmia, al degrado dei beni pubblici e all’insicurezza. Alle prese con la disoccupazione, ascoltano sbalorditi i pezzi grossi dell’Unione Europea, responsabili delle loro sventure, invocare, come al Forum economico di Davos (gennaio 2006), un ulteriore aumento delle quote di immigrati.
Rimanere ciechi e sordi di fronte all’ostilità che emana da questi vicini, e che i satelliti ritrasmettono nelle periferie d’Europa, significa agire contro i propri interessi vitali. Ma imputarla a dei capri espiatori – la politica americana e l’ostinazione di Israele – è un insulto alla storia e alla verità. Questa avversione si collega infatti, senza alcuna possibilità di equivoco, a una cultura dell’odio nei confronti degli infedeli. Certo, molti musulmani condannano le concezioni dell’islam più radicale, e vi sono anche parecchi che fingono di ignorarle. Ma, per quanti ne costituiscono il bersaglio, sarebbe un suicidio e un crimine negare la realtà di tale minaccia e l’indottrinamento della maggior parte delle popolazioni musulmane e dei leader religiosi presenti nei 56 stati islamici e nell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese), tutti rappresentati in seno all’Organizzazione della Conferenza Islamica (OCI). Del resto, le elezioni palestinesi del gennaio 2006 hanno dimostrato che la democrazia si riveste dei colori islamici e jihadisti non soltanto a Gaza, ma anche nel dar al-isam. L’ossequiosità dell’Europa e la sua politica tesa a indebolire Israele, a screditare l’America e a occultare le persecuzioni dei cristiani in terra islamica non contribuiscono certo ad arginare quest’odio, che ha le sue radici nella storia e nella tradizione.
Il jihad, infatti, è il cuore della storia e della civiltà islamica. Da quando questa dottrina fu elaborata per la prima volta dalla giurisprudenza nell’VIII e IX secolo, non è stata mai più messa in discussione. Negli ultimi anni alcuni eruditi musulmani modernisti, per lo più residenti in Occidente, hanno criticato l’applicazione delle teorie jihadiste alla nostra epoca: per esempio Bassam ßibi, di origine siriana, docente di relazioni internazionali all’Università di Göttingen, è autore di una penetrante critica dell’islam; Ao‘ayb Bin aayh, muftì di Marsiglia, si è schierato a favore di una desacralizzazione della shari’a, ma ha controbilanciato questa visione progressista con l’antisionismo; lo shaikh ‘Abdul Hadi Palazzi, imam filoisraelita di Milano, ostile ad Arafat e a Hamas, sostiene tuttavia che il jihad non è che una lotta di carattere spirituale.
Esiste però una critica ben più violenta, formulata da pensatori e intellettuali – uomini e donne – di origine musulmana, che hanno il coraggio di rischiare la vita per difendere i propri ideali umanitari. Sono troppo numerosi per essere citati tutti, ma si può ricordare l’ex musulmano ’Ibn Warraq, i cui studi sulle fonti storiche, sull’origine dell’islam e sulla sua diffusione costituiscono un prezioso contributo. Ma queste tendenze riformiste restano marginali, mentre le prescrizioni giuridiche del jihad conoscono una nuova fioritura sotto l’impulso di guide come lo shaikh Yasuf ’al-Qaradhawi, leader spirituale dei Fratelli Musulmani e del Consiglio Europeo per la Fatwa e la Ricerca, o lo shaikh Muhammad Sayyid ’Al-Tantawi, grande imam dell’Università di Al-Azhar.
Questi giuristi ritengono che la guerra dichiarata a Saddam Hussein nel 2003 costituisca un attacco degli infedeli alla totalità della ummah, la comunità islamica, e ricordano che le leggi del jihad prescrivono, in tali situazioni, il reclutamento di tutti i musulmani. Inoltre, il Centro di Ricerca Islamica di Al-Azhar (Egitto) ha pubblicato un comunicato, approvato da ’Al-Tantawi, in cui si sottolinea che il jihad diviene un obbligo personale per ogni musulmano non appena una terra islamica viene attaccata, «perché [altrimenti] la nostra nazione musulmana subirà una nuova crociata scatenata contro la sua terra, l’onore, la fede e la patria».
L’appello al jihad è venuto anche dal gran muftì di Siria Ahmed Kuftaro: «Io invito i musulmani, ovunque essi siano, a usare tutti i mezzi possibili per ostacolare questa aggressione, comprese le azioni suicide contro gli invasori americani, britannici e sionisti». Nel suo libro Onward Muslim Soldiers [Avanti, soldati musulmani], Robert Spencer cita numerosi appelli a un jihad globale che parta dai paesi arabi, dall’Europa, dalle Filippine, dall’Indonesia e dalla Malaysia. Più recentemente Patrick Sookhdeo, nel suo libro Understanding Islamic Terrorism, traccia un preciso quadro dei fondamenti tradizionali e moderni del jihad, delle sue interpretazioni e applicazioni nel mondo islamico e in Europa. Esaminando la corrente critica modernista e la sua opposizione, ricorda che perfino lo shaikh ’Al-Tantawi «insegna che ai musulmani è lecito combattere anche in altri paesi contro i non musulmani che disapprovano o disprezzano la religione islamica o i suoi seguaci».
