Nell'Italia degli anni '70 emerge un movimento terrorista che si ripropone di portare a termine l'"incompiuta lotta di liberazione partigiana" e di "affrancare il popolo italiano dalla servitù statunitense e delle sue multinazionali". Il sogno della rivoluzione proletaria passa dai gesti eclatanti all'eversione armata: è l'attacco al cuore dello Stato.
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L'ombra della Stella: storia delle Brigate Rosse
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(Prima Parte) |
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Il Sessantotto rappresentò per molti giovani un'occasione per far sentire la propria voce. Fu una stagione che portò a galla il desiderio di partecipazione, di giustizia, di libertà insieme alla convinzione di poter trasformare le regole stesse della politica.
Ammaliati dalla Rivoluzione Culturale in Cina e dalle imprese di qualche anno prima di Ernesto "Che" Guevara in Bolivia - e nello stesso tempo, delusi dei loro risultati - molti giovani comunisti iniziarono a sostenere che, essendo l'Italia un Paese avanzato, l'unico modo per cambiare veramente la società e la politica, guidate da "una borghesia sfruttatrice e serva degli imperialisti", era quello di risvegliare un movimento insurrezionale di massa per rovesciare il potere. Da qui il proliferare di gruppi, circoli e pubblicazioni con le più diverse denominazioni: questo variegato universo, affiancandosi a gruppi già esistenti di estrema sinistra, intendeva affermare la propria presenza nelle varie cerniere di una società sempre più vulnerabile.
Ebbe così inizio la propaganda fuori dalle fabbriche e dalle università.
I primi a farsi sentire furono "Sinistra Proletaria", "Servire il Popolo", "Avanguardia Operaia" (sorta dall'unificazione di "Avanguardia Operaia" di Milano con "Sinistra Leninista" di Roma, "Circolo Rosa Luxemburg" di Venezia e "Lenin" di Mestre), "Lotta Continua", "Potere Operaio", "Collettivo Politico Metropolitano". Proprio quest'ultimo, nell'agosto del 1970, decise di portare lo scontro politico sul terreno della lotta armata, al fine di accelerare il processo che avrebbe dovuto portare alla rivoluzione: proprio da qui sarebbe nato il primo nucleo delle Brigate Rosse.
Nella primavera dello stesso anno, nel quartiere milanese di Lorenteggio, aveva inizio la propaganda di questo movimento: attraverso la diffusione dei primi volantini firmati "Brigata Rossa", l'organizzazione volle farsi conoscere, rendendo chiaro che una nuova organizzazione aveva appena iniziato la sua "lotta" contro gli "imperialisti" e che tale organizzazione avrebbe contribuito, con l'aiuto delle masse educate alla guerra civile, alla liberazione del proletariato dal perverso sfruttamento a cui erano sottoposti.
L'organizzazione che successivamente diverrà le Brigate Rosse nacque ufficialmente a Pecorile, in provincia di Reggio Emilia, nell'agosto del 1970: qui, ottanta delegati di Sinistra Proletaria e del Comitato Politico Metropolitano si riunirono per prendere decisioni su forme di lotta più incisive. Il primo gruppo era formato da esponenti del movimento studentesco dell'Università di Trento (Curcio, Cagol, Semeria, Besuschio), militanti della FGCI emiliana (Franceschini, Gallinari, Ognibene, Paroli, Pelli) e operai provenienti soprattutto dalla Sit-Siemens (Moretti, Alunni, Bonavita).
Le esperienze rivoluzionarie degli altri Paesi influenzarono molto i brigatisti. La stessa sigla BR deriva dal gruppo rivoluzionario tedesco della "Frazione Armata Rossa" (RAF), mentre il simbolo deriva dalla stella sghimbescia dei guerriglieri uruguayani Tupamaros.
«Contrariamente a quanto è stato detto da qualcuno - ha spiegato Renato Curcio, capo storico della formazione - non abbiamo voluto ispirarci alle azioni partigiane e neanche a quelle del movimento operaio tradizionale, sia pure rivoluzionario. Noi volevamo imparare dalle esperienze nuove che si agitavano nel mondo: guardavamo ai Black Panthers, ai Tupamaros, a Cuba e alla Bolivia di Che Guevara, al Brasile di Marighella».
Le BR hanno operato in Italia attraverso una struttura paramilitare, compartimentata e organizzata per colonne e cellule, compiendo atti di guerriglia e omicidi politici con lo scopo ultimo di abbattere lo "Stato Imperialista delle multinazionali".
Secondo la prospettiva degli ideologi delle BR, il movimento si inseriva in un contesto di una "incompiuta lotta di liberazione partigiana dell'Italia" e di una decisiva liberazione del popolo italiano dalla "servitù statunitense e delle sue multinazionali".
Per questo, secondo la logica del suo esecutivo, le Brigate Rosse avevano il compito di «indicare il cammino per il raggiungimento del potere e l'instaurazione della Dittatura del proletariato e la costruzione del comunismo anche in Italia». Tale obiettivo doveva realizzarsi in due distinti modi: attraverso la guerriglia urbana e con azioni politico-militari (gambizzazioni, ferimenti e omicidi politici); con la diffusione di documenti di analisi politica detti "Risoluzioni strategiche", che indicavano gli obiettivi primari e la modalità per raggiungerli.
Sostanzialmente sono tre le fasi storiche che individuano la parabola delle Brigate Rosse: la prima, dal 1970 al 1974, è quella della "propaganda armata"; la seconda, dal 1974 al 1980, è quella del vero e proprio "attacco al cuore dello Stato"; la terza, dal 1981 al 1988, è quella della divisione e della dissoluzione.
