L'apatia, l'inettitudine, la mediocrità di Luigi XVI, incapace di comunicare e persino di reagire, costituirono il vero dramma dell'ultimo atto della monarchia francese.
Giuseppe d’Asburgo, fratello di Maria Antonietta, definì l'ultimo monarca assoluto di Francia un uomo onesto, dotato di una certa intelligenza, ma terribilmente debole, tanto da essere succube di tutti coloro che sapevano intimidirlo. L'aridità e la pigrizia mentale del re emergono chiaramente dal suo diario personale. Sulla pagina del 14 luglio 1789 campeggia un rien, niente, certo riferito alla sua attività venatoria di quel giorno, ma comunque incomprensibile posto accanto alla data di una svolta epocale per la storia francese ed europea.
Quest'uomo obeso, interessato morbosamente alla caccia e alle serrature, goffo e maldestro nella vita coniugale come nell'attività politica, sembrava quasi riassumere in sé i limiti e le contraddizioni della monarchia assoluta, che poggiava tutta la sua forza sulle qualità personali degli uomini che di volta in volta la incarnavano.
Nell'immaginario collettivo della società di Antico Regime il re non poteva essere ambiguo, né indeciso, né malinconico. La sua condotta, sanguigna e solare doveva fugare la malattia politica e psicologica dell'incertezza, altrimenti tutta la compagine sociale sarebbe sprofondata nell'insicurezza e nella paura, e il popolo sarebbe rimasto orfano. Luigi, salito al trono appena ventenne, fu succube delle forti personalità, fu un uomo titubante, nonostante il suo ruolo gli imponesse la risolutezza, la capacità di essere per il suo popolo un buon padre forte e sicuro.
Data l'assimilazione della figura del monarca a quella del buon padre, acquista una certa credibilità l'interpretazione della decapitazione di Luigi XVI come parricidio. La precipitosa fuga della famiglia reale nel giugno del 1791 e l'invasione del territorio nazionale generarono nel popolo una sorta di "sindrome dell'abbandono" che accelerò il trasferimento della sovranità. Lo sgretolamento del potere tradizionale diffuse tra il popolo un profondo sgomento, assimilabile a quello della perdita del padre.
Prima ancora di qualsiasi valutazione politica del suo operato, Luigi deluse le aspettative dei sudditi a causa della sua inadeguatezza rispetto al ruolo del monarca assoluto.
Certo sarebbe riduttivo e forviante pensare alla rivoluzione francese come alla vendetta di figli traditi, oppure dare eccessivo credito all'immagine di un popolo indignato dalle umiliazioni subite dalla corona, senza tener conto della situazione economica e sociale della Francia e soprattutto dell'indebolimento delle strutture dell'Antico Regime; tuttavia è indubbio che gli errori commessi dalla monarchia impressero una notevole accelerazione alla rivoluzione, e che gran parte di tali errori derivarono dall'inettitudine di Luigi XVI.
L'incapacità della monarchia assoluta come istituzione di far fronte alla situazione politica, economica e sociale della Francia fu aggravata e resa più evidente dalle scarse qualità di Luigi come monarca assoluto.
Il vero interrogativo da porsi riguardo alla monarchia è se questa non fosse già morta prima dell’esecuzione del 21 gennaio 1793, prima della fuga interrotta a Varennes nel giugno del 1791, prima della convocazione degli Stati generali del maggio 1789 e anche prima dell'incoronazione di Luigi XVI nel 1774. Forse Luigi XVI aveva ereditato soltanto il cadavere della monarchia assoluta.
Il processo e la solenne esecuzione di Luigi XVI dissolsero ogni ambiguità della rivoluzione. La decapitazione del re taumaturgo, dell'Unto del Signore, trasformato dalla pubblicistica rivoluzionaria nel bieco tiranno Luigi-Nerone, pose termine al lungo scontro per la sovranità iniziato nel luglio 1789.
Il patibolo del gennaio 1793 non fece che solennizzare ciò che di fatto era già avvenuto. Con l'invasione delle Tuileries il popolo aveva rotto definitivamente la falsa pace, per usare l'espressione di Michelet, del luglio 1789, e si era imposto come l'unico vero sovrano. Dopo il 10 agosto 1792 era svanita ogni possibilità di conciliazione tra la mentalità tradizionale, legata alla rassicurante figura del re, padre premuroso e protettivo, e la novità rivoluzionaria rappresentata dall'affermazione della sovranità popolare.
