Figlio dell'urbanizzazione e delle sue deficienze, il colera giunse in Italia in tre ondate: nel 1835, nel 1854 e nel 1865. Mettendo in luce antiche superstizioni, limiti nell'organizzazione sanitaria e palesi disuguaglianze sociali
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IL COLERA NELL'ITALIA DELL'OTTOCENTO
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Il colera, affacciatosi per la prima volta in Europa ed in Italia nel XIX secolo, è una delle malattie che ha avuto il maggiore impatto, non solo per l’alto tasso di mortalità e letalità raggiunto, ma anche per l’enorme interesse che procurò tra amministratori ed uomini di scienza. Studiare le epidemie di colera ottocentesche è importante per conoscere il carattere della società che ne fu vittima: la malattia non è infatti solamente un fenomeno biologico, ma anche sociale. Il colera ebbe un impatto assolutamente senza precedenti nell’immaginario collettivo delle popolazioni di tutta Europa: la pur progredita civiltà ottocentesca si abbandonò a reazioni esasperate che a molti ricordarono da vicino quelle apparentemente superate osservatesi nei secoli precedenti innanzi alla peste. Quando la malattia comparve per la prima volta in Italia, molti ne individuarono la causa nella collera divina, altri puntarono l’indice su strane combinazioni planetarie e meteorologiche, altri ancora parlarono di avvelenamenti voluti dal Governo per colpire le masse troppo cresciute numericamente; nello stesso tempo ci si abbandonava a sfoghi di violenza rabbiosa e ad esasperate esibizioni di religiosità, e si individuavano dei capri espiatori additati come untori, generalmente persone ai margini della società o stranieri, ma molto spesso pure medici e funzionari pubblici. Essendo una malattia prevalentemente urbana e che per sua natura trae dalla sporcizia, dalle acque inquinate, ma in generale dalle carenze sanitarie la propria linfa vitale, il colera mise inoltre in luce da una parte le debolezze dell’organizzazione sanitaria, dall’altra la povertà, la disuguaglianza di fronte alla morte, la drammatica arretratezza in fatto di igiene privata e pubblica, portando alla ribalta il problema della città come veicolo, come territorio privilegiato del contagio e del disordine. Furono soprattutto i ceti economicamente più poveri a venire colpiti. Dimostrando come le condizioni economico-sociali contribuiscano prepotentemente a determinare il quadro della morbilità di una data società. Ma allo stesso tempo mettendo in evidenza come il quadro della morbilità di una data società influenzi direttamente ed indirettamente l’economia della società stessa. Non solo: il colera condizionò almeno in parte l’andamento demografico e le decisioni politiche, ponendo il problema del controllo, nella gran parte dei casi autoritario, delle masse addensate nei grandi centri urbani.
Fu nel 1817 che il colera uscì dai suoi storici confini, l’India e la regione del Bengala in particolare, per dirigersi rapidamente verso il resto del globo terrestre. Nonostante questa data sia ormai da tempo accettata dagli storici, è difficile segnalare con certezza le circostanze precise di diffusione della malattia fuori dal suo territorio di origine ma è certo che la rivoluzione commerciale e quella dei trasporti favorirono la diffusione del morbo. L’agente eziologico del colera, malattia infettiva, è un bacillo vivente nell’acqua, il vibrio cholerae, che penetra e si moltiplica rapidamente nell’apparato digerente dell’uomo. In totale benessere l’individuo viene investito da diarrea, accompagnata da abbattimento delle forze, sensazioni di svogliatezza, vomito; quindi inizia lo “stato algido” con oppressioni al cuore, cessazione dell’emissione di urine, respirazione sempre più affannosa, scarico di feci di volta in volta più acquose, progressivo arresto della circolazione sanguigna e una sete sempre più insaziabile che provoca la morte per disidratazione nello spazio generalmente di pochi giorni. Non sempre l’ingresso del bacillo è letale, ma dipende dal grado di immunità dell’individuo. Per diffondersi all’interno dell’uomo il vibrione, penetrato nello stomaco, deve raggiungere l’ambiente alcalino dell’intestino: quindi per rivelarsi mortale è necessario un individuo debole fisicamente e non in buona salute, incapace di sopportare dosi imponenti di microbi. Un’alimentazione insufficiente e condizioni igieniche-sanitarie precarie influirono certamente in maniera decisiva nell’espansione della malattia, considerato che il bacillo si diffondeva principalmente attraverso l’ingestione di acque ed alimenti contaminati.