Nella riunione di Pecorile, la prima formazione decise anche che la clandestinità del gruppo doveva divenire un sussidio fondamentale del grado di terrore da esercitare: la politica rivoluzionaria fu così adattata alla lotta armata, mentre la lotta armata portata avanti in clandestinità fu nobilitata come strategia fondante del progetto rivoluzionario.
Il 14 agosto 1970 nello stabilimento milanese della Sit-Siemens, comparirono i primi volantini con la stella a cinque punte: il contenuto era pungente e illustrava precise situazioni aziendali, oltre a prendere di mira i dirigenti e i capi reparto (definiti "aguzzini"). Otto giorni dopo si replicò, sempre alla Sit-Siemens milanese: all'uscita degli operai un motociclista lanciò altri volantini, questa volta con i nomi e gli indirizzi dei dirigenti, dei capireparto e di alcuni operai dell'azienda accusati di avere legami col "padrone". Questa volta alle accuse si sommarono le minacce. Riferendosi all'elenco, il volantino precisava che le persone citate nel volantino "dovevano essere colpite dalla vendetta proletaria" perché "simboli dell'oppressione capitalista" e quindi "servi del padrone". Nessuno si preoccupò di questi gesti.
L'annuncio ufficiale della nascita delle Brigate Rosse, fu dato da Sinistra Proletaria, il 20 ottobre 1970, tramite il suo "foglio di lotta": «L'autunno rosso è già cominciato, una scadenza di lotta decisiva nello scontro di potere [.]. Contro le istituzioni che amministrano il nostro sfruttamento [.] la parte più decisa e cosciente del proletariato in lotta ha già cominciato a combattere per costruire una nuova legalità, un nuovo potere [...] ne sono esempi l'occupazione e la difesa delle case occupate come unico modo di avere finalmente la casa e l'apparizione di organizzazioni operaie autonome [le Brigate Rosse] che indicano i primi momenti di autorganizzazione proletaria per combattere i padroni e i loro servi sul loro terreno, alla pari, con gli stessi mezzi che usano contro la classe operaia: diretti, selettivi, coperti [.]». Anche in questo caso, nessuno si allarmò più di tanto.
Nel frattempo, proprio nel 1970, un gruppo fuoriuscito dal Collettivo Politico Metropolitano - composto da Mario Moretti, Corrado Simioni, Prospero Gallinari, Duccio Berio e Vanni Mulinaris - creò una struttura "chiusa e sicura", superclandestina (da qui il nome di Superclan) che potesse entrare in azione, come racconta Curcio, «quando noi, approssimativi e disorganizzati, secondo le loro previsioni saremmo stati tutti catturati». Dopo poco tempo il gruppo (fatti salvi Moretti e Gallinari) si trasferì a Parigi dove, sotto la copertura della scuola lingue Hyperion, agiva - secondo alcuni - come una vera centrale internazionale del terrorismo di sinistra. I contatti tra Moretti e il Superclan continuarono per altri dodici anni, ed è singolare il fatto che a gestire il rapimento Moro fu proprio Mario Moretti, lo stesso che - come vedremo - guiderà le BR nel loro periodo più militarista e sanguinario.
Nel primo periodo le Brigate Rosse si limitarono ad atti teppistici contro i beni delle aziende o dei loro dirigenti. La prima azione risale al 17 settembre 1970, con l'incendio dell'automobile di Giuseppe Leoni, dirigente della Sit-Siemens. L'ultima azione contro "le cose" fu quella del 25 gennaio 1971: otto bombe incendiarie furono collocate sotto altrettanti autotreni fermi sulla pista di Lainate dello stabilimento Pirelli.
Nel marzo del 1972, invece, il gruppo fece il suo primo salto di qualità: il 3 marzo l'ingegnere Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit-Siemens, fu prelevato di fronte allo stabilimento, condotto in un furgone e sottoposto a un interrogatorio sui processi di ristrutturazione in corso nella fabbrica. Prima di essere rilasciato, dopo poche ore, il dirigente fu fotografato con un cartello offensivo al collo.
Il gruppo si attribuì il sequestro con una rivendicazione scritta: «Venerdí alle ore 9 le Brigate Rosse hanno arrestato di fronte allo stabilimento della Sit-Siemens il dirigente Idalgo Macchiarini. Dopo averlo processato, lo abbiamo consigliato a lasciare al più presto la fabbrica e quindi rilasciato in libertà provvisoria. Alcuni si chiederanno "perché proprio Macchiarini". In fondo pur essendo il primo responsabile dell'organizzazione del lavoro dello stabilimento TR e quindi responsabile dei livelli di sfruttamento che colpiscono oltre 3.000 operai o dei provvedimenti disciplinari, egli è solo il numero 3 della Linea dura neofascista che da oltre un anno si è affermata nella fabbrica e che vede in Villa (numero 1) e Miccinelli (numero 2) i battistrada e in Tortarolo "pesce piú piccolo," il gregario provocatore. Macchiarini è un brutto cane rognoso e gli operai lo sanno tutti. [.]. Macchiarini, per concludere, è quel che si dice un tipico neofascista: un neofascista in camicia bianca, e cioè una camicia nera dei nostri giorni. Macchiarini dunque, a suo modo e al suo livello, è un responsabile della guerra che la borghesia ha scatenato su tutti i fronti e su tutti gli aspetti della vita produttiva e sociale delle masse. Per questo abbiamo inteso renderlo celebre, "celebrando" la sua mediocrità [.]. Questo processo proletario a Macchiarini è però anche un avvertimento a tutti gli altri - in qualunque fabbrica o in qualsiasi parte del paese prestino servizio - che: alla guerra rispondiamo con la guerra. [.]. Nessuno tra i funzionari della controrivoluzione antioperaia dorma più sonni tranquilli; nella grande città dello sfruttamento non c'è porta che non si possa aprire e le "forze dell'ordine" (pubbliche e private) per quanto numerose già siano e per quanto numerose ancora possano diventare: nulla possono contro la guerriglia proletaria! Mordi e fuggi! Niente resterà impunito! Colpiscine uno per educarne 100! Tutto il potere al popolo armato».
