Industria dal "volto umano", nel corso della sua vita l'azienda di Ivrea ha saputo coniugare progettazione e produzione, management e design, architettura e servizi sociali, editoria e grandi eventi.
|
|
Olivetti: cento anni di storia
economica e imprenditoriale
|
|
|
Ottobre 1908-ottobre 2008: cento anni della Olivetti, la grande azienda di alta tecnologia che ha dato il volto moderno e inconfondibile a Ivrea. Ma per avere una completa visione d'insieme della storia di una delle principali imprese italiane del Novecento è necessaria una sintetica, ma completa descrizione dell'intera vicenda olivettiana nell'arco temporale di un secolo. E non a caso viene ricordata con un francobollo la prima fabbrica di macchine da scrivere della Olivetti. Da allora un susseguirsi di nuovi prodotti e il passaggio prima all'elettronica e poi all'informatica, fino all'incorporazione di Telecom Italia. Un francobollo sul quale campeggia la mitica M1 del 1911, la prima macchina da scrivere costruita dal fondatore Camillo.
Tante le espressioni più significative del mondo Olivetti, la lunga parabola della ditta: dal progetto alla produzione, dal management all'organizzazione produttiva, dal design alla cultura ed all'editoria, dalle architetture ai servizi sociali, dalla formazione ai grandi eventi. Un'azienda che vanta una presenza in forma permanente di alcuni suoi prodotti al Museum of Modern Art di New York. La storia della Olivetti - un modo d'intendere l'industria al di là dell'indice dei profitti - emerge in tutta la sua complessità e ricchezza anche in quell'alternarsi di fasi di segno opposto, tra successi e momenti di crisi, che hanno caratterizzato la vita aziendale. Tutta la sua vicenda risulta essere originale e le diverse fasi evolutive raccontano di un'impresa dotata di capacità di trasformazione, forza distintiva e indiscusso carattere.
La storia della Olivetti iniziò il 29 ottobre del 1908 quando Camillo Olivetti (che già nel 1896 aveva fondato la CGS, fabbrica di apparecchiature elettriche trasferita poi a Milano) costituì a Ivrea (Torino) la "Ing. C. Olivetti & C.", la "Prima fabbrica nazionale di macchine da per scrivere", come di leggeva sull'insegna, con 20 dipendenti, un'officina di 500 mq ed una produzione di 20 macchine a settimana. Dopo una prima fase di avvio, che si concluse con la presentazione nel 1911 della prima macchina per scrivere, la M1, negli anni successivi l'azienda di Ivrea crebbe rapidamente, ampliando e diversificando l'offerta sia in Italia che nel mondo. Alla fine degli anni Venti raggiunse una produzione annua di 13.000 macchine, debuttando, a cavallo tra gli anni Quaranta, anche nel settore delle telescriventi, delle calcolatrici, dei mobili e delle attrezzature per ufficio.
Un contributo fondamentale a questa espansione giunse, a partire dal 1933, da Adriano Olivetti, figlio di Camillo, che impresse uno stile e una cultura che faranno dell'azienda un esempio unico nella storia industriale italiana ed europea. Sotto la guida di Adriano, negli anni Cinquanta, la Olivetti registrò una crescita straordinaria, creando modelli che divennero un simbolo dell'Italian style, come la Lexikon 80, la Lettera 22 - forse la portatile più famosa - la calcolatrice Divisumma, la MC 24. La Olivetti passò da 200 dipendenti nel 1924 a 800 nel 1933, da 2000 nel 1938 a 4000 nel 1942. Per mantenersi grande ed esplorare le frontiere del progresso tecnologico l'impresa assunse un respiro internazionale: fra il 1929 e la seconda guerra mondiale Olivetti creò proprie consociate in Belgio, Argentina, Brasile, Francia e Spagna. Già in quello stesso 1929 la consociata spagnola si configurò come un'autonoma unità produttiva a ciclo integrale, mentre le altre mantennero per un certo tempo un profilo più legato alla distribuzione commerciale, pur se corredate da officine di riparazione e di ricondizionamento di prodotti (in epoca successiva anche queste divennero veri e propri stabilimenti industriali).
