Nel settembre del 9 d.C. Publio Quintilio Varo viene sconfitto da
Arminio, re dei germani. Ma dietro al massacro e al disastro militare si nascondono tradimenti, rancori e ripicche. Nelle quali fu coinvolto lo stesso vincitore
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L'oscura selva di Teutoburgo
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Il nove dopo Cristo è ricordato nella storia gloriosa dell'antica Roma come annus horribilis, in cui gli dei si scagliarono con violenza contro gli animi sconcertati dei cittadini, contro chi visse in prima persona quei tragici avvenimenti e chi ne avvertì solamente l'eco. La disastrosa battaglia tra le foreste paludose della Germania settentrionale scosse brutalmente l'atmosfera assopita e tranquilla instauratasi con la Pax Augustea.
Proprio nei mesi precedenti l'Illiria era stata sottomessa e trasformata in provincia e così anche la Pannonia. Germanico, il famoso generale nipote di Tiberio, si era addirittura meritato gli ornamenta triumphalia per il suo comportamento eroico in Dalmazia. Sembrava che nulla potesse fermare quella formidabile macchina da guerra che era l'esercito romano.
I romani, forti della loro potenza, che proprio allora raggiungeva i più alti livelli storici dalla fondazione dell'urbe, dopo Teutoburgo si sentirono abbandonati e puniti dai loro numi.
La sorte gli si era rivoltata contro e non era certo la prima volta. Chi, giovane o ormai vecchio, non aveva parlato almeno una volta delle terribili invasioni di Cimbri e Teutoni che avevano sconfitto le legioni di Papirio Carbone nel 113 a.C., poi scongiurate per miracolo dall'eroico Caio Mario?
Persino la gravissima disfatta di Carre (53 a.C.), in cui appena 60 anni prima perse la vita il triumviro Crasso, sembrò impallidire nei ricordi del popolo con l'apparizione sinistra del fantasma di Teutoburgo.
I germani continuavano ancora, con tutto il loro ardore, e la loro usuale, atavica ferocia, a scuotere le fondamenta del gigantesco impero il quale, all'improvviso, tremava sotto i colpi di questi amanti irriducibili della libertà.
Libertà individuale, naturalmente, non quella di popolo con una chiara coscienza all'autodeterminazione, poiché i germani erano notoriamente divisi in mille gruppi familiari ostili e violenti tra loro e non c'era per loro niente di più attraente della guerra e della morte in battaglia. Almeno fino a quando il ventisettenne Arminio, campione della tribù dei cheruschi (il loro territorio si estendeva dalla selva di Teutoburgo fino all'Elba, dallo Harz alla zona dell'attuale Hannover), riuscì con la sua spregiudicatezza e il suo impeto giovanile a coagulare le inquiete forze germaniche contro il nemico comune.
Arminio era nato intorno al 18 a.C. e aveva ottenuto per meriti militari la tanto ambita cittadinanza romana, guadagnandosi addirittura la prestigiosa carica equestre. Durante la campagna di Pannonia si era messo in mostra per le sue capacità e per la sua lealtà verso l'imperatore. Aveva imparato bene l'arte militare romana e presto se ne sarebbe servito per guidare la confederazione di tribù germaniche contro l'odioso nemico. Insomma, era una persona da cui non ci si aspettava certo un tradimento; e qui stava tutta la sua accortezza e la sua capacità dissimulatrice. Come osserva lo storico Fisher-Fabian, Arminio vinse la battaglia di Teutoburgo per semplice e cristallina slealtà.
Tacito lo descrisse mal celando la sua evidente simpatia per il giovane germano. Prima lo accusa di falsità e vigliaccheria per il tradimento contro i romani, che comunque lo adottarono e gli diedero fiducia; poi ne tesse le lodi (con la sua solita sottile e velata critica contro la corruzione interna allo Stato), individuando in lui il liberatore eroico delle sue genti vessate da un popolo senza scrupolo alcuno.