Il rapimento di Macchiarini fu il primo di una serie di sequestri lampo. A questo fecero seguito il rapimento del sindacalista torinese Bruno Labate (12 febbraio 1973), del dirigente della Alfa Romeo Michele Mincuzzi (28 giugno 1973) e del capo personale della FIAT torinese Ettore Amerio (10 dicembre 1973). Quest'ultimo fu il primo sequestro che si protrasse per ben otto giorni.
Grazie a queste azioni, efficaci sul piano politico e senza nessun spargimento di sangue, le BR aumentarono il loro prestigio.
Il 2 maggio 1972, tuttavia, grazie alla "spiata" di Marco Pisetta (il primo infiltrato della Digos della storia brigatista), arrivò la prima grossa sconfitta: una rilevante operazione di polizia contro le BR che portò alla scoperta dell'importante base milanese di via Boiardo. Nella controffensiva delle forze dell'ordine, durata sino a giugno dello stesso anno furono arrestati trenta brigatisti. Moretti e Franceschini sfuggirono all'arresto.
Mario Pisetta, trasferitosi poi a Friburgo per sottrarsi alla vendetta dei compagni, lasciò un memoriale con nomi, date e località dell'attività brigatista, ricostruendo dettagliatamente la nascita del gruppo.
Da questo momento la semiclandestinità si trasformò necessariamente in vera e propria clandestinità, mentre la disciplina quasi "religiosa" che i brigatisti per necessità s'imposero, trasformò l'organizzazione in un piccolo esercito rivoluzionario.
A partire dal 1974 l'eversione divenne il momento culminante della protesta, che da politico-sindacale si fece violenza criminale contro lo Stato.
La necessità del superamento del "sindacalismo armato" e l'esigenza di dare un più ampio respiro strategico all'organizzazione, segnò il passaggio alla vera e propria lotta politica armata contro le istituzioni politiche e contro lo Stato. Questa nuova posizione del movimento fu riassunta in un comunicato della colonna genovese delle Brigate Rosse: «Con la costruzione delle BR abbiamo voluto creare un polo strategico in grado di porsi almeno i più urgenti tra i problemi sollevati dal movimento di resistenza popolare. Non abbiamo costruito un nuovo gruppo, ma abbiamo lavorato all'interno di ogni manifestazione operaia, per unificare i suoi livelli di coscienza intorno alla proposta strategica della lotta armata per il comunismo». A questo seguirono altri comunicati che getteranno le premesse per le azioni di sangue che daranno a quegli anni il triste appellativo di Anni di Piombo.
Le nuove finalità avevano bisogno di un gruppo più compatto, immune da nuovi infiltrati, più combattivo e risoluto, meglio organizzato. Per questo, nell'estate del 1972, venne formato il primo esecutivo delle Brigate Rosse. Vi facevano parte Renato Curcio, Alberto Franceschini, Mario Moretti e Piero Morlacchi.
Dal punto di vista teorico-organizzativo, invece, le Brigate rosse decisero di "dividersi per moltiplicarsi". Su modello dell'organizzazione guerrigliera uruguayana dei Tupamaros, furono costituite due colonne, una a Milano, l'altra a Torino. Si decise anche di distinguere il livello di militanza tra forze regolari (i militari clandestini) e quelle irregolari (organici all'organizzazione ma senza essere totalmente clandestini). Successivamente, tra il 1973 e il 1974, allargano i loro rapporti organizzativi in varie regioni, inaugurando una terza colonna nel Veneto, organizzandone una a Genova e dando vita ad un comitato strategico nelle Marche.
La prima azione intesa a portare l'attacco allo Stato avvenne il 18 aprile 1974, con il rapimento di Mario Sossi, capo della Procura di Genova. L'impresa fu chiamata in codice "Operazione Girasole". I carcerieri del giudice genovese erano Alberto Franceschini, Mara Cagol e Pippo Paroli. Mario Sossi era, all'epoca del sequestro, il pubblico ministero nel processo contro il gruppo armato genovese "XXII Ottobre". Il suo rapimento fu deciso per richiedere la liberazione di quei militanti. Il giudice fu rilasciato dalla "prigione del popolo" dopo trentacinque giorni e, comunque, senza che le richieste delle BR fossero accolte.
Oltre alla rivendicazione dell'azione, le BR diffusero un opuscolo intitolato Contro il neo-gollismo portare l'attacco al cuore dello Stato, per spiegare le ragioni del sequestro. Fu proprio durante quei giorni che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa costituì il primo nucleo antiterrorismo dei carabinieri.
La prima azione mortale delle BR, anche se non programmata, arrivò il 17 giugno 1974: a Padova, durante un'incursione nelle sede missina di via Zabarella da parte di brigatisti della colonna veneta, due militanti di destra, Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, restarono uccisi.
Pur assumendosi le responsabilità dell'azione, il comitato nazionale delle BR ammonì i propri militanti del Veneto ribadendo che l'antifascismo militante non era una priorità rispetto a quella più importante dell'attacco allo Stato.