Quindi, ovunque l’ideologia del jihad e i suoi precetti non siano stati respinti, i musulmani impostano le proprie relazioni con i non musulmani alla luce del quadro concettuale del jihad. Nonostante i numerosi appelli alla guerra santa lanciati dalle capitali islamiche e, talora più discretamente, da quelle europee, pochi occidentali ne realizzano la portata. Gli analisti ingannano deliberatamente l’opinione pubblica, adducendo il pretesto delle Crociate per porre su un piano di parità morale islam e cristianesimo e placare i legittimi timori degli europei. Fingono di ignorare che il jihad, in quanto ideologia e prassi, è esistita ininterrottamente per quattro secoli già prima delle Crociate, in Asia, Africa ed Europa.
[...]
Capitolo 6
Il nuovo orientamento politico e culturale
Nel corso degli anni ’70, il Dialogo Euro-Arabo impose la soluzione del conflitto israelo-palestinese come condizione imprescindibile per un’autentica cooperazione euroaraba, e condannò ripetutamente Israele. Raccomandò inoltre il sorgere di un movimento di opinione paneuropeo favorevole agli arabi, e invocò speciali condizioni per l’accoglienza degli immigrati musulmani in Europa, auspicando che i governi europei facilitassero la partecipazione dei lavoratori stranieri e delle loro famiglie alla vita culturale e religiosa araba. Insistette sulla «cooperazione negli ambiti della cultura e della civiltà», incoraggiando in particolare lo studio dell’arabo e delle lingue europee, e la creazione di istituzioni culturali euroarabe.
«Eurabia» è il titolo di un periodico pubblicato a Parigi a cura del Comité Européen de Coordination des Associations d’Amitié avec le Monde arabe, in collaborazione con «Middle East International», edito a Londra da Michael Adams, «France-Pays Arabes», pubblicato a Parigi da Lucien Bitterlin, e il «Groupe des Études sur le Moyen-Orient» di Ginevra, diretto da Georges Vaucher. Questi periodici diffusero tra l’opinione pubblica europea la propaganda palestinese, in linea con le decisioni prese alla Conferenza di Il Cairo del 1969. Sostenute da potenti lobby politiche, inaugurarono la politica del riavvicinamento euroarabo.
Nel numero 2 (luglio 1975), «Eurabia» riportava le risoluzioni approvate all’unanimità dall’assemblea generale dell’Associazione Parlamentare per la Cooperazione Euro-Araba (APCEA, Strasburgo 7-8 giugno 1975). L’Associazione riuniva oltre 200 membri dei Parlamenti degli stati dell’Europa occidentale, in rappresentanza di tutti i partiti dell’arco costituzionale dei diversi paesi. Ciò significa che il consenso sul programma di intesa euroaraba era trasversale all’intero scacchiere politico europeo.
L’editoriale di «Eurabia» riprendeva le tesi arabe, che sottolineavano «la necessità di un’intesa politica tra l’Europa e il mondo arabo come base per gli accordi economici» (corsivi aggiunti) e deplorava che essa fosse stata trascurata fino ad allora. Insisteva poi sul dovere, da parte dell’Europa, di «comprendere gli interessi politici ed economici del mondo arabo». Il Dialogo Euro-Arabo doveva esprimere «una volontà politica comune». La dimensione politica pregiudiziale a tutti gli accordi economici con i paesi della Lega Araba esigeva la nascita in Europa «di un movimento d’opinione» favorevole agli arabi. Questo punto era stato esaminato da numerosi esperti dell’Associazione per la Solidarietà Franco-Araba, e, a Strasburgo, dall’assemblea generale dell’APCEA:
Se vogliono realmente cooperare con il mondo arabo, i governi europei e i loro leader politici hanno il dovere di protestare contro la campagna denigratoria degli arabi in atto nei loro organi di informazione. Devono riaffermare la loro fiducia nell’amicizia euroaraba e il loro rispetto per il millenario contributo dato dagli arabi alla civilizzazione universale. Questo contributo e le sue applicazioni pratiche saranno tra i temi del nostro prossimo numero.