Poco prima Teutoburgo la situazione in Germania sembrava ormai sotto controllo. Le precedenti spedizioni furono intraprese con successo grazie alle spedizioni di Tiberio e Germanico, con le quali si era spostato il confine orientale dell'impero dal Reno fino all'Elba. Con una spettacolare operazione anfibia le tribù che vivevano tra i due fiumi vennero strette da una colossale operazione a tenaglia: una flotta risaliva l'Elba dal mare del Nord mentre le truppe di terra incalzavano da sud. In quattro anni, per mezzo di quindici legioni e una accorta politica di integrazione filoromana, la Germania sembrò entrare a far parte, di fatto, dell'impero. Anche l'obiettivo più difficile, la conquista delle inespugnabili fortezze dei Marcomanni comandate dal loro re Maroboduo, non costituiva più un ostacolo. Non rimaneva che formalizzare la nuova conquista.
Era metà settembre quando accadde il disastro. Tiberio, ormai associato ad Augusto nella guida dell'impero, era rientrato a Roma dalla Germania da appena cinque giorni quando seppe della funestissima sconfitta di tre legioni romane, la XVII, la XVIII e la XIX, di tre squadre di cavalleria e di sei coorti di ausiliari durante la lunga marcia per svernare nei campi al di là del Reno. Con loro era stato annientato il fiore della gioventù romana selezionato nell'Italia del nord, il vanto della micidiale organizzazione militare dell'impero.
A guidarle era il generale Publio Quintilio Varo, condannato dai contemporanei e da secoli di storiografia come il principale colpevole di quella terribile disgrazia. Velleio Patercolo, la fonte più importante per inquadrare l'avvenimento, ne crea un ritratto per niente lusinghiero. Parla di lui come di un uomo mediocre, anche se di natura mite e di comportamento pacifico, ma più intento ai propri affari che a quelli dello stato. Era molto vicino ad Augusto, avendone sposato la pronipote e aveva fatto carriera come governatore della ricca provincia d'Africa e poi della Siria che, a sentire Velleio, aveva spremuto come un limone: «vi era arrivato povero mentre la regione era ricca, la lasciò povera, mentre ricco era lui». In seguito, dal 6 d.C, divenne generale delle truppe sul Reno. Una responsabilità grandissima. I popoli del Reno erano indocili e gelosi della loro autonomia e sempre pronti a improvvise spallate. Forse non considerò nella giusta misura la situazione. La Germania era una bomba a orologeria e il generale non riuscì neanche ad applicare la politica del divide et impera, dimostratasi efficace in altre occasioni. C'è anche da dire che Augusto non era tanto sprovveduto da affidare un compito così delicato a una persona che non godesse della sua piena fiducia. L'imperatore era deciso a spostare il limes dal Reno all'Elba e scelse il generale non perché fosse suo parente ma perché lo riteneva capace. Ma Varo non seppe mediare tra vincitori e vinti. La situazione gli sembrò così tranquilla da fargli perdere la misura delle cose. Fischer-Fabian sostiene che «Varo era soprattutto un uomo dell'amministrazione, un giurista per eccellenza, convinto che a quei selvaggi non poteva accadere di meglio che essere soggetti alla sua giurisdizione». Sappiamo bene quanto si sbagliasse. Velleio incalza sottolineando la sua sconsideratezza e il suo abuso di potere tanto che «credeva di amministrare la giustizia nel foro in veste di pretore urbano e non di comandare un esercito nel cuore della Germania».
Tiberio, dopo la morte del fratello Druso, aveva condotto a termine l'occupazione della Germania; si trattava ora di stabilizzare la conquista. Tra le città di Xanten (Castra Vetera) e Magonza si estendeva una lunga linea fortificata con presidi di cinque o sei legioni che avrebbero garantito la solidità della conquista. Bonn era la base della flotta che garantiva facile transito alle galee da guerra che collegavano il basso Reno al mare del Nord. Inoltre erano state costruite grandi strade, ponti e tutto ciò che serve a creare una potente rete di mobilità e sicurezza interna. A Treviri era la sede dell'ufficio delle imposte e tra processi sommari e tasse da rapina si esasperava l'animo dei germani, ormai decisi a scegliere il minore tra i due mali: meglio morire in battaglia che sottostare a simile schiavitù. Varo si arrogò pure il diritto di tenere sedute di tribunale con processi di dubbia regolarità. Come scrive ancora Velleio, credeva «di poter piegare col diritto coloro che non si erano lasciati sopraffare dalla spada».
Ma la troppa sicurezza inganna. E d'altronde nessuno sospettava che il giovane Arminio stesse mobilitando i germani per un'offensiva che si rivelerà micidiale. Varo era così tranquillo che - beffa suprema - la sera precedente la battaglia aveva addirittura cenato con lo stesso Arminio.