Nell'estate dello stesso anno, all'interno del movimento maturò la decisione di formare un consiglio rivoluzionario che, come si legge nel documento programmatico, «raccolga e rappresenti tutte le tensioni e le energie rivoluzionarie maturate nei fronti, nelle colonne e nelle forze irregolari. Questo consiglio dovrà essere la massima autorità nelle BR».
Nel 1976 maturò la decisione di abbracciare l'omicidio politico come mezzo di lotta rivoluzionaria: l'8 giugno fu freddato vicino casa il sostituto procuratore di Genova Francesco Coco. Con lui furono uccisi anche i due agenti di scorta Antioco Dejana e Giovanni Saponara. Francesco Coco fu condannato a morte dai brigatisti perché, nei giorni del sequestro Sossi, si era rifiutato di firmare la liberazione dei detenuti che le BR chiedevano in cambio del rilascio dell'ostaggio. Le Brigate Rosse definirono questa sentenza di morte contro un giudice, come una «disarticolazione politica e militare delle strutture dello Stato».
L'8 settembre 1974 arrivò un altro colpo duro per le BR: grazie da un altro infiltrato, Silvano Girotto (un ex francescano con dei trascorsi poco chiari, chiamato dai brigatisti "Frate Mitra"), i carabinieri del generale Dalla Chiesa arrestarono a Pinerolo i due capi storici dell'organizzazione, Renato Curcio ed Alberto Franceschini.
In merito all'arresto di Curcio e Franceschini ci sono alcuni lati oscuri. Moretti non fu arrestato perché una "provvidenziale" telefonata lo avvisò della trappola dei carabinieri. Pur allertato non fece nulla per avvisare i suoi compagni, anzi si presentò all'appuntamento con un'ora di ritardo, cioè quando ormai Curcio e Franceschini erano già stati arrestati. C'è da riferire che alcuni giorni prima, in una riunione tenutasi a Parma, i dirigenti delle BR avevano deciso di escludere Moretti dal Comitato Esecutivo per via dell'intransigenza dimostrata durante la trattativa per la liberazione di Sossi.
Le conclusioni cui si vuole arrivare, e che appaiono entrambe logiche, è che o Moretti abbia volutamente fatto arrestare Curcio e Franceschini per prendere le redini della organizzazione, o che "qualcuno" abbia volutamente avvisato Moretti della trappola per permettere alle BR di riorganizzarsi secondo il criterio della spietata militarizzazione dell'organizzazione, da sempre appoggiata dallo stesso Moretti. Resta il fatto che la retata dei carabinieri servì soprattutto a recuperare carte imbarazzanti e pericolose per lo Stato: si trattava della documentazione che i brigatisti avevano prelevato dagli uffici milanesi di Edgardo Sogno. Tra questi documenti, centinaia di lettere, un elenco di nomi di politici, diplomatici, militari, magistrati, ufficiali di polizia e dei carabinieri che in qualche modo erano collegati al cosiddetto "Golpe bianco" preparato dall'ex partigiano liberale con l'appoggio di una parte dei servizi segreti americani.
In questo contesto credo sia opportuno citare una frase che il generale Maletti, ex capo dell'ufficio "D" del SID, riferì dinanzi alla Commissione Moro: « [.] le Brigate rosse sono una cosa, le Brigate rosse più Moretti un'altra».
Alla luce degli arresti eccellenti, il 13 ottobre 1974, alla cascina Spiotta di Arzillo (AL), la Direzione strategica delle BR decise nuove misure per ridefinire le strutture dell'organizzazione. In successive riunioni fu deciso di tentare di liberare Renato Curcio, nel frattempo rinchiuso nel carcere di Casale Monferrato. Il 18 febbraio 1975 Curcio fu effettivamente liberato.
La risposta dello Stato all'evasione di Curcio, fu l'istituzione delle carceri speciali e di massima sicurezza per i "detenuti politici" e la cosiddetta legge Reale, che assegnava alla polizia poteri eccezionali nella prevenzione al terrorismo. Ma questo non fece altro che intensificare gli attacchi dei terroristi rossi contro le istituzioni.
Tra il 1975 e il 1976 molte furono le vittime delle BR: il 15 maggio 1975 viene gambizzato il consigliere comunale della DC milanese Massimo De Carolis, mentre in alcuni scontri a fuoco muoiono il carabiniere Giovanni d'Alfonso (4 giugno 1975), maresciallo Felice Maritano (15 ottobre 1974), l'appuntato di Polizia Antonio Niedda (4 settembre 1975), il vice questore Francesco Cusano (11 settembre 1976) e i sottoufficiali della Polizia Sergio Bazzega e Vittorio Padovani, uccisi il 15 dicembre 1976 durante un conflitto a fuoco ingaggiato con Walter "Luca" Alasia, militante clandestino della colonna di Milano, che non esitò a sparare per sottrarsi all'arresto. Anche il brigatista morì durante la sparatoria e la colonna di Milano delle BR prenderà il suo nome: Walter Alasia "Luca".
L'uccisione di Margherita "Mara" Cagol (la colonna di Torino delle BR assumerà il suo nome), compagna di Curcio, avvenuta il 4 giugno 1975 in seguito a uno scontro a fuoco con i carabinieri durante il rapimento dell'industriale Vallarino Gancia, morte mai chiarita del tutto nella sua dinamica, e il definitivo arresto di Curcio il 18 gennaio del 1976 segnarono la fine del "vertice storico" delle BR, ormai sempre più sottoposte alla leadership di Mario Moretti.
