Qual è la verità sulla morte del Duce? Le testimonianze di chi partecipò all'evento non sollevano i dubbi, anzi li infittiscono. In quelle ore il destino di Mussolini rimase in bilico tra le esigenze di "falchi" e "colombe" equamente distribuiti tra PCI e Alleati. "Gli inglesi hanno suonato la musica e i comunisti sono andati a tempo", avrebbe ricordato Leo Valiani.
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(Parte Seconda) |
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Dopo aver saputo che il piano di Cadorna per consegnare il Duce agli alleati era fallito (telefonata del Sardagna che disdiceva l'appuntamento di Moltrasio), anche il Neri, come il Cadorna (vedi dopo), volta la faccia e si converte (accogliendo obtorto collo le perorazioni di Pietro che ostacola il suo proposito di proseguire il viaggio verso Brunate, utilizzando la macchina e non la barca) all'idea di assecondare le direttive imposte dal PCI. Se c'erano a Brunate persone che agivano indipendentemente dal CVL di Milano (un'ipotesi azzardata) sarebbero rimaste a bocca asciutta. Lasciata Bonzanigo, Il Neri andrà, infatti, a Como, insieme al Moretti, per dire ai compagni lariani dove aveva messo Mussolini (casa dei contadini De Maria). Il che significa sancire la sua definitiva condanna a morte. A Como, il Canali ha detto a sua madre: "Ho fatto il mio dovere di comunista. Ho detto ai compagni di Como dov'è custodito Mussolini". Perso per perso, o non potendo fare altro (Pietro era fermamente contrario sul fatto di proseguire in macchina a tutti i costi), era meglio ribaltare i piani e tenere un comportamento ortodosso in linea con i dettami della sua fede politica. Il che poteva inoltre riabilitarlo di fronte al partito, visto che su di lui pendeva una condanna a morte emessa da un tribunale presieduto dai vertici del sodalizio comunista milanese. Tutto ciò ha influito sulle decisioni del Neri, obbligandolo ad abbandonare Moltrasio e a far ritorno verso l'alto lago (Bonzanigo) dove avrebbe trovato ospitalità in casa di persone (i coniugi De Maria) che erano solidali con la resistenza.
Il desiderio di riscattarsi agli occhi dei compagni e la sudditanza del Neri nei confronti degli alleati fanno del personaggio un enigma indecifrabile. Se ho capito bene, il Neri aveva come obiettivo prioritario quello di consegnare il Duce agli alleati. Il contrordine del Sardagna ed il diniego di Pietro che paventava ingerenze angloamericane qualora si fosse deciso comunque di proseguire in macchina verso Como liberata (?), lo hanno spinto ad abbandonare la soluzione Brunate, dove ad aspettarlo potevano anche esserci uomini che agivano non in sintonia con il CVL di Milano (probabilità invero remota). Ha, quindi, abbracciato quelli che avrebbero dovuto essere i suoi obiettivi fin dal primo momento, ossia assecondare gli interessi di coloro che erano comunisti come lui. Non è stata una scelta, ma bensì una conseguenza inevitabile. La condanna a morte che gravava sulla sua testa (senza dubbio immotivata), può aver inciso sulle decisioni iniziali prese dal Neri: privilegiare i disegni del Sardagna e non quello che era il tornaconto personale del PCI. Non si tratta di una ripicca. Potrebbe essere stata la ricerca di alleanze vicarianti che da tempo coltivava. Una strategia giustificata da una sentenza di morte che pendeva su di lui, ma che era del tutto ingiustificata. Ne emerge una figura in bilico tra la volontà di uccidere il Duce e quella di salvarlo dalle grinfie degli irriducibili persecutori comunisti.
Poiché il Neri non era un sanguinario (a differenza dei compagni del vertice comunista), il comportamento da lui adottato è facilmente comprensibile. Sapeva, infatti, che gli alleati avrebbero processato il Duce (una condanna sarebbe stata inevitabile), ma sapeva anche che lo avrebbero fatto nel rispetto della ferrea legalità (?). L'idea di fare un regolare processo a Mussolini era per lui implicita e conseguenziale. E' ovvio che le sue preferenze si erano rivolte verso quelle strutture e quegli uomini che sulla carta gli garantivano l'esito della missione da lui auspicato (un processo). La sfiducia nei confronti del partito (lo aveva incolpato ingiustamente), sarebbe stata la molla che avrebbe fatto fare al Neri delle scelte sicuramente in aperto contrasto con le direttive adottate dai comunisti. Il suo non è stato un tradimento, ma è stata l'applicazione logica, la messa in pratica di un sistema e di una propedeutica di vita. Vedremo fra poco che questa mancanza di rigorosa ortodossia e lo scantonamento da una linea di condotta verticistica gli costerà molto cara.
A questo punto può sorgere un'altra domanda: Pietro avrà detto ai dirigenti della Federazione comunista di Como che il Neri, prima di ripiegare su Bonzanigo, voleva ad ogni costo portare il Duce a Brunate? I comunisti lariani di certo sapevano qual'erano le basi del PCI dislocate sul territorio comasco. Se la collina di San Maurizio non rientrava tra i loro recapiti (poteva essere una postazione gestita dalle missioni degli alleati o dai partigiani bianchi), per il Canali le cose si sarebbero messe davvero male. Pietro, dunque, potrebbe aver portato acqua al mulino di coloro che, sbagliando, vedevano nel Neri un subdolo traditore. Sta di fatto che il Canali, ai primi di maggio del 1945, è stato ammazzato proprio dai comunisti (vedi dopo).
Avendo alle spalle una condanna di morte, il Canali ha avuto un bel coraggio quando si è schierato a fianco di coloro che volevano salvare Mussolini. Se l'opinione che avevano di lui i comunisti era poco edificante, un comportamento garantista pro Mussolini non faceva altro che peggiorare la sua situazione nei giudizi del PCI. Sicuramente il Canali, persona per bene, era un legalitario ed avrebbe acconsentito ad uccidere il dittatore solo dopo un processo che rispettasse i crismi delle norme giuridiche vigenti in materia in tempo di guerra. Non per niente il 28 aprile di mattina si era recato dal Sindaco di Como, Armando Marnini, per pregarlo di presiedere un tribunale che avrebbe dovuto giudicare i prigionieri fascisti, Duce incluso.