Le esigenze politiche arabe rispetto alle condizioni del Dialogo non si limitavano quindi al solo Israele: riguardavano anche l’Europa. Tilj Declerq, delegato belga dell’APCEA, presentò alla commissione economica dell’Associazione uno studio sulle condizioni di questa cooperazione, ricapitolate in «Eurabia» sotto il titolo: Un point de vue européen.
Declerq asseriva che la «cooperazione economica euroaraba dev’essere il frutto di una volontà politica. Deve quindi riconoscere gli aspetti politici di tale cooperazione». In altri termini, gli scambi economici erano subordinati al sostegno della CEE alla guerra araba contro Israele. A proposito dell’Europa, il delegato belga auspicava una cooperazione economica attuata mettendo in comune le risorse arabe di manodopera e di materie prime – verosimilmente il petrolio – con le tecnologie europee:
Dev’essere elaborata fin d’ora una politica a medio e a lungo termine per realizzare una cooperazione economica, coniugando le risorse di manodopera e di materie prime arabe con le tecnologie e il management europei.
Secondo Declerq il reimpiego dei petrodollari doveva favorire l’interdipendenza tra l’Europa occidentale e i paesi arabi, così da «arrivare gradualmente a un’integrazione economica il più completa possibile». Ma l’integrazione economica euroaraba sarebbe rimasta un fatto teorico se non fosse stata attuata la parte politica dell’accordo, ossia il sostegno europeo alla lotta araba contro Israele. «Quindi – ribadì il parlamentare belga – occorre che alla base dei progetti di collaborazione vi sia una reale volontà politica, che deve manifestarsi a tre livelli: a livello nazionale, a livello europeo, a livello mondiale». In questa prospettiva, la cooperazione e la solidarietà euroarabe dovevano realizzarsi tramite le organizzazioni e le conferenze internazionali. Egli auspicava lo svolgimento di incontri preparatori comuni e convegni euroarabi, che dovevano «moltiplicarsi a ogni livello – economico, monetario, commerciale ecc. – così da arrivare a posizioni comuni».
Le proposte di Declerq furono inserite in forma integrale nelle risoluzioni dell’APCEA, riunita a Strasburgo il 7-8 giugno 1975, e pubblicate su «Eurabia» (pp. 10-11). La sezione politica delle risoluzioni investiva tre ambiti: la politica europea nei confronti di Israele, la creazione di un movimento d’opinione paneuropeo e mondiale favorevole agli arabi, l’accoglienza in Europa degli immigrati musulmani. A proposito di Israele l’associazione si allineava alle posizioni arabe e pretendeva il ritiro di Israele alle linee d’armistizio del 1949, in aperto contrasto con la risoluzione 242 dell’ONU. L’Associazione esigeva inoltre dai governi europei il riconoscimento dell’OLP come unico rappresentante degli arabi palestinesi, punto fondamentale che l’Europa doveva imporre nelle iniziative internazionali di sua competenza previste dalla politica comune euroaraba. La CEE doveva costringere Israele a riconoscere i diritti della nazione palestinese e l’esistenza di uno stato palestinese su tutta la riva ovest del Giordano [la West Bank, N.d.T.] e a Gaza.
A livello europeo, l’Associazione chiedeva un’informazione favorevole alla causa araba, e speciali condizioni per gli immigrati:
L’Associazione chiede ai governi europei una modifica delle disposizioni legali relative alla libera circolazione, e il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori immigrati in Europa: questi diritti devono essere equiparati a quelli dei cittadini europei. L’Associazione considera la soluzione politica del conflitto israelo-arabo una necessità imprescindibile per la nascita di un’autentica cooperazione euroaraba.
Nello stesso paragrafo, l’Associazione esprimeva la convinzione che «l’armonioso sviluppo della cooperazione tra l’Europa occidentale e la nazione araba» avrebbe tratto giovamento dalla libera circolazione delle idee e delle persone.
La risoluzione economica condannava quelle scelte politiche che avevano:
arrecato danno alla cooperazione euroaraba, quali la creazione dell’Agenzia Internazionale dell’Energia [AIE, N.d.T.] e la firma di un accordo tra la CEE e Israele prima della conclusione dei negoziati tra la CEE e i paesi arabi. A questo proposito, l’Associazione chiede formalmente che la cooperazione economica tra la CEE e Israele non si estenda ai territori occupati.
Eurabia: la pianificazione culturale
Le risoluzioni votate dall’APCEA a Strasburgo riprendevano quelle approvate dalla conferenza preparatoria, tenutasi a Damasco qualche mese prima (14-17 settembre 1974). Sul piano culturale, l’APCEA prendeva atto del debito dell’Europa nei confronti dell’islam e del suo patrimonio etico, «riconoscendo il contributo storico della cultura araba allo sviluppo europeo, e sottolineando l’apporto che i paesi europei possono ancora attendersi dalla cultura araba, in particolare nell’ambito dei valori umani», e invocava lo sviluppo dell’insegnamento della lingua e della cultura araba in Europa, «auspicando che i governi europei concedano ai paesi arabi larghi mezzi per favorire la partecipazione dei lavoratori immigrati e delle loro famiglie alla vita culturale e religiosa araba».