Con la "gestione" Moretti le Brigate Rosse si fecero più aggressive. Infatti, se dal 1969 al 1977 le BR portarono a termine 211 attentanti, che provocarono la morte di tredici persone e il ferimento di altre venticinque, nei successivi tre anni (dal 1978 al 1980) gli attentati saranno 230, con quarantadue morti e quarantatre feriti. Così, con il passaggio del testimone a Moretti, iniziò quella che fu definita la "strategia dell'annientamento" con una lunga serie di omicidi e gambizzazioni ai danni di magistrati, poliziotti, giornalisti, amministratori locali e quanti erano considerati "servi dello Stato".
Furono feriti il dirigente del Ministero di Grazia e Giustizia Valerio Traversi (12 febbraio 1977), i giornalisti Valerio Bruno de Il Secolo XIX (1° gennaio 1977), Indro Montanelli de Il Giornale Nuovo (2 giugno 1977) e Emilio Rossi della RAI (3 giugno 1977). Peggiore sorte toccò a Fulvio Croce, presidente del Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Torino, ucciso il 28 aprile 1977 e il giornalista de La Stampa Carlo Casalegno, freddato il 16 novembre 1977.
Servì per autofinanziarsi, invece, il sequestro messo in pratica a Genova dell'armatore Costa dal 12 gennaio al 3 aprile 1977 (fino ad allora, e ad esclusione del sequestro Gancia, le BR avevano preferito le rapine alle banche per l'autofinanziamento).
Nell'ambito dell'iniziativa "contro il trattamento carcerario dei prigionieri politici", duramente irrigiditosi a partire dal luglio del 1977 con l'apertura del circuito delle carceri di massima sicurezza, furono assassinati Riccardo Palma, magistrato addetto alla Direzione generale di prevenzione e pena (14 febbraio 1978), l'agente di custodia presso il carcere torinese Lorenzo Cotugno (11 aprile 1978), il maresciallo degli agenti di custodia del carcere di San Vittore Francesco Di Cataldo (20 aprile 1978), il direttore generale degli Affari Penali del Ministero della Giustizia Girolamo Tartaglione (10 ottobre 1978) e gli agenti di polizia addetti alla sorveglianza esterna del carcere torinese Le Nuove (15 ottobre 1978). Il 31 dicembre del 1980 le BR uccidono anche il generale Enrico Galvaligi, responsabile del coordinamento delle misure di sicurezza nelle carceri speciali. Dello stesso anno anche il rapimento del giudice Giovanni D'Urso (12 dicembre), direttore dell'Ufficio III della direzione generale degli istituti di prevenzione e pena. Questo sequestro servì al gruppo armato per chiedere in cambio la chiusura immediata del carcere dell'Asinara (D'Urso sarà liberato nel 1981 e il carcere dell'Asinara chiuso).
L'omicidio del maresciallo di Polizia Rosario Berardi, avvenuto il 10 marzo del 1978, maturò invece in relazione alla riapertura del processo contro le BR di Torino.
Nell'ambito del "sindacalismo armato", mai abbandonato dal gruppo, il 28 settembre 1978 furono colpiti Pietro Coggiola, capofficina della FIAT di Torino (l'attentato, nelle intenzioni delle BR, doveva essere solo un ferimento ma si rivelò un assassinio) e Sergio Gori, vicedirettore del Petrolchimico di Porto Marghera (19 gennaio 1980).
Ebbe invece il sapore della vendetta l'attentato contro Guido Rossa, sindacalista della CGIL, ucciso il 24 gennaio 1979 a Genova, ritenuto responsabile dell'arresto del brigatista-operaio dell'Italsider Francesco Berardi avvenuto nell'ottobre dell'anno prima. Nelle intenzioni delle BR, così come affermarono attraverso la rivendicazione, l'azione era stata concepita come ferimento intenzionale, ma l'ala militarista decise segretamente e autonomamente di uccidere il loro bersaglio.
Ebbe il sapore della vendetta l'attentato contro Guido Rossa, sindacalista della CGIL, ritenuto responsabile dell'arresto del brigatista-operaio dell'Italsider Francesco Berardi |
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La "campagna contro gli apparati dell'antiterrorismo" portata avanti dalle BR, procurò la morte di dodici militari, tra carabinieri e poliziotti: Antonio Esposito (Genova, 21 giugno 1978), Antonio Varisco (Roma, 15 luglio 1979), Michele Granato (Roma, 9 novembre 1979), Vittorio Battaglini e Mario Tosa (Genova, 21 novembre 1979), Domenico Taverna (Roma, 27 novembre 1979), Mariano Romiti (Roma, 7 dicembre 1979), Antonio Cestari, Rocco Santoro, Michelle Tatulli (Milano, 8 gennaio 1980), Antonino Casu ed Emanuele Tuttobene (Genova, 25 gennaio 1980).
Nei primi mesi 1980 fu colpita ancora la magistratura, con due attentati mortali a Roma: il primo contro Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura (12 febbraio 1980), il secondo contro Girolamo Minervini, in procinto di essere nominato direttore generale degli istituti di prevenzione e pena (18 marzo 1980). Il 12 maggio 1980, a Mestre, fu ucciso Alfredo Albanese, dirigente della Digos, mentre il 19 maggio 1980, a cadere a Napoli colpito dal piombo rosso fu Pino Amato, assessore regionale al Bilancio e alla Programmazione della Democrazia Cristiana.