Poiché Mussolini non poteva essere giudicato da un tribunale degli alleati, il Canali aveva riposto le sue speranze in un collegio giudicante italiano. Anche se la sentenza era scontata (i giudici sarebbero stati dei comunisti), bisognava rispettare il crisma della legalità. Se il Duce doveva morire, il che sarebbe accaduto in seguito ad una condanna morte emessa da un tribunale e non al termine di un'esecuzione spietata, sommaria e a sangue freddo come era stata quella che ha posto fine alla vita dello Zar Nicola II e della sua famiglia, compreso lo Zarevic bambino (Ekaterinenburg, Siberia, cantina della casa Ypatieff). Questi atteggiamenti del Neri (non in sintonia con le intenzioni omicide del summit comunista) e altre (sagge) risoluzioni da lui prese riguardo al famoso oro di Dongo hanno sicuramente contribuito a farlo ammazzare. Il Canali è stato, infatti, ucciso da sicari del PCI subito dopo i luttuosi fatti di Bonzanigo e/o di Giulino di Mezzegra. Un tragico elenco di morti che si apre appunto con il nome del partigiano Luigi Canali (capitano Neri), capo di stato maggiore della 52° Brigata Garibaldi "Luigi Clerici", per proseguire poi con quello della sua amante Giuseppina Tuissi, la staffetta "Gianna", di Giuseppe Frangi (Lino), di Lina Chiappo, di Michele Bianchi e di sua figlia Anna, dell'avvocato Achille Cetti e della moglie Noemi, di Alfredo Veronelli e del colonnello Di Domenico.
Volendo soffermarci sul comunista Michele Moretti (Pietro) per conoscerlo meglio, c'è più di un motivo per dubitare su quello che lui ha detto e scritto in svariate occasioni. Le sue dichiarazioni sui fatti di Moltrasio devono perciò essere accuratamente vagliate. Egli ha sempre affermato che ad uccidere il Duce era stato il colonnello Valerio. Prima di morire ha asserito di aver consegnato il suo diario dei ricordi niente meno che a Renzo De Felice. In quelle righe c'era scritto che la morte di Mussolini era stata provocata dall'intervento armato del Lampredi. R. De Felice ha dato il diario del Moretti a Paolo Mieli, il futuro direttore del Corriere della Sera. Da allora dell'incartamento morettiano non se n'è saputo più niente. Il De Felice, per altro, ha smentito di aver avuto in mano i diari del Moretti, ma non ha negato il fatto che ad uccidere il Duce potesse essere stato il Lampredi.
Restando in tema di fandonie, Pietro, in vecchiaia, si è successivamente inventato la famosa preagonica invocazione mussoliniana: "Viva l'Italia" che nessuno dei suoi agiografi ha mai riportato. Lui stesso, intervistato in un programma televisivo di Rai-tre (1995) non ha ritenuto opportuno riferire la storica frase pronunciata dal Duce subito prima della morte. In pratica ha confermato quanto aveva già detto nel 1987 ad una TV della Svizzera italiana: "Mussolini non è morto da eroe. Non si è comportato come avrebbe dovuto fare colui che era il capo del fascismo". Per non parlare poi della bufala secondo la quale il famoso mitra MAS francese calibro 7,65 lungo che Pietro aveva avuto in dotazione era gelosamente custodito nel solaio di casa sua. Dubitare di quanto ha via via affermato il Moretti non è affatto fuori luogo.
Circa le dirette responsabilità del Lampredi nell'omicidio del Duce, la notizia l'ha successivamente confermata il segretario personale di Palmiro Togliatti, Massimo Caprara. Anche Leo Valiani ha detto che ad uccidere il Duce è stato il Lampredi. L'avrebbe saputo da Luigi Longo in persona. Dello stesso avviso era pure il famoso gappista milanese Giovanni Pesce (Visone). Da parte sua Guido (A. Lampredi) ha sostenuto, mettendolo per iscritto, che l'esecutore di Mussolini non è stato lui, ma bensì il colonnello Valerio. Essendo un comunista coi fiocchi, il Lampredi non poteva allontanarsi dalla versione ufficiale sponsorizzata dal PCI. Unica variante: Mussolini prima di morire avrebbe detto "Mirate al cuore". Invocazione simile a quella (Mirate al petto) riportata dall'autista del trio partigiano, il civile Giovan Battista Geninazza reclutato a Dongo per fare da chaffeur ai killer comunisti diretti a Bonzanigo. Quest'ultimo, intervistato dallo storico Gianfranco Bianchi che lo invitava a raccontare i fatti di Giulino di Mezzegra, ha detto: "Parlare? Fossi matto!". Sulla piazza di Dongo al Geninazza che si accingeva a partire per Bonzanigo con il trio dei giustizieri comunisti, il Neri si è così rivolto: "Vedrai cose di cui non dovrai assolutamente parlare! Ne va della tua testa" . E il giovanotto si è guardato bene dal farlo.
Senza contare poi le voci che prevedono come esecutore il Moretti stesso, cosa che Pietro, in una occasione, ha lasciato sottintendere e che il partigiano Renato Morandi ha sempre sottoscritto. Il fatto che ciascuno dei tre giustizieri comunisti di Giulino di Mezzegra sia stato, di volta in volta, chiamato in causa come l'esecutore del Duce suggerisce che, molto probabilmente, nessuno di loro lo è stato veramente. Di certo non lo è stato quello più gettonato di tutti, Walter Audisio, il colonnello Valerio. Ciò nonostante il presidente della provincia di Milano ha deciso, paradossalmente, di adottare il libro in sedicesimo dell'Audisio (In nome del popolo italiano) nelle scuole della provincia lombarda.