L’Associazione faceva appello alla stampa, ai gruppi di collaborazione e al turismo per migliorare l’immagine del mondo arabo agli occhi dell’opinione pubblica europea,
chiedendo ai governi dei Nove di affrontare con spirito costruttivo gli aspetti culturali del Dialogo Euro-Arabo e di accordare una più accentuata priorità alla diffusione della cultura araba in Europa;
chiedendo ai governi arabi di riconoscere le implicazioni politiche di una cooperazione attiva con l’Europa sul piano culturale;
invitando i gruppi nazionali dell’Associazione a intensificare in ogni paese [della CEE] gli sforzi necessari per realizzare gli obiettivi formulati a Damasco e oggi a Strasburgo, e pregandoli di comunicare al Segretariato [APCEA] i risultati ottenuti.
La risoluzione si conclude con una condanna e un’accusa nei confronti di Israele:
Pur riconoscendo il diritto all’esistenza dello stato di Israele, condanna la volontà sionista di sostituire, nel territorio palestinese, la cultura ebraica a quella araba, per privare il popolo palestinese della sua identità nazionale;
considerando che, con gli scavi effettuati nei luoghi santi dell’islam [il Monte del Tempio] – zona occupata da Gerusalemme – malgrado gli avvertimenti dell’UNESCO, Israele ha commesso una violazione del diritto internazionale;
considerando che tali scavi non potevano non comportare l’inevitabile distruzione di alcune testimonianze della cultura e della storia araba;
si rammarica che la decisione dell’UNESCO di non ammettere Israele nel suo Ufficio Regionale sia stata talora gestita con grande mancanza di obiettività.
Nello stesso numero di «Eurabia», due economisti cristiani palestinesi, Bichara e Naim Khader, sottolineano che la cooperazione euroaraba riguarda ben 29 paesi, e che il suo successo esige identità di vedute i tutti i campi. Deplorando le diverse linee politiche adottate da alcuni paesi nei confronti del Medio Oriente, gli autori dimostrano che gli interessi dell’Europa e del mondo arabo sono in contrasto con quelli degli Stati Uniti, e che il Dialogo Euro-Arabo avrà successo solo se l’Europa adotterà una politica del tutto indipendente da quella americana. Per loro, questo implica che le personalità impegnate nel rafforzamento delle relazioni euroarabe all’interno dei diversi organi del DEA non debbano essere né filoamericane, né filoisraeliane.
Per illustrare questo punto, gli autori si chiedono se il membro belga della Commissione Europea, il filoisraeliano Henri Simonet, ed Étienne Davignon, favorevole all’Alleanza Atlantica, possano collaborare alla riuscita del DEA. Per l’esattezza Davignon, direttore del comitato politico della CEE, era incaricato di elaborare le posizioni europee rispetto al conflitto mediorientale, ed era il presidente dell’Agenzia Internazionale dell’Energia. Simonet invece, divenuto in seguito ministro degli Esteri nel suo paese e presidente del Consiglio della CEE, fu colui che difese la politica euroaraba in un discorso tenuto nel settembre 1977 all’assemblea generale delle Nazioni Unite, illustrando così l’evoluzione della politica europea.
Il convegno di Strasburgo fu seguito, dieci giorni dopo, da un simposio del Comitato Misto di esperti (Il Cairo, 10-14 giugno 1975), incaricato di formulare una prima sintesi dei principi generali e degli obiettivi del Dialogo Euro-Arabo. Il memorandum congiunto di questo convegno, nell’introduzione, precisa che:
il Dialogo Euro-Arabo è il frutto di una volontà politica comune che si è manifestata ai massimi livelli e che ha per oggetto l’instaurazione di speciali relazioni tra i due gruppi. Le due parti rammentano che il dialogo ha origine negli scambi intercorsi tra loro alla fine del 1973, comprendenti in particolare la dichiarazione fatta dai nove stati membri della Comunità Europea il 6 novembre 1973 a proposito della questione mediorientale, ma anche la dichiarazione rivolta ai paesi dell’Europa occidentale dalla VI Conferenza al vertice dei paesi arabi, svoltasi ad Algeri il 28 novembre 1973.
È chiaro quindi che l’adesione della CEE alla politica araba nei confronti di Israele ha costituito fin dall’inizio la base del Dialogo, in conformità alla Dichiarazione di Algeri. Il paragrafo successivo del memorandum afferma:
Le dimensioni politiche del Dialogo derivano essenzialmente dal tentativo di riscoprire, rinnovare e rafforzare i legami che uniscono due regioni così vicine, dal desiderio di eliminare i malintesi che hanno creato difficoltà in passato e dall’intento di gettare le basi di una cooperazione futura che investa una vasta gamma di iniziative, a vantaggio di entrambi gli interlocutori.