Nell'ambito dell'attacco contro la DC, fu ucciso il 29 marzo 1979 Italo Schettini, consigliere provinciale del partito, mentre nell'attacco del 29 marzo 1979 alla sede di piazza Nicosia, persero la vita due agenti di polizia intervenuti di pattuglia, Antonio Mea e Pietro Ollanu.
L'azione simbolo di questa nuova "gestione" delle BR fu senza dubbio, però, il rapimento di Aldo Moro.
L'onorevole Aldo Moro, presidente della DC candidato alla formazione di un governo "aperto" al Partito Comunista, fu sequestrato il 16 marzo del 1978. Nell'azione militare che portò alla sua cattura, restarono uccisi i cinque militari della scorta: Oreste Leonardi, Raffaele lozzino, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Le BR chiesero la liberazione di tredici prigionieri politici (comunicato n. 8), distribuirono nove comunicati ed una "Risoluzione" della Direzione strategica (febbraio 1978). Il sequestro si concluse il 9 maggio 1978 con il ritrovamento del corpo dell'onorevole Aldo Moro in via Caetani, a Roma.
Indubbiamente, con questa azione, le Brigate Rosse si proposero di intervenire direttamente negli equilibri politici generali del nostro Paese, portando un attacco violentissimo, all'epoca impensabile, contro lo Stato.
È tutt'ora avvolta in una spessa coltre di nebbia l'intera vicenda del sequestro, fatta di buchi e di segreti spesso inconfessabili.
A dire il vero, se analizziamo tutta la storia delle Brigate Rosse, ci si accorge che sono presenti con una certa costanza alcuni accadimenti "particolari" e strane coincidenze, così straordinariamente provvidenziali da far supporre - seppur nella scarsità di prove certe - interventi esterni al gruppo. Ne era convinto anche Patrizio Peci, primo pentito delle BR: «Lo Stato allora [agli inizi dell'attività brigatista] - poi non più - ti lasciava gli spazi per poter sperare nella vittoria [...] lo Stato poteva avere interesse a lasciare spazio alla lotta armata. Interessi velati, e magari contrapposti, ma certamente tesi a creare confusione. Altrimenti la lotta al terrorismo sarebbe stata più immediata e aspra. Ci avrebbero stroncato subito, come hanno fatto quando gli è parso il momento».
Il culmine delle "stranezze" inerenti le BR lo si ritrova però nel rapimento Moro. I cinquantacinque giorni del sequestro del presidente della DC furono fin dall'inizio segnati da una serie incredibile di "coincidenze"che fanno ipotizzare la possibilità di una eterodirezione dell'affaire Fritz (così fu chiamato in codice dai brigatisti tutta la vicenda Moro, per via di una "frezza"di capelli bianca che l'onorevole aveva sulla fronte), o quanto meno una certa contaminazione esterna.
Alcuni interrogativi, tra i tanti, danno consistenza a queste ipotesi, pur senza avere precisi riscontri nelle carte processuali:
1) Per quale motivo l'auto su cui viaggiava Moro non era blindata, se consideriamo il "periodo di piombo" e l'importanza del personaggio?
2) La complessità dell'agguato non sembra escludere la presenza di ulteriori personaggi (che si aggiungono a quelli ormai stabiliti dalla magistratura inquirente) con più capacità tecnica. A supportare questa tesi si potrebbe riferire la precisione millimetrica di una sola arma che sparò quarantanove colpi su un totale di novantuno, quasi tutti andati a segno. È evidente che in quella via, a quell'ora, era presente un professionista esperto che affiancò il commando. Il pentito calabrese della "ndrangheta" Saverio Morabito indicò in Antonio Nirta, uomo della cosca calabrese detto "due nasi" per la sua capacità di usare la lupara, l'esperto esterno. Altre testimonianze fanno il nome di Agostino De Vuono, anch'egli della cosca calabrese ed esperto tiratore.
3) Non è stato ancora spiegato come le BR potessero essere sicure del passaggio di Moro e della sua scorta da quella via proprio quella mattina, alla luce del fatto che il percorso veniva cambiato quotidianamente. I brigatisti erano sicuri del passaggio dell'onorevole da via Fani, poiché la sera prima dell'agguato furono squarciate le gomme del fioraio che ogni mattina sostava proprio in quella via.
4) Il giorno dell'agguato da un'emittente radiofonica dell'area della Autonomia romana - Radio Città Futura - il direttore Renzo Rossellini informò con mezz'ora di anticipo che Aldo Moro stava per essere rapito dalle Brigate Rosse. Quindi la notizia, che sicuramente non era una divinazione del Rossellini, trapelò sicuramente nell'area degli ambienti dell'autonomia, circoli molto infiltrati da parte delle forze d'intelligence italiana. Inoltre, la radio era "ascoltata" anche dall'UCIGOS, ma quella mattina incredibilmente furono interrotte la registrazione dalle ore 8,20 alle 9,33.
5) Le foto scattate pochissimi secondi prima dalla fuga del commando da Gherardo Nucci, fortuito spettatore dal balcone della sua casa al numero 109 di via Fani, sono sparite. Di quelle immagini, che evidentemente avevano immortalato qualcuno di importante, e consegnate quasi subito alla magistratura inquirente dalla moglie di Nucci, non si saprà più nulla.
6) È strana l'incredibile coincidenza che permise ai brigatisti di trasbordare il prezioso ostaggio in un furgone parcheggiato in via Giancarlo Bitossi. Proprio in quella via abitava il giudice Walter Celentano e una volante della polizia stazionava abitualmente sotto l'abitazione del giudice per salvaguardare la sua incolumità. Ora, proprio nei minuti che precedettero l'arrivo dei terroristi in quella via, un ordine-allarme fece allontanare la pattuglia. E' risaputo che, tra i reperti sequestrati a Morucci dopo il suo arresto, fu ritrovato un appunto recante il numero di telefono del commissario capo Antonio Esposito, in servizio proprio la mattina del rapimento.