Dopo questa breve parentesi ritorniamo a bomba e caliamoci di nuovo nell'ambigua atmosfera notturna di Moltrasio. A. Zanella riferisce gli stessi fatti descritti nelle righe precedenti in un modo leggermente diverso: "Da Milano arriva il contrordine telefonico del colonnello "Pieri", Vittorio Palombo, aiutante maggiore di Cadorna, a un albergatore di Moltrasio, legato ai partigiani, tale Sperindio Vanini, detto "Sperinett" o "Pulce", titolare del bar-albergo Posta in piazza San Rocco 5, a Moltrasio, e recapito d'arrivo in zona delle due auto con a bordo il Duce e la Petacci. Volutamente si saltano gli intermediari Sardagna e Cademartori che aspetteranno invano tutta la notte la consegna dei prigionieri. Ignoreranno a lungo i motivi del loro spiazzamento". Sempre secondo lo Zanella, Antonio Molina ha detto che a Moltrasio ha visto giungere solo una macchina proveniente da Dongo. Si sarebbe diretta verso il tabaccaio in piazza e ne sarebbero scesi due o tre uomini, tra cui il Moretti, che avrebbero incontrato il Mosè davanti al chiosco del tabacchino.
Conosciuto il contrordine proveniente da Milano sarebbero risaliti in macchina per dirigersi a ritroso verso Azzano. Ivi giunti la comitiva avrebbe raggiunto la casa dei contadini De Maria (Bonzanigo di Giulino di Mezzegra), risalendo attraverso una mulattiera impervia per i gradoni del suo tratto terminale. E' stato detto che l'arrivo alla definitiva destinazione è avvenuto poco dopo le 3 del 28 aprile. Probabilmente, però, la salita dal bivio di Azzano verso Bonzanigo è stata più tardiva (circa le 4). Lo Zanella riporta anche la testimonianza della figlia dell'ingegner Cademartori. Secondo lei il Caronti non doveva andare in macchina a Moltrasio, ma raggiungere la sponda opposta del lago in barca, partendo direttamente da villa Cademartori di Blevio.
Come mai l'operazione recupero di Mussolini era fallita? Il Comitato Insurrezionale, formato da Luigi Longo, Sandro Pertini, Leo Valiani ed Emilio Sereni, il nocciolo duro del vasto fronte resistenziale, era subito venuto a conoscenza del tenore dei radiomessaggi provenienti da Siena (consegnare il Duce agli angloamericani). Per impedirlo era necessario inviare qualcuno a Dongo per fucilare seduta state il dittatore in cattività. Afferma, infatti, lo Zanella: "A questa decisione, nonostante il suo piano e le sue obiezioni di natura giuridica e politica, Cadorna non sa opporsi. Ne prende atto ed annulla semplicemente gli ordini impartiti al Sardagna".
Secondo F. Bandini a far cambiare idea al comandante del CVL ci avrebbero pensato gli inglesi appena paracadutati a Milano, quelli della missione del colonnello Vincent. E' per altro noto il ruolo che ha svolto l'Intelligence anglosassone nell'affrettare le decisioni funeste dei comunisti milanesi. In questo contesto rimbomba l'affermazione di Leo Valiani: "Gli inglesi hanno suonato la musica ed i comunisti sono andati a tempo". Per non parlare di una telefonata intercontinentale intercettata dai tedeschi in cui Churchill e Roosevelt nel 1943 si dicevano favorevoli ad una manovra finalizzata per sopprimere il Duce. Churchill nel 1943, aveva predisposto una missione aerea (Bomber Command Harris) per bombardare palazzo Venezia e villa Torlonia onde uccidere il suo inquilino, il leader fascista Benito Mussolini.
Al "pigro" capitano E. Daddario che chiedeva notizie dove si trovava Mussolini, all'alba del 28 aprile, il generale Cadorna, mentendo, ha detto: "Al momento del Duce non abbiamo alcuna informazione". Senza contare un secondo fatto. Riguarda un'altra frase del generale, ormai intenzionato ad assecondare il piano omicida del Comitato Insurrezionale: "Ma sì! Fatelo fuori!". Dopo la guerra il Cadorna ha giustificato il suo comportamento, dicendo: "L'ordine di sopprimere Mussolini, ordine di carattere politico, esorbitava evidentemente dalle mie attribuzioni che erano di carattere puramente militare". In una occasione è stato addirittura patetico: "La mia funzione di comandante generale del Corpo Volontari della Libertà è stata del tutto nominale perché io, in effetti, non ho mai comandato niente". Nella morte del Duce, le responsabilità di Cadorna sono pari a quelle di Longo, Sereni, Valiani, Pertini, Parri e Mattei. Un delitto e non un'esecuzione in quanto la missione organizzata dal CNLAI per eliminare l'ex dittatore è da considerarsi illegittima tanto giuridicamente che moralmente. Un puro e semplice atto arbitrario. Non dimentichiamo che il generale Raffaele Cadorna, nipote del comandante delle truppe che hanno strappato Roma al Papato, figlio del generalissimo Luigi che nella Grande Guerra ha guidato l'esercito italiano fino al 1917, era e rimaneva un monarchico. Temeva quindi che un Mussolini, processato per crimini di guerra da un tribunale alleato, rivelasse al mondo intero particolari compromettenti per la Reale Casa Savoia.
Per illustrare il personaggio R. Cadorna, leggiamo quello che ha scritto A. Valenti sul "Merlo Giallo" del 22 marzo 1949: "Quando gli si presentò (nei giorni 9/10 settembre 43) l'occasione di dare esecuzione ai suoi patriottici programmi, fino allora solo cautamente espressi nelle segrete e pallide conventicole, ponendosi alla testa della sua potente unità corazzata per attaccare i tedeschi, come gli era stato formalmente e reiteratamente ordinato, egli (R. Cadorna, ndr) disobbedì accampando scuse degne di una recluta e frustando così un piano di azione che, se al suo posto ci fosse stato un generale diverso, avrebbe potuto far cambiare le sorti di Roma e probabilmente di tutta l'Italia centrale. Quando successivamente gli venne ingiunto di costituire, con le armi e gli elementi della sua divisione, delle bande di patrioti in Abruzzo, egli ancora disobbedì preferendo badaluccarsi, prima, in un comodo doppio gioco con i tedeschi e poi, rifugiarsi in località extraterritoriale ove si rese irreperibile per tutto il periodo di occupazione della capitale".