Se gli anni fino al 1935 furono contrassegnati da una semplice differenziazione di prodotto nel campo delle macchine per scrivere (alle macchine standard si affiancarono le prime portatili e semistandard), gli anni dal 1935 al 1952 significarono una svolta verso una più ampia diversificazione produttiva. Fu l'epoca delle macchine contabili, di quelle da calcolo, delle telescriventi, dei duplicatori (gli antenati delle fotocopiatrici) e dei mobili per ufficio. A cinquant'anni dalla fondazione, la Olivetti arrivò a impiegare oltre 24.000 dipendenti, divenendo leader incontrastata della tecnologia meccanica. In quegli anni, la ditta compì la prima importante svolta tecnologica investendo con lungimiranza nella tecnologia elettronica. Adriano si rese conto di come fosse necessario investire sul progresso tecnologico e, per questo, sostituì i collaboratori del padre, venuti dalla gavetta, con le generazioni di quelli che chiamò "i centodieci e lode".
Nel 1952, a New Canaan (Connecticut) aprì un primo laboratorio di ricerca. Poi venne, in accordo con l'Università di Pisa, il centro studi di Barbaricina. Infine fu l'epopea dello stabilimento di Borgolombardo, dalle cui viscere uscì, nel 1959, il primo grande elaboratore elettronico italiano: l'Elea 9003. Nello stesso anno Olivetti acquisì la statunitense Underwood, di Hartford, grande impresa di macchine per scrivere che tanto aveva suscitato l'interesse di Adriano (per la modernità dei processi produttivi, la qualità dei prodotti ecc...) quando l'aveva visitata nel 1925, durante il suo primo e forse più noto viaggio negli Stati Uniti. Nel 1960, con Telettra e Fairchild Camera and Instruments, fu fondata la SGS, ovvero la prima società europea per la produzione di semiconduttori, oggi divenuta STMicroelectronics. L'improvvisa morte di Adriano Olivetti, nel 1960, e una serie di difficoltà finanziarie legate anche all'acquisizione della Underwood e agli ingenti investimenti, costrinsero la dirigenza a cedere la Divisione Elettronica. Sul listino di Piazza Affari l'azienda debuttò proprio nel 1960.
Dal 1924 al 1960 il valore del capitale investito dalla Olivetti era salito di circa 22 volte in termini reali. Alla morte di Adriano l'azienda contava circa 25.000 addetti di cui 14.500 in Italia (Torino, Massa, Pozzuoli) e circa 10.000 nel Canavese (Ivrea, Agliè, Caluso), ma vantava anche grandi stabilimenti in Europa (Barcellona e Glasgow), America Latina (Buenos Aires e San Paolo) e Stati Uniti (Hartford). La famiglia, che proprio dopo la quotazione in Borsa aveva mantenuto un saldo controllo della ditta, nel 1964 aprì il capitale a un gruppo di banche e imprese italiane. Nello stesso anno Bruno Visentini venne nominato Presidente della Società, carica che mantenne, salvo un'interruzione legata alla sua nomina a incarichi governativi, fino al 1983, quando gli successe Carlo De Benedetti.
Nel 1965 Olivetti presentò sul mercato un calcolatore da tavolo programmabile molto innovativo, il P101, antesignano del personal computer. Ma la transizione all'elettronica, in anni di forte inflazione e di alti tassi di interesse, risultò particolarmente onerosa: la crescente competizione internazionale accentuò le difficoltà e, verso la fine degli anni Settanta, la situazione finanziaria divenne critica. Nel 1978 Carlo De Benedetti investì nell'azienda assumendone la responsabilità operativa. Iniziò per la Olivetti, insieme a un lungo periodo di ristrutturazione, anche un nuovo ciclo di sviluppo. Vennero lanciati nuovi prodotti: la prima macchina per scrivere elettronica (Et 101, del 1978) e il primo personal computer (M20, 1982).
Nei corso degli anni Ottanta l'azienda accelerò il processo di crescita ricorrendo a numerose acquisizioni e operazioni di venture capital tra le quali quella con l'americana AT&T (1983). All'inizio degli anni Novanta, intuito il forte potenziale di sviluppo delle telecomunicazioni, la Olivetti, insieme con diversi investitori - fra cui alcuni dei maggiori operatori mondiali del settore, come la Omnitel -, costituì una società con l'obiettivo di operare nella telefonia mobile. La Società diventò operativa a fine 1995 dopo l'acquisizione della relativa licenza. Nello stesso anno, secondo le stesse linee strategiche, fu creata Infostrada per operare nella telefonia fissa. Si trattò di due iniziative che cambiarono, nel giro di pochissimi anni, il volto dell'impresa e la proiettarono verso una nuova fase di sviluppo.