Lo sviluppo e la crescita della cooperazione economica euroaraba, fondati su tale intesa, contribuiranno ad assicurare la stabilità, la sicurezza e la pace «nella regione araba, e a far progredire la causa della pace e della sicurezza nel mondo». Il memorandum sottolinea che:
La nascita di una cooperazione tra i due gruppi trae ispirazione da legami di vicinanza e da un’eredità culturale comune, oltre che da interessi complementari e convergenti. Questa cooperazione dovrebbe contribuire a rafforzare le relazioni già esistenti e a consolidare l’amicizia tra gli stati e i popoli interessati. Essa dovrebbe migliorare la loro comprensione e fiducia reciproca, e aprire nuovi orizzonti in campo politico, economico, sociale e culturale.
In campo economico il Dialogo aveva l’obiettivo «di creare le premesse fondamentali per lo sviluppo della totalità del mondo arabo, e di ridurre il gap tecnologico che separa i paesi arabi da quelli europei». Tra gli innumerevoli ambiti di cooperazione indicati nel memorandum, vengono citati le tecnologie nucleari, la finanza, le banche, la gestione dei capitali, la ricerca scientifica, lo sviluppo tecnologico, la formazione professionale e tecnica, l’impiego dell’energia nucleare, le infrastrutture necessarie per i trasporti, il genio civile, l’urbanizzazione, la sanità, l’istruzione, le telecomunicazioni, lo sviluppo degli agglomerati urbani, delle strutture collettive e del turismo. L’addestramento del personale specializzato per la gestione dei numerosi progetti sarebbe stato realizzato «o inviando équipe di esperti europei nei paesi arabi, per formarvi la manodopera locale, o inserendo tale manodopera nelle strutture dei paesi della Comunità [Europea]». Erano inoltre previsti «un’efficace cooperazione e scambi di informazioni tra università arabe ed europee» in merito ai diversi metodi di ricerca, programmi e progetti.
La sezione relativa alla «Cooperazione nel campo della Cultura e della Civiltà» specifica che il Dialogo doveva «avvicinare due civiltà che hanno ampiamente contribuito ad arricchire il patrimonio culturale dell’umanità». La cooperazione in tali ambiti avrebbe incluso «l’istruzione, le arti, le scienze e l’informazione», per consolidare e approfondire le basi della comprensione culturale e dei punti di contatto intellettuali tra i due popoli.
A tale scopo furono previste diverse misure, tra cui la creazione di un’istituzione culturale comune euroaraba, scambi di esperti, l’instaurazione di rapporti nel campo dell’istruzione e del turismo, l’incentivo a studiare le lingue europee e quella araba. I problemi dei lavoratori immigrati e delle loro famiglie, infine, dovevano essere risolti con l’uguaglianza di trattamento in materia di impiego, condizioni di vita e lavoro, regimi di previdenza sociale.
La crescita del terrorismo palestinese negli anni 1970-80 e il lassismo delle polizie europee negli anni in cui fu ideata ed elaborata questa politica, rivelano chiaramente che essa fu in gran parte motivata dalla paura di un mondo arabo ostile. Ma questa strategia compiacente si univa anche al desiderio di un’interdipendenza economica e politica euroaraba, libera da ogni interferenza americana.
Dopo circa tre decenni, qual è stato l’impatto sul continente europeo di questa strategia che cementa in un unico blocco, legato al mondo arabo, settori in origine indipendenti quali l’economia, l’immigrazione, la politica e la cultura? Il DEA non ha forse favorito la realizzazione nei paesi della CEE dei piani per l’immigrazione musulmana e lo sviluppo della cultura araba in Europa elaborati in quel periodo dagli organi direttivi della Lega Islamica Mondiale (come attestano le risoluzioni di Lahore e quelle successive)? Di fatto, il destino dell’Europa e la sua evoluzione nel lungo periodo si sono giocati in quegli anni, dando luogo a quegli sviluppi tortuosi e irreversibili al compimento dei quali oggi assistiamo.
Capitolo 9
L’allineamento culturale: i seminari euroarabi
A partire dagli anni ’70, le politiche europee sull’immigrazione furono assoggettate all’obiettivo del Dialogo Euro-Arabo, imposto dagli stati arabi e dalle loro lobby in Europa: fondere le due sponde del Mediterraneo in una civiltà comune. Ecco perché il DEA progettò l’inserimento massiccio e omogeneo di interi gruppi di immigrati provenienti dal Sud nel tessuto laico europeo. Questi immigrati, che nel giro di due decenni erano diventati milioni, non venivano per integrarsi. In quest’ottica il DEA mise l’accento sulla diffusione più ampia possibile in Europa, sotto l’egida di istituzioni e centri culturali euroarabi, della lingua e della cultura arabe, e sull’insegnamento dell’arabo ai figli degli immigrati.