Ricordiamoci, inoltre, che la consegna del capo del fascismo agli alleati era contemplato nelle clausole dei patti armistiziali firmati dai rappresentanti del Regno del Sud dai quali il Cadorna dipendeva (applicazione dell'articolo 29 dell'armistizio di Cassibile). Pare, comunque, che il Cadorna in extremis uno sforzo per contrastare la missione di Audisio l'abbia fatto, inviando sul lago una brigata indipendente di partigiani dell'Oltrepò pavese al comando del conte Luchino Dal Verme (Maino) che aveva il dichiarato compito di cercare di fermare i giustizieri comandati dal colonnello Valerio o almeno d'intralciarne l'azione. Questa contro mossa è risultata infruttuosa per sopraggiunte difficoltà che ne hanno compromesso l'attuazione.
L'atteggiamento decisionista degli oltranzisti del CNLAI si traduce prontamente in un radiomessaggio che il telegrafista Giuseppe Cirillo invia all'AGH di Siena alle prime luci dell'alba (28 aprile): "Spiacenti non poter consegnare Mussolini che, processato Tribunale Popolare, è stato fucilato stesso posto ove precedentemente fucilati da nazisti quindici patrioti". Il messaggio consegnato al Cirillo era scritto a matita e privo di firma. A Siena lo ha ricevuto il futuro dirigente comunista Antonello Trombadori. Sembra ormai appurato che la decisione di scrivere quell'avviso è stata presa da L. Longo in persona (ricordiamoci che a quell'ora Mussolini era ancora vivo, forse). In un rapporto rinvenuto negli archivi di Mosca dagli storici Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky, Togliatti riferisce a Stalin che Mussolini è stato fucilato su ordine di Longo il quale non voleva che il Duce finisse nelle mani degli alleati. Quest'ultimi, infatti, avrebbero voluto sottoporlo ad un "regolare" processo.
Avendo prevalso la linea dura su quella "moderata" (i falchi sulle colombe), al mattino del 28 aprile, come è risaputo, viene improntata dal CVL la missione dei sicari capeggiata da Walter Audisio (colonnello Valerio) e da Aldo Lampredi (Guido Conti). Da qui la nascita di una vulgata che i canards dell'Unità hanno diffuso ai quattro venti e che è stata accettata come se fosse oro colato in certi ambienti legati agli Istituti Storici per la Resistenza. Prima di scegliere l'Audisio il CNLAI aveva fatto il nome di altri capi partigiani dell'Oltrepò pavese (figure meno squallide del colonnello Valerio) che si erano tutti rifiutati, avendo ben capito qual'era l'infausto esito finale della "delicata" missione che gli si voleva affidare.
Per dovere di cronaca è opportuno segnalare quanto scritto da U. Lazzaro (Bill) sul suo già citato libro intitolato: "Dongo. Mezzo secolo di vergogne", un libro che ha aggiunto menzogne a menzogne. Cito testualmente: "Le due automobili partirono dalla piazza di Dongo alle 2,45 del 28 aprile. Le due macchine, giunte ad Azzano, lasciarono la via Regina per inerpicarsi velocemente per una stradetta campestre e fermarsi poi, a duecento metri circa dalla via Regina, su uno slargo triangolare. Alle 3,30 i due figli di
Da Dongo a Moltrasio, vecchia via Regina, c'erano 40 chilometri di strada, interrotta da 18 posti di blocco partigiani |
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Giacomo e Lia De Maria uscirono nella notte dalla loro casa di Bonzanigo e si avviarono sotto la pioggia torrenziale verso una loro baita sulla montagna per riprendere là il sonno interrotto, poiché la loro camera era stata destinata dai genitori ad accogliere la coppia di prigionieri. Tutti questi fatti avvennero dunque tra le 2,45 e le 3,30. Sia Pedro sia Pietro, nei loro svariati e divergenti resoconti, hanno sempre scritto che le due macchine raggiunsero Moltrasio e fecero poi ritorno ad Azzano. Da Dongo a Moltrasio, vecchia via Regina, c'erano 40 chilometri di strada, interrotta da 18 posti di blocco partigiani, mentre da Moltrasio ad Azzano c'erano altri 15 chilometri di strada, interrotta dagli ultimi 8 posti di blocco dei 18 tra Dongo e Moltrasio e seguiti da quasi un chilometro (in realtà 250 metri, ndr) di mulattiera, in erta salita, che portava a casa De Maria".
"Analizzando il racconto di Pedro in "Dongo, ultima azione", risulta che furono spesi almeno 10 minuti ad uno stranissimo posto di blocco prima di Menaggio, ignorato invece nel resoconto di Pietro, altri 5 minuti al posto di blocco di Cadenabbia e, in media, un minuto a ciascuno degli altri 24 posti di blocco restanti; 10 minuti a Moltrasio tra lo scendere, l'ascoltare gli echi degli spari provenienti da Como, il chiedere spiegazioni al personale del bar o presso la casa dalle "finestre buie"; 5 minuti per decidere cosa fare, perché i tre, Pedro, Pietro e il capitano Neri, avevano tre opinioni differenti; altri 20 minuti per percorrere, sotto la pioggia scrosciante, il chilometro di mulattiera fino a casa De Maria; e altri 10 minuti perché Lino (Giuseppe Frangi) spiegasse agli zii (non era loro nipote. Lia De Maria da sposare si chiamava Faggi non Frangi, ndr) cosa si voleva da loro, per far alzare dal letto i figlioli, farli rivestire e uscire di casa. Ne risulta un totale di 104 minuti, ai quali bisogna aggiungere un minimo di 75 minuti, ossia il tempo necessario a percorrere i 55 chilometri di strada tortuosa e stretta, con numerose salite e discese, con moltissime buche, al buio e sotto il diluvio. Il totale effettivo diventa pertanto 179 minuti, cioè tre ore. I partigiani e i due prigionieri sarebbero dunque dovuti giungere a casa De Maria alle 5,45 del 28 aprile (lo Zanella afferma che Pietro, Pedro ed il Neri lasciano casa De Maria alle 5,30 circa. E' dunque presumibile che siano arrivati a Bonzanigo verso le cinque. La stessa cosa la dice Giorgio Pisanò)".