Nel corso degli anni Novanta, la Olivetti fu costretta a una drastica ristrutturazione causata dall'intensificarsi della competizione globale, dalla caduta dei prezzi e dei margini in tutta l'industria informatica mondiale, dalla debolezza del mercato europeo, e, in particolare, di quello italiano. A partire dal settembre 1996, in un momento particolarmente difficile per l'azienda, Olivetti intraprese, sotto la guida di Roberto Colaninno, un processo di profonda trasformazione che condusse a una decisa focalizzazione sulle telecomunicazioni e alla razionalizzazione delle attività informatiche. Tale trasformazione passò attraverso una strategia di alleanze internazionali e il riassetto della struttura aziendale. Nel febbraio 1999 la Olivetti e la controllata Tecnost annunciarono l'Opa su Telecom Italia, conclusasi poi con l'acquisizione di oltre il 52% del pacchetto per 31,5 milioni di euro. Allo stesso tempo l'azienda provvide alla cessione, richiesta dalle norme sulla concorrenza, delle sue partecipazioni in Omnitel e Infostrada a Mannesmann. Nel luglio 2001 Bell si accordò con i gruppi Pirelli e Benetton per cedere il suo pacchetto di controllo del capitale Olivetti. L'operazione fu perfezionata nel settembre 2001 e la Olimpia, partecipata da Pirelli, Edizione Holding (gruppo Benetton), Intesa-BCI e Unicredito, divenne il maggiore azionista di Olivetti con una quota di circa il 29%. I titoli della società, in seguito alla fusione con Telecom Italia, uscirono dal Mib30 il 12 marzo 2003.
Le vicende legate alla storia industriale della Olivetti sono soprattutto collegate alla sua capacità di porsi come motore e modello per la crescita della società, al di là delle sue funzioni di produttore di oggetti e beni di consumo. Adriano Olivetti, uomo di sconfinata cultura e di grande senso pragmatico, si rese conto che per cavalcare l'innovazione occorrevano almeno due fattori basilari: attrarre le persone più colte e preparate, garantendo loro i maggiori compensi e la libertà di proporre e realizzare le loro idee; progettare e realizzare una formazione capace di preparare al futuro, ossia incentrata sulle competenze anziché sulle conoscenze.
Prezioso per gettare uno sguardo sulla complessità delle strategie messe in atto, sulla genialità del suo fondatore e dei suoi collaboratori, sulla modernità del design, ma soprattutto sull'innovazione del "modello umano" elaborato nell'azienda di Ivrea è il volume di Pietro Condemi, La rosa di Jericho. Il paradigma olivettiano per una nuova cultura della formazione. Dal volume emerge con forza che Adriano andava oltre la sola dimensione della formazione aziendale, interessandosi del territorio, dell'urbanistica, delle scuole, delle abitazioni, persino della mobilità dei lavoratori, disseminando cultura attraverso la casa editrice Edizione di Comunità con l'omonima rivista, le iniziative dell'Irur per far nascere nuove imprese su tutto il territorio nazionale, avocando a sé anche una responsabilità di tipo sociale. Il fine della Comunità della Olivetti era quello di "affratellare gli uomini", "reprimere gli evidenti contrasti o conflitti", abituali in un'organizzazione economica, e di impedire (come sottolineava il suo ideatore) "una vita frazionata e priva di elementi di solidarietà". Al dipendente veniva offerta la casa: villette con giardino o appartamenti in edifici gradevoli, funzionali e moderni.
La "bella società" di Olivetti (praticamente una piccola città) prevedeva inoltre "educazione, formazione e sostegno" per i figli dei dipendenti, asili e asili-nido, colonie estive, iniziative culturali, una mensa (più di 10.000 pasti al giorno), assistenza medica, assistenti sociali e un centro di psicologia industriale per lo studio dei problemi psicologici connessi all'attività lavorativa. Nel Centro servizi sociali erano presenti una sala cinema, un centro culturale e una sala congressi. Furono anche realizzati dei documentari (prodotti fra gli anni '50 e '90), con registi illustri e collaboratori eccellenti (tra questi il compositore Luciano Berio), e dei telegiornali interni con tanto di mezzobusto e spot. La "genialità" di Olivetti è stata quella di conoscere gli uomini e valorizzarne le qualità meno percettibili all'apparenza. Nei complessi residenziali Olivetti nessuna fede religiosa, nessun partito politico, nessuna provenienza geografica erano discriminati. "Voglio anche ricordare come in questa fabbrica, in questi anni, non abbiamo mai chiesto a nessuno a quale religione credesse, in quale partito militasse o ancora da quale regione d'Italia egli e la sua famiglia provenissero". Sono parole pronunciate da Adriano Olivetti ai lavoratori di Ivrea il 24 dicembre 1955. Gli stipendi erano ottimi. "La nostra comunità dovrà essere concreta, né troppo grande né troppo piccola, ma che dia alla persona umana quel rispetto della cultura e dell'arte che la civiltà dell'uomo ha realizzato nei suoi luoghi migliori". Insomma, un'utopia: anzi, una "bella società".