Lo spettacolare trasferimento della sovranità dal re al popolo ebbe, dal punto di vista della giustizia sovrana, due epiloghi: i massacri di settembre, e la condanna a morte del re a seguito di un processo. L'accostamento di questi due episodi evoca il passaggio, tra il settembre '92 ed il gennaio '93, dalla democrazia diretta alla democrazia rappresentativa. Mentre il bagno di sangue del settembre '92 fu la conseguenza dell'azione diretta del popolo, fattosi giudice e carnefice, la condanna a morte del re venne emessa da un organo rappresentativo.
Ovviamente questo passaggio non avvenne senza tensioni e contrasti. Basti pensare al duro e decisivo scontro tra Montagna e Gironda riguardo alla proposta di quest'ultima di una ratifica popolare del verdetto della Convenzione sulla sorte del Borbone, proposta che comportò un dibattito sui limiti della democrazia rappresentativa.
Il processo di Luigi XVI, poiché rappresentò il momento culminante del trasferimento della sovranità, e si inserì nel contesto di una transizione dalla democrazia diretta alla democrazia rappresentativa, ebbe una valenza non soltanto giuridica e giudiziaria, ma anche politica e simbolica in senso ampio. La posta in gioco politica non fu mai separata da quella simbolica e da quella giuridica.
Il linciaggio a furor di popolo, nel settembre 1792, degli aristocratici e dei preti refrattari, negazione di ogni garanzia giuridica e di ogni procedimento legale, può essere considerato una sorta di vampata di democrazia diretta, che mostrò, prima dell'elezione della Convenzione, tutta la brutale potenza del nuovo sovrano.
Questa furia vendicatrice si arrestò però di fronte all'illustre detenuto del Tempio, Luigi XVI. Perché?
Per capire le ragioni della mancata eliminazione del re deposto nelle giornate di sangue del settembre '92, occorre tenere presente che, perfino durante la celebrazione del processo, pur essendo comunemente accettata la colpevolezza di Luigi, sia a Parigi, sia nelle province non vi era affatto una solida maggioranza a favore della condanna a morte dell'antico sovrano. Ciò è confermato sia dalla pubblicistica, sia dal rifiuto da parte della Montagna dell'appello al popolo, manovra dilatoria tentata dalla Gironda che consisteva nel far ratificare il verdetto dal popolo riunito nelle assemblee primarie in modo da alleggerire la Convenzione del fardello del processo ed ottenere clemenza.
Dieci secoli di lealismo monarchico non potevano essere dimenticati tanto facilmente e, malgrado tutto, la Francia non riusciva ad odiare Luigi XVI.
Dai massacri di settembre al processo del Borbone si verificò il passaggio cruciale dalla democrazia diretta alla democrazia rappresentativa. L'esercizio diretto da parte del popolo della propria sovranità venne tempestivamente bloccato da un'istituzione rappresentativa come la Convenzione, che si assunse il compito di fare giustizia dell'antico sovrano, ricorrendo ad un procedimento legale, o meglio pseudo legale, per solennizzare il trasferimento della sovranità.
La coppia massacri di settembre / processo del re costituisce quindi uno spartiacque nella rivoluzione francese.
Dopo la fiammata di violenza del settembre, che aveva mostrato in piena luce i pericoli della democrazia diretta e lo spettro dell'anarchia, con l'elezione della Convenzione il popolo sovrano divenne teoricamente onnipotente, praticamente incapace di governare e costretto a sottostare, fino al conseguimento della pace, ad una sorta di "reggenza", o addirittura di usurpazione, da parte dei giacobini.
Guardando da vicino al processo di Luigi XVI, è possibile fare alcune osservazioni che ridimensionano la diversità della "procedura" dei due episodi.
Nel passaggio dal massacro al processo, cioè dalla democrazia diretta alla democrazia rappresentativa, la logica prima di tutto politica, ma anche giuridica, rimase sempre la stessa. Ci pare possibile avanzare l'ipotesi dell'esistenza di una sostanziale continuità, sia dal punto di vista politico che formale, tra l'eliminazione arbitraria degli aristocratici e dei preti refrattari e la decapitazione del re del gennaio 1793.
La proposta di Saint-Just e di Robespierre di uccidere Luigi il traditore senza un regolare processo, come un nemico sconfitto ed abbattuto sul campo, in perfetta continuità con la logica dei massacri di settembre, pur risultando minoritaria in seno alla Convenzione, e pur essendo invisa a buona parte dell'opinione pubblica ed estranea alla sensibilità popolare, finì nei fatti per imporsi, anche se dissimulata sotto panni legali.