"Partiti da Dongo alle 2,45, io ne fui testimone, Pedro, Pietro, il Capitano Neri, Gianna, Lino e Sandrino, con i due prigionieri, andarono direttamente a casa De Maria. Per evitare di essere sospettati di non aver eseguito il piano concordato con Sardagna, Pedro e Pietro raccontarono di essere giunti a Moltrasio, facendo sottintendere di non avervi trovato la barca, come invece era stabilito nel piano stesso. Che la meta prefissata a Dongo fosse casa De Maria a Bonzanigo e non villa Cademartori a Blevio, è dimostrato dalla presenza sulle vetture di Lino e Sandrino: infatti, durante il viaggio, non sarebbe stata assolutamente necessaria la presenza di altri due garibaldini, in quanto, su ciascuna macchina, tolti Lino e Sandrino, rimanevano ancora tre persone per ciascun prigioniero, una donna ed un uomo quasi settantenne. I due non sarebbero stati necessari neanche a villa Cademartori, perché là c'era già in attesa dei prigionieri un discreto gruppo di partigiani scelti per il preciso compito di guardia".
"Dopo essersi rifocillati con una tazza di caffè surrogato, Pietro, Pedro e Neri riprendono la via del ritorno. Sono le 5,15 del 28 aprile, scrisse Pedro nella sua versione originale. Dopo aver lasciato casa De Maria, Pedro giunse solo soletto a Dongo poco dopo le 8 ed io gli riconsegnai il comando della piazza ed i trentuno prigionieri dell'elenco.che erano rimasti in trenta. Egli non mi rivelò dove fosse stato trasportato Mussolini con Claretta, né io glielo chiesi. Tra le 5,15 e le 8 passate intercorrono però circa tre ore: dov'era andato Pedro in quelle tre ore? E furono tre o più? Egli scrisse che uscì da casa De Maria lasciando Mussolini nella cucina ancora bendato e Claretta Petacci. Sandrino raccontò poi a Ferruccio Lanfranchi, il quale lo riferì nella sua testimonianza alla Corte di Padova nel 1957 (le testimonianze di Sandrino sono sempre da prendere con le molle, ndr), che Mussolini si sbendò alle 4 di notte. Ne consegue che Pedro e compagni erano usciti prima di quell'ora dalla cucina di casa De Maria".
F. Bandini accredita il discorso fatto dal Lazzaro ed ipotizza (azzardatamente) che il ricovero a casa De Maria faceva parte di un piano che doveva ultimarsi con la consegna della coppia dei reclusi agli inglesi. Il Bandini è stato l'antesignano ideatore di un fantomatico "appuntamento sul lago", un tema che altri hanno sviluppato sulla scorta di pure e semplici supposizioni. Prove nessuna, ipotesi molte, illusioni create nell'entourage dei fascisti tante. L'Andriola, il portavoce della tesi secondo la quale il Duce era alla ricerca di un contatto con emissari inglesi provenienti dalla Svizzera, confonde la disperazione con la
Il Bandini è stato l'antesignano ideatore di un fantomatico "appuntamento sul lago", un tema che altri hanno sviluppato sulla scorta di pure e semplici supposizioni |
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speranza, i carteggi scritti da Churchill con l'immaginetta di Santa Rita da Cascia e un anfanare inconcludente con le abili e astute mosse di Sherlock Holmes. Se davvero il Duce fosse stato in attesa di un contatto con esponenti del governo britannico non avrebbe detto con tono disperato: "Mi darò alla montagna con Porta, è mai possibile che non si trovino cinquecento uomini disposti a seguirmi?".
Ha affermato Pietro Carradori, l'attendente del Duce: "Debbo smentire alcuni storici che hanno ipotizzato di un rendez-vous mancato, a Grandola, tra il Duce ed emissari di Churchill. Non era in programma alcun incontro del genere quella mattina". Per l'Andriola, il deus ex machina di questi presupposti contatti a cavallo della frontiera italo-svizzera sarebbe stato Marcello Petacci, un individuo losco che Mussolini non poteva soffrire. Basti pensare ad un fatto: il Petacci era stato invischiato fino al collo nello scandalo degli scarponi militari fatti con cartone pressato ed inviati ai nostri alpini sul fronte russo. Per non parlare dei suoi oscuri maneggi per tentare di espatriare in Italia ingenti quantitativi di sterline in oro dalla Spagna del generalissimo Franco. Essendo il fratello di Claretta, sulle malefatte di Marcello, il Duce ha sempre chiuso un occhio, se non tutte e due.
Munito di due passaporti spagnoli con nomi fasulli, Marcello Petacci era entrato in Svizzera il 20 aprile del 1945 da Agra, nel Luinese, con la convivente Zita Ritossa ed i due figli in tenera età (Benvenuto e Ferdinando). Inviato a Bellinzona per accertamenti, si rifiuta di sottostare alle norme per i richiedenti l'asilo politico ed esige di essere riaccompagnato alla frontiera. Rientra quindi in Italia dal valico di Pallone sopra Luino con i familiari il 23 aprile, lasciando dietro di se una scia di illazioni sulla vera identità dei componenti il quartetto di sedicenti spagnoli.