In Italia, nei periodi immediatamente precedenti all’arrivo del colera in pochi credevano nel rischio di un contagio. A volte erano addirittura i medici, anche di prestigio, a sostenere l’impossibilità della diffusione di un’epidemia, affidandosi a teorie spesso strampalate e prive di qualsiasi verità sperimentale. Alcuni esperti sostenevano l’impossibilità della diffusione di un flagello in un luogo tanto diverso, per caratteristiche climatiche ed ambientali, da quello originario delle Indie orientali; altri esprimevano nei loro opuscoli (alcuni dei quali ebbero un buon successo di pubblico) la convinzione che l’epidemia, anche se fosse divampata, non avrebbe mai potuto provocare una mortalità paragonabile a quella del resto d’Europa, data la dimostrata abilità dei medici italiani e le ben conosciute caratteristiche ambientali della penisola. Tuttavia, Stati come il Regno di Sardegna e quello di Sicilia si attrezzarono per premunirsi. Furono istituite quarantene e cordoni sanitari marittimi e terrestri, aumentarono i controlli e le precauzioni per ogni tipo di merce proveniente dai paesi colpiti, ed inoltre vennero predisposte pene assai severe per chiunque avesse violato le disposizioni stabilite dai magistrati di sanità addetti alla tutela della salute. Nei territori italiani la paura per il colera provocò certamente delle misure restrittive che limitarono fortemente i diritti individuali e civili dei sudditi, ma questo non fu sufficiente per far sì che le norme stabilite venissero rispettate. Spesso era incoscienza e scarsa consapevolezza del rischio, ma in molti altri casi gli interessi in gioco erano troppo alti, a causa di motivazioni economiche che costringevano molte categorie di persone, come piccoli proprietari terrieri o commercianti, a rischiare l’arresto per raggiungere i luoghi delle fiere e dei mercati dove avrebbero trovato l’opportunità di vendere i loro prodotti, frutto nella maggior parte dei casi di un’economia principalmente di sussistenza. Il territorio italiano, frammentato in numerosi stati e composto da una miriade di organi amministrativi ed apparati pubblici, contribuì al mancato funzionamento delle misure preventive. Mancò anche, da parte delle autorità, la ferma volontà di vietare le misure più dannose per l’economia; c’era inoltre una forte preoccupazione per le reazioni che esse avrebbero potuto provocare sulla massa della popolazione. Mancò insomma sia un vero coordinamento sia la risolutezza indispensabile perché le misure funzionassero realmente da deterrente all’arrivo dell’epidemia.
Il colera si affacciò in Italia per la prima volta nel luglio del 1835 probabilmente portato per via di mare da un gruppo di contrabbandieri provenienti dai territori d’oltralpe, entrati nel Regno di Sardegna dopo aver infranto il cordone sanitario. A nulla valse l’attuazione di ulteriori cordoni sanitari da parte del Governo piemontese, che comunque temporeggiò alcuni giorni prima di ammettere la presenza del contagio. Anche gli altri stati nazionali istituirono misure di quarantena, oltre ai cordoni marittimi e terrestri, fatta eccezione per il Lombardo Veneto. Come anche altrove, nell’Italia preunitaria si aprì un lungo dibattito che vide coinvolti uomini di scienza, politici ed intellettuali. Alla discussione parteciparono numerosi medici, senza dimenticare chirurghi, farmacisti e flebotomi. Presentandosi agli occhi degli studiosi una miriade di casi diversi tra loro, si ebbe una grande confusione nella comprensione della natura e della modalità del contagio. Alcuni avevano visioni discordanti riguardo alla composizione del germe, per altri ad essere vincolante era la predisposizione naturale del soggetto, dettata a loro avviso da uno stile di vita poco moderato e dagli eccessi nel bere e nel mangiare; altri ancora mettevano in evidenza il ruolo svolto dai venti e dall’aria, fino a coloro i quali vedevano nell’influenza dei terremoti e di alcune congiunzioni astrali la vera causa della malattia. Furono evidenziate l’inadeguatezza delle forme di difesa igienica pubblica degli stati italiani e le carenze nei sistemi di approvvigionamento idrico e di fognatura delle città, anche le più grandi e popolose. La gran parte dei comuni italiani non disponeva di un adeguato sistema di fornitura di acqua potabile. Oltre alla cronica scarsità di acqua mancava un nutrimento sufficiente al mantenimento di buoni condizioni fisiche e le case erano spesso in condizioni di grave insalubrità. Grave era anche il problema dei pozzi neri per lo smaltimento dei rifiuti. I sistemi di raccolta erano imperfetti, spesso realizzati con materiali che non garantivano l’impermeabilità, e gli svuotamenti avvenivano sovente in ritardo, lasciando così interi quartieri della città abbandonati alla sporcizia ed ai cattivi odori. Generalizzando, si potrebbe dire che fossero piuttosto scarse anche le attenzioni riservate alla pulizia personale.