Eppure Varo era stato messo in guardia sulla possibilità di un'imminente ribellione proprio da un componente della tribù dei cheruschi: il divide et impera continuava a funzionare.
Anche nella stessa tribù di Arminio si delinearono due partiti pro e contro Roma. Segeste, un importante principe cherusco, aveva buoni motivi per contrapporsi ad Arminio. Intendeva servirsi dell'amicizia coi romani, scalzare Arminio dalla sua carica e rafforzare la sua posizione personale. Il suo odio nei confronti del giovane ribelle si acuì ulteriormente perché Arminio gli rapì una sua figlia, Tusnelda, già promessa a un altro uomo. Segeste quasi riuscì a far naufragare all'ultimo momento i piani dei ribelli. Disonesto lui, non meno Arminio. Tacito evidenzia come si passò da un antagonismo politico tra i due cheruschi, ad un odio personale.
Arminio aveva già da mesi mobilitato le forze ribelli e queste erano pronte in qualsiasi momento a sferrare l'attacco. Con sangue freddo e con l'immanente pericolo di vedersi scoperto, rivelò l'inesistente ribellione di una tribù lontana e Varo ci cascò come uno scolaretto ingenuo. Durante la marcia di ritorno verso il Reno, nei campi invernali, il generale decise di dare una dimostrazione di forza ai rivoltosi, come fosse una normale operazione di polizia.
Segeste avvisò immediatamente Varo della trappola tesagli da Arminio. Gli rivelò che Arminio intendeva attirare le armate romane in un luogo a lui favorevole per poi intrappolarle ed attaccarle. Varo non gli diede il peso dovuto. Non poteva credere che il giovane germano con cui spesso passava ore a parlare di politica e giurisprudenza, potesse tradire la fiducia di chi lo aveva accolto con tutti gli onori nelle fila del più potente esercito del mondo. Non valse neppure la richiesta di Segeste che lui e Arminio fossero arrestati fino al momento che le sue rivelazioni fossero risultate vere o false. Si offriva addirittura come ostaggio perchè Varo gli credesse e prendesse le urgentissime precauzioni. Ma Varo, benché in un primo momento sobbalzasse alla rivelazione, non diede il peso dovuto alle sue parole. «Era semplicemente incredibile - scrive Fisher-Fabian - che un cavaliere romano, il pluridecorato condottiero di un corpo ausiliario, una persona che egli trattava come un figlio, che quasi ogni giorno ospitava sotto il suo tetto, potesse tradire lui, Quintilio Varo».
Le dimensioni della colonna in marcia erano enormi. Si calcola che, sommando alle tre legioni i reparti ausiliari, i civili, i tecnici, i mercanti, i familiari delle truppe e tutte quelle unità che normalmente accompagnavano le truppe durante gli spostamenti, si arrivasse all'enorme cifra di trentamila persone. La colonna era disposta in sei fila e considerando che si rispettava la distanza di un metro tra le unità, è facile calcolare che si allungasse per una ventina di chilometri. Varo era assolutamente tranquillo, conduceva l'esercito in compagnia di quei principi germani che lui considerava fedelissimi. Non sospettava minimamente che migliaia di germani seguissero come ombre la sterminata fila ignara di dirigersi verso una morte orrenda.
Tutta la zona tra il Weser e il Reno era in fermento. Sempre nuove tribù si aggiungevano ai rivoltosi. Catti, angrivari, caluconi, marsi e brutteri si allearono ad Arminio, il quale con una scusa o un'altra, lasciava le truppe ausiliarie da lui comandate e si spostava in lungo e in largo per convincere i vari principi ad unirsi ai ribelli per la grande imboscata finale.
Perfino i partiti filoromani come quello di Segeste furono costretti a collaborare e andarono a ingrossare la già innumerevole turba di rivoltosi.
Il giovane cherusco conosceva troppo bene la tecnica militare romana e sapeva bene che affrontare le legioni in campo aperto avrebbe significato una rotta sicura. Al contrario, i germani erano abituati a muoversi agilmente tra le fitte foreste e le paludi (quelle che Tacito descrive come silvas horridas aut paludibus infida) in cui i romani non avrebbero potuto schierarsi in maniera ordinata per difendersi dall'attacco. I germani erano soliti spostarsi a piedi, contavano sulla velocità, muniti di armi leggere e abituati ad attacchi fulminei, isolati e micidiali, per poi riparasi velocemente nel buio delle foreste. E così accadde.