Scrive il Viganò, facendoci capire quali erano le vere intenzioni del Petacci sconfinato in Svizzera: "La famiglia Castello, composta dal padre, Don Giovanni Castello-Munoz di Giuseppe, nato il 03.10.12, commerciante, della madre Maria Castello-Munoz nata Gonzales y Moreno e dei figli Pietro e Ferdinando comparve sul nostro orizzonte pacifico e neutrale il 20.4.45 e si adagiò con numerosissimo bagaglio a Cassinone di Sessa poco dopo le ore 05.00. Secondo il capo dei Castello il passaggio clandestino dall'Italia in territorio di Sessa sarebbe avvenuto coll'aiuto di alcuni passatori e portatori ai quali è stato pagato il compenso di un milione di lire. I Castello non caddero subito nelle mani delle guardie di confine o della polizia, ma, trasportati alla chetichella a Lugano, godettero di qualche interessata protezione e soltanto il giorno 21.4.45 sull'annottare comparvero alla Casa d'Italia di Bellinzona. Qui il Don Giovanni Castello, che aveva un piccolo pizzo al mento e l'aria discretamente fanfarona, si proclamò cittadino spagnolo, esibendo fior di passaporto rilasciato dal Consolato di Spagna a Milano e dimostrò di essere assillato dalla necessità inderogabile di trasferirsi in Spagna. Però quando ebbe sentore del vento sospettoso ed infido che aleggiava intorno a lui capì che non sarebbe stato trattenuto, sollevò obiezioni sulla meschinità dei pagliericci in grembo ai quali avrebbe dovuto riposare la spagnolesca sua maestà e far adagiare la moglie schizzinosa e i due bambini irrequietissimi, che toccavano tutto, anche i fucili mitragliatori della guardia e chiese, lui che aveva pagato un milione di sia pure lire italiane per venir qui, di poter ritornare in Italia. Non ce lo lasciammo chiedere una seconda volta e tutti i Castello-Munoz-Gonzales y Moreno furono riaccompagnati a Cassinone di Sessa nella notte del 23.4.45 e respinti in Italia".
Che in Svizzera il Petacci abbia intrallazzato con gli inglesi (Sir J. Clifford Norton) è tutto da dimostrare. Marcello si è unito alla colonna Mussolini per non abbandonare al suo destino la sorella Claretta. Fino all'ultimo l'ha scongiurata di trascurare tutto e tutti (Mussolini incluso) e di seguirlo in Svizzera insieme alla propria famiglia. Anche con il Duce, sempre riluttante, il Petacci non faceva altro che proporre un espatrio clandestino in territorio elvetico. Dalla Svizzera alla Spagna il passo sarebbe stato breve. Anche Claretta poteva espatriare perché era in possesso di un falso passaporto spagnolo.
Da un punto di vista familiare Marcello si è comportato da galantuomo premuroso. Ha cercato di fare quello che deve fare un fratello quando sa che sua sorella è in pericolo. Di solito gli agenti segreti o coloro che tramano nell'ombra si muovono silenziosi senza farsi notare. Non vanno in giro con l'amica e con i figli minorenni. Il Petacci si spacciava per un diplomatico spagnolo. E pensare che non conosceva neppure una parola di quella che avrebbe dovuta essere la sua lingua madre. Se era una spia aveva scelto il travestimento sbagliato. Per non parlare dei suoi passaporti che erano stati contraffatti in modo artigianale.
Se non fosse stato per Claretta, il Petacci ne avrebbe fatto volentieri a meno di infilarsi in budello com'era allora la lariana occidentale |
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Alcune date di nascita erano sbagliate ed i timbri erano stati messi in malo modo: a olio e non a secco. Definire il Petacci una spia mi sembra un azzardo. Sarebbe meglio chiamarlo azzecca garbugli, un termine di manzoniana memoria.
Se non fosse stato per Claretta, il Petacci ne avrebbe fatto volentieri a meno di infilarsi in budello com'era allora la lariana occidentale. Sarebbe rimasto più volentieri a Milano per curare i suoi molteplici interessi economici per salvaguardare i quali intratteneva rapporti stretti sia con i tedeschi che con gli alleati. Quando Mussolini è salito sul camion dei tedeschi indossando un loro cappotto, ha dato una delle sue due borse contenti documenti scottanti., tra cui il carteggio Churchill-Mussolini, a Claretta che l'ha messa tra i bagagli custoditi nella macchina di suo fratello Marcello. Da quel momento il Petacci, sfruttando il travestimento da finto diplomatico spagnolo, si è sentito autorizzato a dire che aveva un appuntamento importante alla frontiera svizzera con l'inglese Sir J. Clifford Norton. Solo in extremis Mussolini, non potendo far altro, si è fidato di suo "cognato" Marcello. Costui in Svizzera, se fosse stato più scaltro, forse, ci sarebbe arrivato davvero. E' stato questo il motivo che ha spinto il Duce a tentare di far ricorso ad una persona che, per altro, non stimava. Perso per perso il Petacci, ultima spes, era meglio di niente.
Durante la repubblica di Salò, il fratello di Claretta qualche tresca con gli alleati l'ha sicuramente fatta: inviava in Svizzera copia delle lettere che Mussolini inviava all'amante. Per questo si era meritato il disprezzo dei Gerarchi fascisti che a Dongo non hanno voluto mischiare il loro sangue con quello di uno che consideravano un vile traditore. In questo clima da film alla Poirot si è persino inserito un nipote dell'amante del Duce che ha detto: "Claretta Petacci era una spia britannica". Come suo padre il Petacci junior (Ferdinando) era un intrallazzatore. Ha visto nell'editoria un modo per guadagnare. Ecco i motivi di uno scoop del tutto improponibile. Sempre a fini di lucro ha tentato con mezzi legali di impossessarsi delle lettere che sua zia scriveva al dittatore. Purtroppo per lui gli è andata male.
A chi ama il nero, il credere che il Duce fosse stato fino all'ultimo minuto l'artefice del suo prometeico destino ha fatto indubbiamente piacere. In coro gli agiografi fascisti hanno, infatti, invocato "l'appuntamento sul lago" per spiegare il gironzolare senza costrutto di Mussolini sulle sponda occidentale del Lario in cerca di diplomatici britannici che avevano valicato il confine elvetico.