Un'esperienza purtroppo mai più ripetuta, come spiega Giorgio Soavi, dipendente Olivetti e marito della figlia di Adriano, nonché autore del volume Adriano Olivetti. Una sorpresa italiana. Affidandosi a persone di grande valore (l'imprenditore era contornato da collaboratori che, scrive Soavi, non si accontentavano di "volare basso") Adriano aveva capito come fosse auspicabile che, architettonicamente parlando, le pareti e i colori dell'ufficio, o quelle del posto di lavoro, non dovessero essere molto diverse da quelle di casa. Ma la fabbrica anche come oasi di creatività: dall'eccezionale disegno dei prodotti alla pubblicità, dalle grandi mostre a quei piccoli capolavori che erano gli opuscoli che accompagnavano i prodotti di Ivrea. Mai una frase fatta, distacco totale dalle mode del marketing, aristocrazia e omaggio severo alla chiarezza e al dettato tecnico.
Per quanto concerne la cultura, non c'è dubbio che la Olivetti divenne nel tempo una straordinaria concentrazione di intelligenze e di saperi, con un marcatissimo imprinting aziendale. Da questo punto di vista (a partire dal 1926, con la creazione delle prime scuole interne) venne anzitutto stabilita la funzione ineludibile della formazione permanente delle risorse umane. Se è risaputo il ruolo svolto dal Centro Formazione Meccanici e dai successivi corsi di perfezionamento, forse è meno noto che si aveva cura di integrare la formazione tecnico-specialistica con quella umanistica, affiancando agli insegnamenti professionali quelli di materie come la storia dell'arte. Le stesse biblioteche di fabbrica e le conferenze che vi si svolgevano vanno considerate come frutto di tale scelta di valorizzazione continua dell'elemento umano in azienda.
Non vanno poi dimenticati l'allestimento degli stand Olivetti nelle principali fiere internazionali e le famosissime architetture di interni dei negozi Olivetti (opera di Gian Antonio Bernasconi, Ugo Sissa, Carlo Scarpa, BBPR, Leo Lionni e Giorgio Cavaglieri per citarne alcuni). Basterà poi un solo e breve cenno per ricordare che in Olivetti, dietro diretto impulso di Adriano, si affermarono - sempre a supporto di scelte aziendali decisive - discipline che, solo in epoca più tarda, avrebbero trovato nel nostro Paese una consacrazione anche accademica: l'economia di impresa (con Franco Momigliano), la sociologia industriale (Luciano Gallino e la sua scuola), la psicologia del lavoro (Cesare Musatti e i suoi allievi).
Una radiografia affascinante delle "fabbrica" Oliveti ci viene invece offerta dal volume Uomini e lavoro alla Olivetti, curato da Francesco Novara, responsabile del Centro di psicologia Olivetti fino al 1992, e da Renato Rozzi, che lavorò nello stesso Centro negli anni Sessanta. L'immagine che ne traspare è quella di una fabbrica vista come fosse una persona, e in cui il cervello era Adriano, industriale e uomo di somma intelligenza creativa. Adriano possedeva libertà intellettuale e politica, aveva la capacità ed il genio naturale di tirar fuori dagli uomini anche quel che loro non sapevano di possedere. "Io non ho passato in me. In me non vi è che futuro". Si riferiva all'impresa. Guardava sempre avanti, era un ricercatore nato. Ma non ripudiava il passato, che ben conosceva nelle forme dell'arte e della scienza.