Il giorno stesso dell'attacco, il 9 settembre, Arminio si staccò dalla colonna romana adducendo come scusa la rivolta di una tribù che egli stesso avrebbe sedato. A peggiorare le cose vi era il maltempo, che in autunno era una costante in Germania. Arminio contava molto su questo fattore, il giorno era buio come la notte e la tempesta aveva reso impraticabile il terreno, i continui smottamenti e le voragini rendevano difficile lo spostamento dei carriaggi, delle bestie da soma, delle pesanti attrezzature e delle macchine belliche. Quella interminabile colonna di uomini si ritrovò bloccata su se stessa, al buio più totale, in mezzo al fango e alla fitta vegetazione che rendeva loro impossibile qualsiasi movimento. Quasi non ci si vedeva gli uni con gli altri. In ogni caso Varo non immaginava minimamente quel che stava per accadere e non era neppure la prima volta che attraversava terreni così difficili.
Ma Varo non seguì la solita strada veloce che conduceva ai campi invernali perchè fu informato di una rivolta scoppiata intorno al massiccio di Kalkriese e deviò verso quella zona per impedire che la sommossa di una tribù fosse motivo di una più estesa ribellione.
Arminio era riuscito ad attirare le legioni in una zona tra una grande palude e un massiccio roccioso che stringevano il passaggio e costringevano le truppe, senza possibilità di fuga, a un passaggio obbligato e fatale.
All'improvviso le prime schiere di germani uscirono allo scoperto dal buio delle foreste e con i loro consueti attacchi-lampo cercarono, con successo, di scompaginare e disperdere la colonna. Le loro urla disumane si univano al rombo del violento temporale che flagellava pesantemente gli uomini. Varo non si rese subito conto della gravità della situazione, aspettava fiducioso il ritorno di Arminio che avrebbe domato con le sue truppe ausiliarie quel che sembrava, a prima vista, solo un piccolo focolaio di rivoltosi. Quando la situazione iniziò a precipitare non diede ordine di seguire il nemico bensì di continuare la marcia. Nella notte fece allestire un campo fortificato (consolazione dei legionari) con tanto di palizzate, fossati, terrapieni, trincee e cavalli di Frisia, consapevole ormai dell'aperta ribellione dei suoi ex alleati e del grave pericolo incombente. Le perdite del primo giorno di battaglia furono perlomeno contenute: il peggio doveva ancora arrivare.
Quando la mattina seguente, il 10 settembre, Varo scrutò il cielo in tormenta realizzò che stava per accadere il peggio. Comandò di bruciare i carriaggi e di abbandonare tutto ciò che potesse intralciare le manovre; la colonna proseguì la marcia in ordine di battaglia fino a quando non si trovò un luogo adatto per disporre le coorti e la cavalleria in posizione d'attacco. Qui il generale pensò forse di poter prendere in contropiede il nemico e disperderlo nelle foreste. Attese quindi che i germani attaccassero con il loro usuale schieramento a cuneo. Ma Arminio conosceva troppo bene l'arte militare romana per cascare nella più ovvia delle trappole e continuò quindi con lo stesso schema del giorno precedente. Con la differenza che ora le sue truppe erano ingrossate di dieci volte e si aggiungevano continuamente nuovi contingenti giunti a dar man forte da ogni parte della Germania.
Le legioni furono prese alle spalle mentre tentavano disperatamente di aprirsi un varco nella foresta con asce e spade. Il buio e la paura fecero il resto. I germani arrivavano da ogni parte e con la solita tattica degli attacchi-lampo decimarono in poche ore la maggior parte delle truppe che ormai cercavano solo di fuggire in maniera disordinata. Si tentò perfino di costruire un nuovo forte che permettesse ai romani di ripararsi e aspettare rinforzi (che non arrivarono mai) ma i soldati, stremati e senza più speranza, non avevano più la forza di scavare, erano al limite delle loro energie, consumate dalla marcia dei giorni precedenti. La loro non era che una misera processione di fantasmi che si avviavano verso la morte. Allo sterminio del secondo giorno seguirono gli orrori della rappresaglia germana contro i pochi sopravvissuti. Molti furono sepolti vivi o crocifissi. I reduci raccontarono i supplizi inflitti dagli uomini di Arminio. Molti soldati furono scuoiati vivi e lasciati morire lentamente mentre altri subirono i più feroci tormenti con la spaventosa colonna sonora delle urla bestiali dei germani. Giunta sera i pochi superstiti temevano ormai la morte certa. L'unica cosa da fare, appena giunto il nuovo mattino, era tentare una fuga disperata da quell'inferno.