Al contrario di quanto si potrebbe pensare, la penetrazione culturale araba e islamica in Europa non è dovuta unicamente all’immigrazione di milioni di musulmani, provenienti dall’Africa, dal Medio Oriente e dall’Asia, che portavano con sé la propria cultura sotto lo stendardo del multiculturalismo. È anche l’espressione di una deliberata scelta della CEE. L’esortazione a salvaguardare le tradizioni degli immigrati veniva da due fonti, la prima delle quali era costituita dagli interessi dei leader politici e religiosi musulmani, ansiosi di mantenere il controllo sui loro connazionali come strumenti di pressione politica e al tempo stesso di diffusione della da‘wah nei paesi d’accoglienza. Questa concezione ha le sue radici nell’islam tradizionale: da sempre la compenetrazione sociale tra musulmani e non musulmani, e l’adozione da parte dei primi di leggi e usanze straniere, è, se non addirittura bandita, quantomeno rigorosamente vietata dalla shari’a, e ha generato una capillare giurisdizione, in vigore in tutto il dar al-islam sin dagli inizi della colonizzazione islamica. Come emerge dalle discussioni del vertice di Lahore e da numerosi altri testi al riguardo, i capi di stato musulmani e i loro leader spirituali guardavano agli immigrati come a un «contingente» islamico in Europa, da consolidare e inquadrare nelle reti dei centri culturali arabi per impedire che si diluisse nella società lassista e dissoluta degli infedeli.
Ma furono gli accordi del DEA, ossia i compromessi tra i governi europei, coordinati dalla Commissione della CEE, a costituire il secondo quadro di riferimento di una migrazione di massa intesa a ricreare in Europa le proprie strutture sociali e religiose, tradizionalmente ostili alle altre culture. Questa linea fu sanzionata a Damasco l’11 settembre 1978, durante l’incontro del DEA che ratificò e confermò le risoluzioni del seminario euroarabo svoltosi all’Università di Venezia dal 28 al 30 marzo 1977, sul tema I mezzi e le forme di cooperazione per la diffusione in Europa della lingua araba e della sua civiltà letteraria.
Organizzato dall’Istituto per l’Oriente di Roma e dalla Facoltà di Lingue, sezione di letteratura araba, dell’Università di Venezia, il seminario rientrava nel contesto del Dialogo Euro-Arabo, ossia aveva l’imprimatur ufficiale del presidente della CEE e dei ministri degli Esteri di tutti i paesi della CEE. I partecipanti arabi provenivano da 14 università dei paesi musulmani, e precisamente Algeria, Arabia Saudita, Egitto, Iraq, Giordania, Qatar, Sudan e Tunisia. Tra gli europei vi erano 19 arabisti delle università europee, il rappresentante del Pontificio Istituto di Studi Arabi di Roma, nonché varie altre personalità legate al mondo islamico. La sessione di apertura si tenne nell’aula magna dell’Università, a Palazzo Ca’ Dolfin. Numerosi esponenti tennero discorsi di benvenuto, tra cui l’ambasciatore Cesare Regard, rappresentante italiano del gruppo europeo di coordinamento del Dialogo Euro-Arabo.
Tra i temi affrontati durante le quattro sessioni di lavoro, presiedute in forma congiunta da un delegato arabo e uno europeo, i relatori europei presentarono il loro rapporto sulla diffusione e la conoscenza della lingua e della cultura araba nei diversi paesi. Gli arabi, dal canto loro, esposero i metodi di insegnamento semplificato dell’arabo agli stranieri seguiti nei loro paesi, e ne raccomandarono l’adozione anche in Europa. Il seminario si concluse con numerose mozioni di intenti, che qui non possiamo riprodurre per intero, ma il cui tenore complessivo era quello di un invito a istituire nelle capitali europee, d’intesa con i paesi islamici, centri per la diffusione della lingua e della cultura araba. L’attuazione di questo progetto comportava l’adozione di molteplici misure, che furono sottoposte all’approvazione tanto dei governi europei quanto dei paesi della Lega Araba. Una di esse prevedeva l’inserimento negli istituti e nelle università europee di professori arabi specializzati nell’insegnamento agli europei. Questa misura si spiega con il divieto per i non musulmani di insegnare l’islam, ancor oggi in vigore nei paesi musulmani. Un’altra implicava il «coordinamento degli sforzi fatti dai paesi arabi per diffondere la lingua e la cultura araba in Europa e per trovare forme adeguate di cooperazione tra le istituzioni arabe operanti in questo settore».