Con Adriano e per Adriano hanno lavorato architetti famosi o che famosi divennero in seguito, designers, scrittori, poeti, sociologi, scienziati della politica e dell'organizzazione industriale, tra cui Paolo Volponi, Franco Momigliano, Luciano Gallino, Geno Pampaloni, Giovanni Giudici, Giorgio Fuà, Bobi Bazlen, Ludovico Quaroni, Franco Ferrarotti, Furio Colombo, Tiziano Terzani, Franco Fortini, Bruno Zevi, Ottiero Ottieri, e tanti altri che, curiosamente, quando se ne andarono dall'Olivetti non entrarono più in altre aziende, ma fecero altri mestieri, come ha sottolineato il giornalista Corrado Stajano de "L'Unità". L'azienda non licenziava, al di là di un piccolo turnover fisiologico. Riusciva a farlo attraverso un lungo processo di riconversione del personale.
Tribolato e drammatico fu il passaggio dalla meccanica all'elettronica. Ma il suo modo di seguire e formare le persone era proiettato in avanti. La Olivetti sapeva sperimentare già allora modelli formativi avanzati che il sistema nazionale non era riuscito ancora a darsi. L'azienda di Ivrea aveva capito più di mezzo secolo fa l'importanza della ricerca. I servizi sociali della Olivetti furono modelli inarrivabili: le madri e i bambini furono tutelati con dedizione. E poi, le innovazioni olivettiane del lavoro - di cui il Centro di psicologia è stato un elemento centrale - hanno introdotto soluzioni organizzative valide ancora oggi: il lavoro era modificabile solo tenendo conto degli uomini che lavorano, una proposizione politica decisiva quarant'anni fa, nel periodo della maggiore tensione sindacale.
Due sono i concetti fondamentali che ispirarono Adriano Olivetti nella sua visione imprenditoriale. In primo luogo egli era convinto, fin dagli esordi della sua attività, che in una società ancora tendenzialmente arretrata, solo la "fabbrica" poteva essere il "moderno principe" dello sviluppo economico e sociale, capace di innovare e creare ricchezza sociale. In secondo luogo, la fabbrica doveva avere come fine fondamentale la propria crescita, cioè lo sviluppo quantitativo e qualitativo dei suoi fattori produttivi (capitale e lavoro). Di conseguenza, Adriano operava affinché l'impresa massimizzasse quello che oggi noi chiamiamo "il valore aggiunto", da tradursi in utili non distribuiti ma destinati ad autofinanziare lo sviluppo dell'impresa, in stipendi e salari di ottimo livello tali e perciò capaci di motivare l'impegno lavorativo, in formazione continua delle risorse umane, in servizi sociali ed assistenziali per i lavoratori e, da ultimo, anche in riduzioni di orario a parità di salario complessivo. Per tutto il periodo in cui fu alla guida della società i dividendi degli azionisti si attestarono su livelli modesti e comunque mai superiori agli interessi riconosciuti ai depositi in conto corrente accesi dai dipendenti presso la società stessa.
Rifondare la società attraverso i suoi legami territoriali: questa l'idea innovativa di Adriano Olivetti, che, in effetti creò, nel 1952, 11 centri comunitari nel Canavese e altri a Terracina e Matera. "L'idea fondamentale della nuova società è di creare un comune interesse morale e materiale, un'organizzazione basata sulla partecipazione, per offrire risposte concrete alla comunità, un conveniente spazio per andare oltre il concetto di fabbrica. Che è servizio e non più macchina, con nuove caratteristiche, anche ambientali". Parlava così Adriano Olivetti, quando si riferiva allo spazio pensato per i propri dipendenti. Egli volle che tra la fabbrica e il territorio in cui questa era insediata si stabilisse un rapporto fortissimo di integrazione reciproca.
Quasi sempre, nel Canavese, venne privilegiata la scelta di assumere in azienda più persone appartenenti al medesimo nucleo familiare; tale scelta creò ovviamente malumore in chi non veniva assunto, ma era finalizzata a una sapiente ricerca dell'accrescimento delle capacità di consumo e risparmio delle famiglie presenti in Olivetti, le quali - in conformità con il pensiero di Adriano - avrebbero fatto da volano per una crescita complessiva delle attività economiche esterne all'azienda stessa (commercio, edilizia, artigianato e via dicendo). Questa politica delle assunzioni venne anche attuata in modo da evitare quello che Adriano riteneva il pericolo dell'urbanizzazione selvaggia: la maggior parte degli assunti in Olivetti tra il 1924 ed il 1960 continuarono a risiedere nei comuni di origine del Canavese grazie a incentivi, a un efficiente sistema di trasporti semi-gratuiti e a prestiti agevolati per la ristrutturazione delle abitazioni.