Gli indubbi vantaggi politici della proposta di Saint-Just e Robespierre si persero nella strettoia del dibattito sull'inviolabilità del sovrano e delle lungaggini processuali, tuttavia la logica ed il senso di tale proposta vennero accolti dall'assemblea.
Il trait d'union tra i due atti di giustizia sovrana ci pare sia costituito dal mancato riconoscimento in entrambi i casi dello status di cittadini alle vittime. Sia il popolo inferocito che si accanì contro l'aristocrazia ed il clero, sia la Convenzione che perse tre mesi a discutere sulla sorte di Luigi Capeto, non videro di fronte a loro che pericolosi nemici da abbattere senza pietà, traditori sorpresi con le armi in mano, e non cittadini imputati di un qualche reato.
A prima vista sembrò imporsi in seno alla Convenzione la linea sostenuta da Marat: due pesi e due misure, i piccoli e medi cospiratori chiusi nelle prigioni potevano, dovevano essere massacrati; al re dovevano essere assicurate le garanzie della legge. In altri termini: il popolo poteva avocare a sé la punizione dei propri nemici, ma non quella del proprio rivale nella sovranità. Tuttavia la Convenzione posta di fronte alla spinosa questione dell'inviolabilità del re, sancita dalla costituzione del 1791, ed al problema dell'individuazione del tribunale competente, senza fare concessioni alla democrazia diretta e soprattutto senza rinunciare alla farsa delle garanzie legali, finì per accettare la lucida brutalità invocata da Robespierre e da Saint-Just, in perfetta sintonia con la logica dei giudizi sommari e della caccia spietata ai nemici del popolo. L'assemblea rappresentativa, andando probabilmente ben oltre la volontà dell'opinione pubblica, uccise il re sulla base delle stesse motivazioni che erano state addotte dal popolo giudice e carnefice, cioè l'evidenza del suo tradimento, la mostruosità dei suoi crimini, la pericolosità del detenuto, perdendo però i vantaggi politici di un'esecuzione sbrigativa ed immediata.
Se la Convenzione si fosse attenuta alle regole formali, anziché a ragioni di opportunità politica, avrebbe dovuto dichiarare non soltanto la propria incompetenza a giudicare il re deposto, ma anche la sua inprocessabilità, screditandosi così di fronte all'opinione pubblica, essendo costretta a lasciare libero, ingiudicato e politicamente pericolosissimo l'antico sovrano.
Per dimostrare la continuità esistente tra i massacri di settembre ed il processo di Luigi XVI è necessario evidenziare come tale processo fosse viziato ed in aperta violazione delle regole formali.
La Convenzione separò Luigi XVI sia dal suo ruolo di ex re costituzionale, sia dal suo ruolo di cittadino, e lo trasformò in Luigi Capeto, nemico del popolo da punire e non da giudicare.
L'inviolabilità garantita al re dalla costituzione del 1791 costituiva il principale ostacolo all'apertura di un processo nei confronti di Luigi. Infatti la carta costituzionale aveva definito scrupolosamente i reati specifici per i quali il re avrebbe potuto essere deposto. Tali reati erano: abbandonare il regno, mettersi alla testa di un esercito straniero, rifiutare di prestare il giuramento costituzionale.
Sebbene dalla gran massa dei documenti sequestrati sin dal 10 agosto non fossero emerse, a causa della superficialità dell'istruttoria, prove schiaccianti della colpevolezza del re, non esistevano dubbi, né in seno all’opinione pubblica, né tra i deputati, circa la connivenza di Luigi con i nemici della Francia rivoluzionaria.
La Convenzione non si limitò ad ignorare la presunzione di innocenza e l’assenza, al momento della celebrazione del processo, di prove certe di colpevolezza, ma finse di dimenticare che per i reati contemplati dalla costituzione, i soli per cui il re fosse processabile, l'unica pena prevista era l'abdicazione, e non la morte. Poiché il re era già stato costretto ad abdicare, da un punto di vista strettamente giuridico non esistevano gli estremi per poterlo processare, se non per i reati commessi in qualità di cittadino dopo la sua deposizione, cioè nessuno.
Formalmente sia il re, sia il cittadino Luigi Capeto, erano fuori della portata della giustizia sovrana.