Gli antifascisti hanno interpretato questo comportamento inusuale ed amletico come l'espressione di un reiterato tentativo fatto da Mussolini per fuggire in Svizzera. In contrasto con un'opinione diffusa secondo la quale il generale delle SS Karl Wolff avrebbe tradito Mussolini, consegnandolo ai partigiani, c'è anche chi sostiene che il gallonato nazista ha fatto di tutto per salvare il Duce. Per ordine suo, all'aeroporto di Bolzano un aereo aspettava Mussolini ed i suoi Ministri per trasportarli in Spagna. L'aereo è decollato solo quando si è saputo che Mussolini ed i Gerarchi erano stati uccisi.
Il collegamento con il lasciapassare spagnolo che il dittatore aveva nella tasca posteriore dei pantaloni è implicito e conseguenziale. Quel documento, contenuto in una busta intestata "Fascio repubblicano di Dongo", sicuramente apparteneva al clan Petacci. Volendo denigrarlo, i partigiani potrebbero averlo messo nelle tasche del Duce per dimostrare i suoi ignominiosi tentativi di fuga. Il mussoliniano Ernesto Roli, prove alla mano, mi ha dimostrato che l'aereo di Wolff è una bufala alata. Se Mussolini avesse realmente voluto espatriare in Spagna non avrebbe aspettato l'ultimo momento. Avrebbe seguito i consigli del suo segretario Luigi Gatti che aveva già da tempo pianificato il trasferimento del Duce in territorio iberico, coinvolgendo la propria moglie che di nazionalità era spagnola.
In realtà Mussolini, avendo come unico obiettivo la Valtellina, cercava solo un posto tranquillo per aspettare le milizie che gli doveva portare A. Pavolini dopo averle raggruppate a Como. Svanita anche quest'ultima speranza, in parte per colpa sua (se da Menaggio fosse rientrato a Como, come suggerito ripetutamente da A. Pavolini, le cose sarebbero cambiate), si è arreso inerme all'insidie del destino. Distrutto, prima di salire sul camion dei tedeschi, ha detto: "Me ne vado con loro perché non mi fido più degli italiani". Il che testimonia qual'era il suo reale stato d'animo al momento dell'epilogo.
U. Lazzaro (Bill) affermato che ad uccidere Mussolini sarebbero stati Alfredo Mordini (Riccardo) e Michele Moretti (Pietro) guidati dal capo comunista milanese Luigi Longo (Gallo). La tesi di Bill si basa sulle testimonianza rilasciategli a posteriori dalla Gianna (Giuseppina Tuissi) e dal carceriere del Duce Lino (Giuseppe Frangi). Strano che i due non abbiano anche raccontato all'amico ex finanziere ed ora vice commissario politico della 52° Brigata Garibaldi il loro mancato viaggio notturno verso Moltrasio. L'ipotesi di Bill avrebbe avuto ben altro spessore. Secondo lui, inoltre, L. Longo avrebbe anche presenziato, nel pomeriggio, alla fucilazione dei Gerarchi fascisti schierati davanti ad un muretto sul lungo lago di Dongo. Cosa impossibile perché Gallo era in quelle ore sicuramente a Milano intento ad accogliere i partigiani che provenivano dalla Valsesia. Una foto eloquente lo dimostra in maniera incontrovertibile. Parlando delle congetture suggerite dal Lazzaro mi vengono in mente le parole di John Dryden: "Questa è la sorte di tutti i machiavellici: fare i loro disegni così sottili che si rompono per la loro stessa finezza".
Ha affermato uno storico serio e preparato, Roberto Festorazzi: "Tuttavia, se sono pronto a riconoscere i meriti di Lazzaro, non faccio mistero di non aver condiviso il suo sostegno alla tesi, oggi così in voga, della doppia fucilazione di Mussolini. Anzi, per taluni versi, "Bill" anticipò quella corrente di pensiero che ha voluto tenacemente contrapporsi alla cosiddetta versione ufficiale sulla morte del Duce. Debbo dire che i racconti di "Valerio", e anche quelli di Moretti, non mi hanno mai convinto del tutto. Ma di qui ad affermare, come fece "Bill" negli anni Ottanta, che Mussolini e la Petacci furono ammazzati la mattina del 28 aprile (anziché il pomeriggio) vicino a casa De Maria, dove i due prigionieri avevano trascorso la notte, anziché davanti al cancello di Villa Belmonte, ce ne corre parecchio. Specie se si tiene conto che Lazzaro giunse a sostenere che il colonnello "Valerio" non era Walter Audisio, ma nientemeno che Luigi Longo. Una tesi, quest'ultima, che mi ha sempre lasciato perplesso in quanto "Bill" non fu nemmeno presente sulla scena dell'esecuzione".
"Di "Bill", infatti, mi piacevano poco una certa attitudine a cercare le luci della ribalta e le sue concessioni alla facile moda dello "scoop" a tutti i costi. Tra gli attori dei fatti di Dongo, è stato il più prodigo di rivelazioni: prolifico autore di libri, sempre pronto a rilasciare interviste e a firmare articoli sui giornali. I suoi detrattori, probabilmente esagerando, hanno sostenuto che, nell'immediato dopoguerra, visse in hotel confortevoli, prezzolato dai reporter della grande stampa internazionale. Certo non se la passò poi tanto male, né allora, né dopo, anche se i suoi ex compagni di battaglie comunisti non gli hanno mai perdonato di non essersi consegnato alla linea del "silenzio" tombale: e per qualcuno l'aggettivo "tombale" è purtroppo valso in senso letterale".