Il colera creò anche un forte conflitto sociale: si sospettava degli stranieri, degli sconosciuti, degli emarginati, ma anche dei possidenti, spesso accusati dalle masse urbane di volere estirpare le classi popolari troppo numerose. La sensazione di un complotto voluto dalle classi privilegiate invase la popolazione fin dal primo momento. Ad essere accusati furono non solo borghesi o aristocratici, ma anche funzionari e amministratori. Non mancarono personalità ambigue che sfruttarono il malcontento popolare per realizzare rivolte di classe e rovesci istituzionali. Specialmente al sud esplosero violente reazioni e la folla inferocita si abbandonò a gesti di estrema violenza, scatenati spesso da pretesti di scarso significato. A creare ed aggravare un tale atteggiamento contribuirono i numerosi problemi che la classe medica italiana dovette affrontare nella prima metà dell’Ottocento. I medici erano divisi sul piano concettuale ed anche il loro ruolo veniva sovente messo in discussione, non solo dalle classi infime. La classe medica sembrava legata ad una medicina che non aveva ancora sposato il metodo sperimentale come propria guida e non era raro che alcuni si allontanassero dalla pratiche ufficiali usando metodi curativi primitivi e vicini a forme di cura popolare. Fra tanta abbondanza di rimedi erano all’ordine del giorno diatribe tra colleghi che prescrivevano metodi preservativi diversi e non erano insolite decise polemiche pubbliche per difendere le proprie forme di cura da quelle rivali. Se ciò sconcertava e rendeva scettiche le classi più elevate, alimentava nello stesso tempo una forte antipatia delle classi inferiori nei confronti di questi uomini. Era più frequente che esse si affidassero a ciarlatani e guaritori popolari, nonostante specialmente durante la prima epidemia di colera, sul suolo italico i confini tra le due pratiche non fossero così ampi.
I ciarlatani, grazie ai loro modi semplici ed a cure che la gente sentiva più vicine alle proprie tradizioni (erbe naturali, foglie, radici) godevano di una familiarità coi pazienti solitamente sconosciuta ai medici di professione, e sfruttavano anche la maggiore vicinanza col malato. La diffidenza delle classi popolari nei confronti della medicina ufficiale, oltre ad emergere nel rapporto coi medici condotti e coi loro metodi di cura, si estese anche al ricovero in ospedale. Se i ciarlatani rappresentarono l’ancora di salvezza medica agli occhi delle classi popolari del primo Ottocento, la religione rappresentò quella spirituale e processioni e preghiere furono all'ordine del giorno, ma il risultato fu che gli assembramenti conseguenti favorirono ulteriormente la diffusione dell'epidemia.
Dopo avere imperversato per due anni il colera lentamente si arrestò, lasciando gli stati italiani sul finire del 1837. Il colera del 1835-37 produsse una crisi economica specialmente nelle località centro dei maggiori traffici commerciali che furono tra le più colpite dal morbo.