L'11 settembre i pochi reparti sopravvissuti si diedero a una fuga disordinata o si lanciarono contro il nemico con la sola forza della disperazione. Alcuni si gettarono sulle spade del nemico per evitare di essere catturati e torturati. Un aquilifero si sacrificò buttandosi in uno stagno per impedire che il simbolo della sua legione cadesse nelle mani del nemico. Un altro, già prigioniero, si uccise con le catene che lo tenevano legato. La cavalleria, ultimo residuo della resistenza romana, si piegò e venne decimata. I fuggiaschi furono inseguiti, i superstiti torturati e straziati.
Le teste dei romani figuravano come macabri trofei in cima alle lance disseminate per chilometri nella foresta. Era giunta l'ora anche per Varo, che sapeva bene cosa fare in questi casi. L'unica cosa, come da radicata tradizione romana, era il suicidio: si diede quindi la morte con la propria spada. Molti ufficiali seguirono il suo esempio. Più tardi il corpo venne portato quasi completamente carbonizzato al cospetto di Arminio; i soldati romani avevano cercato di bruciarne i resti perché non cadessero in mano nemica.
In pochi riuscirono a salvarsi, nascondendosi nella foresta di Alisio.
Il corpo di Varo venne decapitato e la testa fu inviata ad Augusto come lugubre trofeo di guerra. Guai ai vinti! L'imperatore, ormai anziano (71 anni), impazzì dal dolore. I contemporanei lo descrivono in preda a un furore che rasentava la follia. Aveva perso le sue migliori legioni e il fatto che Varo fosse suo parente avrebbe offuscato la reputazione di tutta la casata. Per mesi non si tagliò più barba e capelli, si vestì a lutto e spesso lo si vedeva piangere e battere la testa gridando quella frase che rimarrà tristemente famosa nei secoli: «Varo, Varo, rendimi le mie legioni!». Da quel momento Augusto non volle più avere germani nella sua guardia personale e abbandonò per sempre l'idea di spostare i confini all'Elba. Il limes si cristallizzò sul Reno, la Germania era ormai perduta.
Sei anni più tardi i romani, guidati da Germanico (nipote di Tiberio perché figlio del fratello Druso), tornarono nei luoghi del disastro per dare degna sepoltura ai caduti. Si fecero ricondurre sul campo di Kalkriese avvalendosi dell'aiuto dei veterani della battaglia, gli unici che ne potevano indicare il luogo.
Ad orrore si aggiunse orrore: le legioni ritrovarono i resti degli accampamenti e delle trincee scavate durante la battaglia. Per una distanza di quattro chilometri il terreno era imbiancato dalle ossa delle vittime; molte erano appese agli alberi come monito ai passanti. Furono recuperate due delle tre aquile vessillifere perse in battaglia e a Germanico non restò altro che sotterrare i poveri resti in una fossa comune su cui venne eretto un tumulo che funse da monumento ai caduti.
Arminio continuò a comandare le tribù dei ribelli fino a quando, durante una cena, fu ucciso a tradimento da un suo parente. Colui che aveva sconfitto con l'inganno Roma fu assassinato con l'inganno da un suo stesso concittadino.
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BIBLIOGRAFIA
-
I Germani, di S.Fisher-Fabian - Garzanti, Milano 1985
-
Storia romana, di Velleio Patercolo - BUR, Milano 1997
-
Augusto, di A.Spinosa - Mondadori, Milano 1996
-
Germania, di Tacito - Mondadori, Milano 1991
-
Storia romana dalle origini al 476 d.C., di M. A. Levi e P. Meloni - Cisalpino-Goliardica, Milano 1993
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Una cultura barbarica: i Germani, di E. A. Thompson - Laterza, Bari 1976
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