I partecipanti chiesero la creazione di centri culturali euroarabi gemellati nelle capitali europee, finalizzati alla diffusione della lingua e della cultura araba (raccomandazione 2). Chiesero il sostegno delle istituzioni europee, di tipo universitario e non, «interessate all’insegnamento della lingua araba e alla diffusione della cultura araba e islamica». Sollecitarono l’aiuto dei governi per «progetti di cooperazione culturale tra istituzioni europee e arabe, in materia di ricerca linguistica e insegnamento della lingua araba agli europei» (mozione 4). L’esortazione a nominare, nelle istituzioni e nelle università europee, professori arabi che insegnino la loro lingua agli europei è ripetuta nello stesso documento e, praticamente, in tutti quelli degli anni successivi. Quest’insistenza, più volte ribadita, sulla necessità di affidare agli arabi questo insegnamento, mira a tenere l’interpretazione islamica della civiltà araba al riparo da ogni intrusione o critica da parte dei kuffar, e a custodirne l’efficacia ai fini della da‘wah. Questa politica ha di fatto istituito il controllo dei musulmani sull’insegnamento della storia, ma anche di altre discipline, e ha determinato l’orientamento filopalestinese e antioccidentale delle università europee, introducendovi una prospettiva islamica estranea alla loro cultura. È strano che i docenti europei, la cui professione consiste appunto nell’insegnamento della lingua e della civiltà islamica, abbiano deliberatamente accettato di essere definiti incompetenti nel proprio ambito professionale, e si siano volontariamente fatti da parte per permettere a colleghi stranieri di insegnare le loro stesse discipline nelle università e nelle istituzioni europee.
La raccomandazione 10 prevede che l’insegnamento dell’arabo sia collegato alla cultura arabo-islamica e alle tematiche arabe attuali. La n. 11 sottolinea, sia pur con cautela, «la necessità di cooperazione tra specialisti europei e arabi per presentare in modo oggettivo agli studenti e al pubblico europeo colto la civiltà arabo-islamica e le problematiche arabe contemporanee che potrebbero forse attirarli verso gli studi arabi». Per realizzare una perfetta armonia tra le università arabe ed europee, i partecipanti proposero stage per i professori europei nei paesi arabi. Le risoluzioni successive definiscono le forme di cooperazione tra le università arabe ed europee e i loro rispettivi esponenti, ma anche di gestione dei fondi necessari a questo progetto di arabizzazione dell’insegnamento all’interno della CEE.
L’ultima mozione, la n. 19, auspica «la nascita di un comitato permanente di esperti arabi ed europei, incaricati di controllare l’attuazione delle decisioni relative alla diffusione della lingua e della cultura araba in Europa, nel quadro del Dialogo Euro-Arabo». Questo quadro implicava l’approvazione dei ministri degli Esteri dei paesi della CEE e della sua Presidenza, d’intesa con il Segretario della Lega Araba, ma anche degli altri diplomatici rappresentati nella Commissione Generale, i cui lavori si svolgevano a porte chiuse e senza stesura di verbali. Gli opinionisti esperti delle istituzioni del Dialogo hanno elogiato la pragmatica flessibilità della sua struttura, sottolineando che le «porte chiuse» e le modalità informali favorivano una diplomazia discreta, libera dai vincoli dei trattati, ma anche – si potrebbe aggiungere – dal controllo popolare e dalla critica democratica. La scelta del termine «dialogo» per designare una politica informale e discreta, per non dire occulta, è attribuita a Michel Jobert, ministro degli Esteri francese.
Il Seminario di Venezia non solo spianò la strada a un’immigrazione araba e musulmana su vasta scala in Europa, ma pianificò anche la nascita di una cultura comune in grado di abbracciare le due sponde del Mediterraneo. Nel suo libro Le totalitarisme islamiste, Alexandre Del Valle descrive le diverse concezioni politiche che favorirono il sorgere del movimento filoislamico tra l’intellighenzia europea. La speranza nella redenzione della decadente Europa a opera dell’islam, unita ad alcune correnti giudeofobiche cristiane, portò a interpretare come una vittoria cristiana la futura distruzione di Israele per mano islamica (cfr. cap. 16). Questo movimento, formato da religiosi, universitari, intellettuali e opinionisti, accompagnò, inquadrò e sostenne le politiche di immigrazione musulmana pianificate dai governi della CEE, così come le attività del DEA.