L'epidemia del 1835-37 fu la prima nel territorio italiano ma non l'ultima, né la più grave: il colera tornò nel 1854-55 e soprattutto nel 1865-67, triennio in cui il bilancio finale fu di oltre 160.000 morti. Si trattò di un evento particolarmente drammatico per un paese che stava faticosamente uscendo dalle guerre d’Indipendenza ed ancora alle prese con difficoltà economiche e militari. Lo Stato monarchico fu duramente messo alla prova, e vennero evidenziate ancora una volta le difficoltà nella comprensione della malattia, nell’attuazione di efficaci politiche sanitarie e soprattutto le arretratezze culturali di un paese, che, sebbene avesse rotto politicamente col passato, era composto ancora da una popolazione in gran parte analfabeta, legata a tradizioni e superstizioni antiche. Nonostante mancasse ancora una volta un efficace coordinamento, le voci di allarme comportarono quantomeno la deliberazione di norme anticontagio: queste tuttavia non impedirono l’avanzata del morbo, che fece la sua prima comparsa l’8 luglio 1865 ad Ancona. Ma non solo lo scarso coordinamento ma anche i rimedi curativi furono generalmente gli stessi del passato. Poco di nuovo dunque rispetto all’epidemia del 1835-37, nonostante nella seconda metà del XIX secolo ai progressi di metodo della medicina fossero corrisposti altrettanti progressi nell’analisi delle singole malattie, e tra queste pure del colera.
Decisiva fu l’intuizione del chimico tedesco Max Von Pettenkofer, che aveva analizzato le possibili interrelazioni tra il diffondersi delle epidemie e l’ambiente. Pettenkofer accertò la diffusione del colera attraverso contagio, ponendo l’attenzione sul ruolo attivo svolto in tal senso dalle acque inquinate e dalle deiezioni umane dei soggetti colpiti. Anche l’epidemia del 1865-67 non mostrò sostanziali cambiamenti nelle reazioni popolari della gente, fatte di panico ed esasperazione. Col propagarsi del flagello, si ripeterono, quantomeno in alcuni casi, le solite scene già viste in tante città italiane nelle precedenti epidemie come quella del 1835-37. Al rifiuto del medico si unì inoltre ancora quello degli ospedali. Più che la medicina, ancora per tutto il XIX secolo, furono dunque guaritori popolari ed amuleti i principali riferimenti delle masse.
Dallo studio delle epidemie di colera dell'Ottocento emerge come fu soltanto nell’ultimo ventennio del secolo infatti, che la questione sanitaria venne affrontata con fermezza in Italia, periodo in cui Governo e Comuni si impegnarono più concretamente che in precedenza al fine di migliorare la capacità di controllo igienico e sanitario dell’ambiente urbano: ciò anche a seguito della scoperta del virus colerico da parte di Koch, avvenuta nel 1883, la quale contribuì a porre in primo piano per la prima volta il momento della prevenzione rispetto a quello terapeutico. Difficile individuare invece sensibili cambiamenti nelle reazioni popolari, che innanzi alle successive epidemie di colera, (ve ne furono ancora, benché minori, per tutto il secolo), sarebbero state ancora caratterizzate da psicosi, pregiudizi e superstizioni, e la gente avrebbe reagito innanzi alla malattia di nuovo affidandosi più alla devozione religiosa ed alla tradizione che alla medicina.
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BIBLIOGRAFIA
- Il colera nell’Italia dell’Ottocento: l’epidemia di Ancona del 1865-67, di Andrea Pongetti - tesi di laurea in Storia sociale, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Bologna, anno accademico 2005-06
- Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste europea alla guerra mondiale 1348-1918, di G. Cosmacini – Laterza, Roma-Bari 1987
- «L'Italia dell'Ottocento di fronte al colera», di F. Messina e A. Lucia, in Storia d'Italia, Annali n. 7 – Einaudi, Torino 1984
- «Uomini ed epidemie nel primo Ottocento: comportamenti, reazioni e paure nello Stato pontificio», di P. Sorcinelli, in Storia d'Italia, Annali n. 7 – Einaudi, Torino 1984
- Il mostro asiatico. Storia del colera in Italia, di E. Tognotti – Laterza, Roma-Bari 2000
- Lo sporco e il pulito. L'igiene del corpo dal Medioevo ad oggi, di G. Vigarello – Marsilio, Venezia 1985
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