7) Poco dopo la strage un provvidenziale black-out interruppe tutte le comunicazioni telefoniche nella zona tra via Fani e via Stresa, impedendo di fatto agli abitanti di telefonare al 113, favorendo così la fuga del commando. L'allora SIP attribuì il blocco delle linee a un sovraccarico. Alcuni brigatisti affermarono che tale interruzione era da attribuirsi a dei fiancheggiatori che lavoravano all'interno della compagnia telefonica. Tuttavia, risulta che il giorno prima del sequestro, alle 16,45, la struttura della SIP collegata al servizio segreto militare, fosse stata posta in stato di allarme, proprio come doveva accadere in situazioni di emergenza quali crisi nazionali internazionali, eventi bellici e, guarda caso, atti di terrorismo.
8) Nessuno ha mai chiarito la presenza a duecento metri da via Fani del colonnello del SISMI Guglielmi, che all'epoca faceva parte della Divisione VII, cioè quella che controllava Gladio. La presenza di Guglielmi fu resa pubblica solo nel 1991 da un ex agente del SISMI, Pierluigi Ravasio. Interrogato, Guglielmi testimoniò che quella mattina si trovava in via Stresa perché invitato a pranzo da un amico che abitava nella zona. Calcolando che erano appena le nove del mattino e per il pranzo ci volevano oltre quattro ore, la presenza del colonnello dei Servizi è davvero inquietante. Lo stesso "amico" che avrebbe dovuto ospitare il colonnello ha confermato l'arrivo di Gugliemi a casa sua, riferendo però che l'invito a pranzo non era affatto programmato.
9) Nessuno a mai spiegato perché la "soffiata" di un detenuto della casa circondariale di Matera, che aveva segnalato la possibilità di un attentato a Moro, abbia seguito un iter burocratico così lungo, tanto da arrivare alla sede centrale a sequestro avvenuto.
10) Analoghi dubbi sorgono sulla vicenda legata al nome "Gradoli". Non è credibile che il nome sia venuto fuori, come ufficialmente si volle far credere, in una seduta spiritica in cui lo "spirito" di La Pira rivelò il luogo in cui Moro era tenuto prigioniero. È più logico credere che il nome trapelò da qualche parte negli ambienti eversivi di sinistra. In via Gradoli a Roma era ubicato l'appartamento della brigatista Balzarani. Inoltre in via Gradoli, altra coincidenza, nell'edificio che fronteggiava dalla parte opposta della strada il covo delle BR, abitava il sottufficiale dei Carabinieri Arcangelo Montani, agente del SISMI. Il nome di Gradoli, come riferì nel 1995 nella relazione sulle stragi e il terrorismo presentata dal presidente della commissione parlamentare Giovanni Pellegrino, era filtrato dagli ambienti dell'Autonomia bolognese e il riferimento alla seduta spiritica non era altro che un trasparente espediente di copertura della fonte informativa.
11) Per quale motivo non si è dato credito al gladiatore Pierfrancesco Cangedda, che apprese da fonti della Stasi, il servizio segreto della Germania dell'Est, che a "Gradoli Strasse" esisteva un covo delle Brigate Rosse?
12) È solo una coincidenza che i proiettili esplosi in via Fani fossero rivestiti della stessa vernice speciale utilizzata da Gladio per preservare le proprie munizioni seppellite in depositi sotterranei?
13) Uomini del partito socialista riuscirono a contattare i brigatisti attraverso Lanfranco Pace per intavolare trattative. In effetti Pace incontrò esponenti delle BR in orari e luoghi stabiliti. Ora, una normale e logica attività di pedinamento avrebbe potuto consentire notevoli scoperte alle Forze dell'Ordine.
14) Durante la prigionia di Moro, che fu tenuto rinchiuso a Roma, nel quartiere Prati (in un appartamento all'interno 1 di via Montalcini 8), il periodico dell'Autonomia Operaia aveva pubblicato una fumetto in cui, la vignetta dell'interrogatorio di Moro da parte delle BR, faceva riferimento a una ipotetica "prigione del popolo" nel quartiere Prati di Roma. Ancora una volta gli ambienti dell'autonomia romana erano ben informati. Ora, l'appartamento era intestato alla brigatista Anna Laura Braghetti, già indagata dai Servizi. Ancora più inquietante è la notizia che a pochi metri dal covo di via Montalcini, abitavano molti esponenti della Banda della Magliana.
15) Il falso comunicato delle BR, fatto recapitare la mattina del 18 aprile alla redazione del quotidiano Il Messaggero, in cui si affermava che la salma di Moro giaceva nei fondali del lago della Duchessa, in località Cartore di Rieti, non fu altro che una prova generale per sondare la reazione dell'opinione pubblica. Inoltre, il falso comunicato, preparato da Toni Chichiarelli (falsario legato alla banda della Magliana, assassinato poi nel 1984), ebbe l'utilità di far distogliere l'attenzione sul materiale ritrovato nel covo di via Gradoli appena perquisito dalla polizia. Attraverso alcune testimonianze sappiamo che dall'uscita del falso comunicato i boss della Mafia, della Ndrangheta e della Camorra, che pure erano stati contattati nel tentativo di trovare una pista che portasse al luogo dove Moro era tenuto prigioniero, ricevettero una sorta di contrordine e arrestarono le loro ricerche.