Il Comitato presieduto dall'avvocato di Tolosa Mailhe, incaricato di riferire alla Convenzione sulla questione procedurale e sull'individuazione del tribunale competente, aggirò goffamente i problemi giuridico-formali connessi all'apertura del processo al re. Per scavalcare l'ostacolo dell'inviolabilità Mailhe fu costretto a considerare Luigi reo di non aver mai accettato il contratto che aveva fatto di lui un re costituzionale, nonostante il suo giuramento di fedeltà alla costituzione. Solo considerando Luigi un traditore prima ancora di diventare un re costituzionale la Convenzione poté giudicarlo superando l'inviolabilità.
Con altrettanta disinvoltura Luigi, diventato re traditore prima ancora di tradire, venne sottratto al suo giudice naturale: il tribunale ordinario. Considerato un falso re costituzionale, in modo tale da poter aggirare il dettato costituzionale, Luigi Capeto non venne nemmeno considerato un normale cittadino, in quanto venne posto sotto la giurisdizione della Convenzione, la cui competenza a giudicare l'ex re, solo formalmente degradato al ruolo di cittadino, non meritava, per Mailhe, neanche di essere messa in discussione e di essere dimostrata, poiché l'assemblea rappresentava interamente e perfettamente la repubblica francese. Mailhe ebbe solo dei pudori legalistici, ma in realtà non tenne in alcun conto le più elementari garanzie.
Mailhe nel suo intervento fece appello non alla correttezza giuridica, ma a principi generali. Dietro l'esaltazione della sovranità popolare si nascondeva il disprezzo per le regole formali.
Sebbene le parole dell'avvocato tolosano, poiché tentavano di dare una parvenza giuridica al processo, non avessero la stessa lucida brutalità di quelle di Saint Just o di Robespierre, esse comunque evidenziarono il mancato riconoscimento a Luigi Capeto dello status di cittadino, e quindi dei diritti ad esso connessi.
Considerando l'intervento di Robespierre nella seduta del 3 dicembre 1792 è possibile cogliere un aspetto importante riguardo alla regolarità del processo di Luigi XVI. Robespierre infatti chiarì la portata politica del processo, e ne trasse le necessarie conseguenze, cioè l'impossibilità di celebrare un processo equo. Egli affermò: «In realtà se Luigi può essere ancora oggetto di un processo si deve presumere ch'egli può essere innocente. Che dico? Avrebbe diritto alla presunzione d'innocenza fino a che non fosse giudicato! Ma se Luigi XVI viene assolto, se Luigi può essere presunto innocente, che avverrà della rivoluzione? Una cosa semplicissima: tutti i difensori della libertà diverranno calunniatori, tutti i ribelli saranno difensori dell'innocenza oppressa....».
È interessante osservare come la presunzione di innocenza, considerata una mostruosità, un insulto alla rivoluzione da Robespierre, favorevole ad una condanna di Luigi senza processo, sia stata calpestata anche da Morisson, nonostante egli sostenesse l'impossibilità di procedere contro Luigi a causa dei vincoli giuridici e costituzionali. Il deputato vandeano Morisson, pur dando per scontata la colpevolezza di Luigi, pur insistendo sull'inaudita gravità dei suoi crimini, e pur rinunciando a un linguaggio garantista, si tenne su di un piano giuridico, e affermò l'impossibilità di processare e condannare Luigi rispettando il dettato costituzionale. Di fronte a una assemblea turbolenta disse: «...non esistendo nessuna legge positiva che possa essere applicata a Luigi XVI, nessuna pena potrà essere pronunciata contro di lui». Ragionando su di un piano giuridico difese il principio della non retroattività, ma non concesse la presunzione di innocenza al Borbone.
Sia il più brutale accusatore di Luigi, cioè Robespierre, sia il suo più strenuo difensore in seno alla Convenzione, cioè Morisson, non erano disposti a riconoscere all'imputato la presunzione d'innocenza. Ciò mostra come non esistessero neppure i presupposti per un procedimento corretto.
Mailhe e Morisson, al contrario di Saint-Just e Robespierre, nonostante le opposte conclusioni, condivisero la stessa filosofia legalistica. Tuttavia è bene chiarire i limiti di tale filosofia. Infatti, da un lato Mailhe, pur prendendo in esame delle questioni formali superò gli ostacoli costituzionali con argomenti extra giuridici, Morisson dall'altro non poté fare a meno di dare per scontata la colpevolezza del re, pur richiamando l'attenzione dell'assemblea al rispetto delle regole formali.