Fin dal primo incontro a Il Cairo (14 giugno 1975), tutte le sessioni del DEA approvarono risoluzioni per favorire sul piano culturale e professionale gli immigrati arabi in Europa. Queste misure di politica interna europea, correlate alla comune politica euroaraba nei confronti di Israele e dell’OLP, costituivano un blocco inscindibile che fu ratificato nella prima sessione del Comitato Generale di Lussemburgo (18-20 maggio 1976), e ribadito a Tunisi (febbraio 1977), a Bruxelles (ottobre 1977), a Damasco (dicembre 1978) e in tutti i successivi incontri. L’espansione dei mercati europei nei paesi arabi fu sincronizzata con l’arrivo nella CEE di milioni di immigrati musulmani, le cui esigenze religiose, culturali e sociali erano tutelate dalle più alte autorità dei paesi europei di accoglienza. Il 23 aprile 1976, sotto la presidenza di Valéry Giscard d’Estaing, il primo ministro francese Jacques Chirac emanò un decreto che consentiva il ricongiungimento degli immigrati alle loro famiglie. In precedenza, questi entravano in Francia muniti di un permesso di lavoro temporaneo e dovevano ripartire alla sua scadenza. Il decreto Chirac sancì la natura permanente e definitiva dell’immigrazione.
Dall’incontro del 1975 a Il Cairo, che enunciava i principi generali e gli scopi del DEA, emerse che la cooperazione euroaraba apriva nuovi orizzonti a tutti i livelli: politico, economico, sociale e culturale. Esso chiarì che il principale obiettivo della cooperazione in campo culturale era «consolidare e approfondire le basi della comprensione culturale e dell’affinità intellettuale» tra le due regioni. E, in effetti, la diffusione della lingua e della cultura araba, specialmente nelle università, conobbe uno slancio unico nella storia, integrandosi in modo organico con la politica generale del DEA, ordinata, finanziata e sostenuta dai governi euroarabi. Perfino ai tempi della colonizzazione, l’emigrazione europea verso le colonie procedette a ritmi molto più lenti. Anche dopo circa due secoli, le sue cifre, discendenti compresi, non ammontavano che a un’esigua frazione del numero di immigrati musulmani presenti oggi nei paesi europei e occidentali dopo tre soli decenni. Un tale spostamento di popolazioni in un periodo così breve non avrebbe potuto verificarsi senza l’approvazione esplicita di tutti i capi di stato e di governo della CEE e del DEA, la struttura istituzionale da essi creata, che lo appoggiò e neutralizzò le opposizioni.
Avendo incoraggiato questa rapida espansione musulmana, i governi europei dovettero affrontare i problemi correlati dell’alloggio e dell’impiego, come spiega ’Al-Mani:
Facendo eco alle preoccupazioni dei paesi del Maghreb per i problemi abitativi e occupazionali dei loro concittadini che lavorano in Europa, l’11 dicembre 1978, nel corso dell’incontro di Damasco, il DEA adottò una dichiarazione congiunta sui principi che devono regolare le condizioni di vita e di lavoro degli immigrati nelle due regioni. La dichiarazione, in 14 punti, insiste sull’uguaglianza economica tra i cittadini dei paesi ospiti e i lavoratori immigrati, e il diritto di tali lavoratori alla rappresentanza legale e alla formazione professionale per sé e per i loro figli.
I testi del DEA parlano di reciprocità, ma si tratta di una clausola puramente teorica, in quanto nessun paese arabo avrebbe mai concesso l’uguaglianza economica e giuridica a migliaia, per non dire milioni, di immigrati europei che si fossero stabiliti presso di loro, poiché l’ha rifiutata per oltre un millennio – e ancor oggi la rifiuta – alle sue minoranze indigene, residui dei popoli precedenti alla colonizzazione musulmana. [...]
[...] Così, a partire dagli anni ’70, le politiche migratorie, correlate agli scopi politici del DEA imposti dagli stati arabi e dalle loro lobby europee, non riguardavano un’immigrazione sporadica, fatta di individui desiderosi di integrarsi nei paesi di accoglienza. La nuova immigrazione non aveva niente a che vedere, sul piano politico, economico e culturale, con le domande di asilo politico presentate, prima del 1989, dagli esuli in fuga dai paesi comunisti, né con le successive ondate di lavoratori italiani, spagnoli e portoghesi giunti dalle aree europee economicamente meno sviluppate. Nessuno di questi flussi migratori, infatti, si sviluppò in un quadro di richieste ideologiche e politiche paragonabile a quello del DEA. L’ambizione di congiungere le due sponde del Mediterraneo attraverso una cultura comune indusse a pianificare l’ingresso nel tessuto sociale europeo di masse compatte e omogenee di immigrati provenienti da Sud, che, in due decenni, divennero milioni. Immigrati venuti non per integrarsi, ma con il diritto di imporre ai paesi ospiti la loro civiltà. La politica del DEA si sposava perfettamente con la strategia espressa dal vertice islamico di Lahore e sintetizzata nel progetto dei Fratelli Musulmani.
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