Straordinaria figura di industriale-intellettuale, Adriano Olivetti chiamò a Ivrea architetti e intellettuali per progettare insieme a loro lo sviluppo della ditta, consapevole delle responsabilità sociali dell'industria e del peso che essa ha sulla configurazione e modificazione di un territorio, delle sue possibilità di qualificazione o di degrado delle aree scelte per l'insediamento. Nella metà degli anni Trenta iniziò lo sviluppo dell'asse di via Jervis che portò, nell'arco di venticinque anni, alla creazione di una vera e propria città nuova olivettiana. I principali protagonisti furono gli architetti milanesi Figini e Pollini, che progettarono gli ampliamenti della fabbrica, la fascia dei servizi sociali, l'asilo nido e alcune abitazioni per impiegati. Il loro lavoro, insieme a quello di altri professionisti di fama internazionale, portò alla creazione di un esempio unico all'interno del panorama architettonico italiano contemporaneo.
Lo sviluppo urbanistico e architettonico di Ivrea nel Novecento è strettamente legato alla storia della Olivetti. La prima fabbrica in mattoni rossi venne edificata in una zona rurale, non lontano dall'abitazione di Camillo Olivetti, l'ex convento di San Bernardino. Nel rapporto con il territorio vanno individuate tre fasi. La prima, 1924-1935, è quella in cui l'impresa ha creato istituzioni e servizi utili alla fabbrica, come la Fondazione Domenico Burzio, l'ambulatorio di fabbrica, la mensa del centro agrario Olivetti. Una seconda fase va dal 1936 al 1955 e la si può definire della "supplenza tecnica ai governi locali": dall'elaborazione del piano regolatore regionale, ai piani regolatori di Ivrea del 1938-1942 e poi del 1951-1955, alla costruzione dell'ospedale civile della città, all'infrastrutturazione materiale dell'area, avvenuta a carico dell'azienda. La terza e ultima fase, dal 1956 al 1960, può definirsi come quella della "gestione diretta" del territorio da parte dell'azienda, in quanto nelle giunte comunali furono massicciamente presenti dirigenti, impiegati, operai che avevano l'azienda stessa come datore di lavoro. Mediante questo rapporto costruito con il Canavese si può affermare che raramente, nel suo processo storico, un'azienda si è tanto identificata con l'area in cui ha stabilito i suoi quartieri generali.
La storia di quegli anni in Olivetti dimostrò la possibilità di realizzare un progetto che ponesse come reale motore d'impresa la cultura e l'etica, che ne permettesse l'attualizzazione attraverso la formazione e l'esempio incarnato dalla proprietà e dal management, e che cavalcasse l'innovazione tecnologica e organizzativa favorendo al tempo stesso lo sviluppo completo delle persone.
Su queste basi la Olivetti ha prodotto e distribuito utili eccezionali, inventando il concetto di corporate image e un nuovo modo di fare pubblicità, un nuovo design industriale e una nuova architettura industriale e abitativa. Ma anche prodotti innovativi, il primo personal computer al mondo, un nuovo modello di relazioni sindacali, nuovi organismi di gestione aziendale e tenendo a battesimo la nascente sociologia italiana.
Appare quindi di grande attualità la rilettura di quell'esperienza imprenditoriale, etica e responsabile. Tant'è che i suoi principi ispiratori sono stati recentemente riproposti dalla Commissione Europea nel suo Libro Verde, Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese. Se il "fattore umano" è alla base dell'innovazione e della creatività, e se si riconoscono questi elementi come strutturali per competere sui mercati globali, la Olivetti di quegli anni fornisce idee e prassi per affrontare la sfida.
|
|
BIBLIOGRAFIA
-
La rosa di Jericho Il paradigma olivettiano per una nuova cultura della formazione, di P. Condemi - Ipoc, Milano 2006
-
Adriano Olivetti. Una sorpresa italiana, di G. Soavi - Rizzoli, Milano 2001
-
Uomini e lavoro alla Olivetti, a cura di F. Novara e R. Rozzi - Bruno Mondadori, Milano 2005
-
Un'azienda e un'utopia. Adriano Olivetti 1945-1960, a cura di S. Semplici - Il Mulino, Bologna 2001
-
Costruire la città dell'uomo. Adriano Olivetti e l'urbanistica, di C. Olmo - Einaudi, Torino 2001
|
|
|