Per Michelet questo richiamo di Morisson e della Gironda al rispetto delle regole e della legge avrebbe determinato un effetto opposto a quello sperato, favorendo addirittura le prese di posizioni più radicali. Scrive Michelet: «In tutta la Montagna non c'erano sessanta persone che volessero la morte del re; ma dal momento in cui i campioni insensati dell'inviolabilità ebbero l'aria di volerlo coprire con lo scudo della legge, quei sessanta diventarono ministri dell'indignazione pubblica e si videro seguiti da una gran massa di popolo; la moderazione divenne impossibile, impossibile la clemenza».
L'infuocato intervento di Saint-Just, ispirato da Robespierre, «...simile ad una pistolettata in un'assemblea dove ronzavano i cavilli...» (Schama), distrusse al tempo stesso le cautele giuridiche evocate da Morisson e il goffo travestimento giuridico del processo, costruito dalle argomentazioni pseudo giuridiche del Comitato presieduto da Mailhe.
Il ragionamento di Saint-Just era lucidamente politico ed ideologico, senza pudori legalistici, solo su questo terreno risultava evidente quale fosse l'oggetto del processo, e soprattutto in quale veste fosse possibile con coerenza punire Luigi.
Affermò Saint-Just soggiogando l'assemblea: «Un re, quale egli sia, è condannato dalla natura. Non si può regnare innocentemente. Ogni re è un ribelle e un usurpatore... Ci si dice che il re deve essere giudicato da un tribunale come un altro cittadino; ma i tribunali esistono soltanto per i membri della città».
Il re era colpevole in quanto tale, negarlo sarebbe stato negare la repubblica, e non
«Un re, quale egli sia, è condannato dalla natura. Non si può regnare innocentemente. Ogni re è un ribelle e un usurpatore...» |
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poteva essere considerato un cittadino perché era estraneo al consorzio politico. Saint-Just disse sfacciatamente ciò che il Comitato presieduto da Mailhe aveva già fatto, cioè eliminare ogni garanzia giuridica dell'imputato, trasformare il re in un semplice nemico, anche se Mailhe aveva cercato di mantenere un alone legale.
Si potrebbe obiettare che comunque Luigi, a differenza degli aristocratici e dei preti refrattari massacrati nelle prigioni, poté contare su di una regolare difesa. Tuttavia il collegio di difesa di Luigi, composto da Tronchet, Malesherbes e da De Sèze, non vene nemmeno messo in condizione di costruire una difesa dell'imputato sulla base dei documenti raccolti sin dal 10 agosto. Dopo aver perso mesi sulle questioni procedurali relative al processo la Convenzione concesse non più di dieci giorni alla difesa per consultare una massa enorme di documenti. De Sèze dovendo difendere il re da accuse specifiche fu perciò costretto nella sua arringa a fare riferimenti molto vaghi, o addirittura solo supposizioni sul contenuto dei documenti.
La prova più evidente della continuità esistente tra i massacri di settembre ed il processo del re è data dal fallimento, ampiamente rilevato dalla storiografia, della linea difensiva scelta da De Sèze. L'avvocato di Luigi si limitò infatti a distruggere con abilità e con nettezza il travestimento legale del processo, precludendosi però in questo modo una difesa politica del suo assistito. Forse se De Sèze avesse mostrato gli svantaggi politici di una condanna a morte del re avrebbe ottenuto maggiori risultati.
Dopo aver messo in evidenza i vincoli imposti dall'inviolabilità garantita al re dalla costituzione aggiunse: «...se voi togliete a Luigi l'inviolabilità di re, gli dovete almeno riconoscere i diritti di cittadino, dato che non potete far sì che Luigi cessi d'essere re quando dichiarate di volerlo processare, e ch'egli lo ridiventi nel momento della sentenza che volete pronunciare. Ora se volete giudicare Luigi come cittadino, io domando: dove sono le forme procedurali che ogni cittadino ha l'imprescrittibile diritto di esigere? [...] Non avrà né i diritti di un cittadino, nè le prerogative di un re? Non godrà né della sua antica condizione, né della nuova? Strano ed inconcepibile destino!».
Luigi Capeto, privato delle garanzie riservategli dalla costituzione, privato delle più elementari garanzie giuridiche proprie di qualsiasi cittadino, ci pare assimilabile, nonostante gli scrupoli legalistici della Convenzione, a quelle scorie umane, per usare l'espressione di Schama, eliminate senza pietà e senza processo nelle giornate di settembre, a un nemico dal sangue impuro.
(1 - Continua)
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