16) Tra le innumerevoli anomalie del caso Moro, sicuramente la più importante è quella relativa alla fine delle carte di Moro, il memoriale che i brigatisti non resero mai pubblico e che i Carabinieri ritrovarono solo in parte nell'ottobre del 1978 nella base di via Monte Nevoso a Milano e che fu ritrovato in forma più completa (ma non integrale) nell'ottobre del 1990. Cosa a spinto Moretti a nascondere per anni il memoriale che conteneva materiale compromettente? Cosa ha determinato quel comportamento che, nella logica brigatista, era del tutto inammissibile?
17) Riferiamo un'ultima coincidenza, ma ne restano ancora altre che per ragioni di spazio si eviterà di affrontare. A marzo del 1978, in via Nicotera 26 a Roma, nello stesso edificio dove avevano sede alcune società di copertura del SISMI, aveva aperto una succursale della scuola Hyperion, per rimanere in funzione meno di quattro mesi. Quando l'affaire Fritz si concluse anche la scuola chiuse i battenti per riaprirli, nella stessa forma di succursale, a Milano (dove, come vedremo, succederanno altri delitti).
È impensabile che in un sequestro durato cinquantacinque giorni, con telefonate, scambi di contatti, infiltrati e mediatori, non sia stato possibile ad un apparato d'intelligence, seppur mediocre, individuare una pista che portasse ad individuare la prigione e quindi provare a liberare l'illustre ostaggio, come più tardi avvenne per il generale statunitense Dozier.
Durante il sequestro dello statista democristiano una trattativa tra gli apparati dello Stato e le Brigate Rosse molto probabilmente ci fu. Ma quasi sicuramente la negoziazione interessò non tanto la vita di Moro, quanto i preziosi documenti prelevati all'onorevole. In più, durante l'interrogatorio da parte delle BR l'ostaggio rivelò probabilmente alcuni segreti di Stato: la strategia della tensione, lo stragismo, Gladio. Il problema divenne allora quello di neutralizzare ciò che Moro aveva detto. La delicatezza delle probabili rivelazioni di Moro ai brigatisti, fece predisporre un piano, il "programma Victor", in base al quale, una volta liberato il presidente, sarebbe stato sottoposto ad un periodo di "quarantena" e in stretto isolamento, affinché si potessero studiare le soluzioni ai segreti rivelati.
Tutte le persone entrate poi in contatto con le ritrovate carte di Moro, furono oggetto di attentati mortali, tra cui il generale Dalla Chiesa e il giornalista Mino Pecorelli.
Moro, con la sua "follia" di voler portare il Partito Comunista Italiano al governo, era una figura scomoda per molti, sia all'interno dell'Italia sia sul piano internazionale. La sua morte divenne un evento "provvidenziale", poiché rimetteva al loro posto gli equilibri pericolosamente alterati dal Compromesso Storico.
Furono certamente contenti gli Stati Uniti, che non avrebbe sicuramente visto di buon grado la presenza dei comunisti al governo. Ricordiamo che già dal 1948 una direttiva del National Security Council, inclusa nel documento NSC 1/3 dell'8 marzo, intitolato "Posizione degli Stati Uniti nei confronti dell'Italia alla luce della possibilità di una partecipazione comunista al governo attraverso mezzi legali", dichiarava e stabiliva tra l'altro: «La dimostrazione di una ferma opposizione degli Stati Uniti al comunismo e la garanzia di un effettivo sostegno degli Stati Uniti potrebbe incoraggiare gli elementi non comunisti in Italia a fare un ultimo vigoroso sforzo anche a rischio di una guerra civile, per prevenire il consolidarsi di un controllo comunista». Successive direttive, sempre emanate dalla National Security Council nel corso della Guerra fredda, saranno dello stesso tenore e forse peggio.
Fu certamente soddisfatta anche l'Unione Sovietica, che in questo modo evitò di vedere "socialdemocratizzato" un partito nato dalla sua costola.
In buona sostanza il delitto Moro ripristinò gli accordi di Yalta sull'Italia (continua).
(1 - Continua)
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BIBLIOGRAFIA
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La notte più lunga della Repubblica: sinistra e destra, ideologie, estremismi, lotta armata 1968-1989, di A. Baldoni e S. Provvisionato - Sararcangeli, Roma 1989.
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Il lato oscuro del potere, di G. De Lutiis - Editori Riuniti, Roma 1996.
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Il delitto D'Antona. Indagine sulle nuove Brigate Rosse, di D. Biacchessi - Mursia, Milano 2001.
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Il linguaggio delle nuove Brigate Rosse, di A. Benedetti - Erga Edizioni, Genova 2002.
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Corpo di stato. Il delitto Moro, di M. Baliani - Rizzoli, Milano 2003.
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L'ultima bicicletta. Il delitto Biagi, di D. Biacchessi - Mursia, Milano 2003.
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Mi dichiaro prigioniero politico. Storie delle Brigate Rosse, di G. Bianconi - Giulio Einaudi Editore, Torino 2003.
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Brigate Rosse. La minaccia del nuovo terrorismo, di G. Cipriani - Sperling & Kupfer, Milano 2004.
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Che cosa sono le BR. Le radici, la nascita, la storia, il presente, di G. Fasanella e A. Franceschini - Rizzoli, Milano 2004.
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Piombo rosso. La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi, di G. Galli - Baldini e Castaldi Dalai, Milano 2004.
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Il golpe di via Fani. Protezioni occulte e connivenze internazionali dietro il delitto Moro, di G. De Lutiis - Sperling & Kupfer, Milano 2007
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