Riferendosi a Mussolini, il temerario partigiano Bill si è così espresso: "Mussolini ha tentato, ed è qui il motivo del mio disgusto, di corrompermi. Mentre infatti rovistavo tra le sue carte (27 aprile 1945, ore 16, municipio di Dongo) trovai sul fondo della borsa 160 sterline in oro ed un milione e settecentomila lire in assegni: guardai quel denaro, lo contai mentre lui era seduto proprio alla mia sinistra, al che lo guardai e gli dissi: . Ecco qual'è stata la sua risposta: . Mi vuoi comperare, pensai, e da quel momento ogni opinione che poteva essere, diciamo così, "buona", sparì. Neanche per due milioni di sterline oro mi sarei fatto comperare!" Cose inaudite. Il Duce, notoriamente un uomo tutt'altro che venale, non era uno sprovveduto e sapeva benissimo che in quel momento, prigioniero dei partigiani, non c'era niente di più compromettente per lui che un larvato tentativo di corruzione. Altro che due milioni in lire o sterline: dopo la guerra, il Lazzaro, non sapendo come fare a mettere insieme il pranzo con la cena, si è venduto per ben molto meno. I dati, nel loro insieme, suggeriscono che Bill è un fanfarone poco credibile. Solo persone poco informate lo considerano un personaggio meritevole di fiducia.
Altri la pensavano diversamente. Al termine della guerra il finanziere Lazzaro è stato insignito con la medaglia di bronzo al Valor Militare ed è stato promosso al grado superiore. Ciò non fa meraviglia. Subito dopo i fatti di Dongo, l'Unità (il giornale dei comunisti) ha scritto che l'Audisio, per i suoi vantati meriti, doveva essere decorato con la medaglia d'oro. Anche Caligola ha nominato Senatore il suo cavallo Incitatus. Per non parlare di Carlo II d'Inghilterra che ha dato il brevetto di Cavaliere a una lombata di porco. Una cosa mi ha fatto inorridire. Quando Bill ha saputo che il suo compagno d'armi Luigi Canali era stato ammazzato ha detto impietosamente con cinico disprezzo: "Quello lì è andato in Svizzera senza le scarpe". Questo dimostra di che pasta fosse fatto il partigiano Lazzaro.
Lo Zanella presume che un incarico di quella importanza non poteva essere affidato ad una donna anche se scortata da alcuni uomini armati |
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La solidarietà non faceva di certo parte del suo bagaglio umanitario.
Ulteriori dubbi sulla effettiva intenzione di Pedro e Neri di portare Mussolini a villa Cademartori di Blevio li sollevano alcune affermazioni dello Zanella. Come sappiamo Gianna faceva parte della piccola carovana di macchine partite da Dongo alla volta di Moltrasio. Lo spostamento era iniziato alle 2,45 del 28 aprile. Dice lo Zanella: "Un bergamasco, Dario Giacobbe, veterinario di Dongo, ha visto verso mezzanotte la partenza di Gianna su una 1100. Dichiarerà: . Questo almeno gli hanno fatto credere".
Lo Zanella presume che un incarico di quella importanza non poteva essere affidato ad una donna anche se scortata da alcuni uomini armati. Per lui è più verosimile un'altra ipotesi: la giovane staffetta partigiana sarebbe andata a casa De Maria per preparare il terreno (far sgombrare la camera dei figli e riassestarla) e per portare alcuni bagagli di Claretta. In realtà, andare da Dongo a Milano, consegnare i valori che aveva in deposito temporaneo e ritornare indietro sul lago di Como (Dongo) in 2,30 ore è molto improbabile, anche se alla guida c'era il celeberrimo autista partigiano "Carletto scassamacchine" (non è vero, lo dico io per celiare, ma non troppo). Un figlio dei De Maria, intervistato da Gianni Minoli, ha detto che la madre lo ha svegliato non a mezzanotte, ma alle 4,30 del mattino. Speriamo che l'erede De Maria non abbia avuto la stessa propensione a dire bugie che ha sempre contraddistinto la sua genitrice. Resta comunque inpregiudicato dove sia andata effettivamente la Gianna se si escludono entrambi i viaggi: quello lungo a Milano e quello più breve a Bonzanigo.
L'andata della Gianna in avanscoperta a casa De Maria presume ovviamente che la destinazione di Bonzanigo era stata già preconizzata dal capitano Neri ancor prima di partire per Moltrasio. In tale evenienza, però, non si riesce a capire perché i partigiani sarebbero andati prima a Moltrasio per poi tornare indietro ad Azzano, né alcuno è riuscito a dare spiegazioni soddisfacenti per poter giustificare un comportamento così strano. In quest'ottica è utile riportare quanto ha affermato Dorina Mazzola a G. Pisanò: poco dopo mezzanotte avrebbe visto risalire per via del Riale un gruppo di partigiani tra cui spiccavano due donne (la Mazzola non riferisce però se i partigiani sono ridiscesi o meno). Avendo lasciato le macchine a valle, il gruppo non può aver lasciato Bonzanigo, percorrendo via del Brentano e la successiva via XXIV Maggio che collega Giulino di Mezzegra alla frazione più a valle di Azzano. I rumori provocati da quegli uomini e da quelle due donne, tutti sferraglianti d'armi, hanno svegliato la Mazzola a mezzanotte, ma non gli stessi rumori l'hanno ridestata verso le 4 o le 5 del mattino quando sono arrivati Pedro, Neri e company per depositare in casa De Maria il Duce e Claretta. Essendo soggetto a ritmi circadiani, il sonno del mattino è in genere meno profondo di quello serotino, lo sanno bene coloro che soffrono d'insonnia. Alternativamente si può ipotizzare che la Mazzola non avesse eccessiva confidenza con l'orologio.
Sul sito Internet italpag.altervista.org (B. Brugia. Congresso Nazionale Futurista) c'è scritto: "Devo dire un grazie al mio amico e camerata Giorgio Pisanò che con meticolosa, quasi certosina pazienza ha cercato di ricostruire le ultime gloriose giornate della Repubblica sociale italiana. Leggendo il suo ultimo libro, "Gli ultimi cinque secondi di Mussolini", lo ringrazio ancora per la sua ricerca, durata tanti anni, per la sua serietà e per quel suo rigore storico. Comunque, in me rimangono grossi dubbi su quel diario di "Dorina Mazzola" che il 28 aprile 1945, appena diciannovenne, di estrazione cattolica, è testimone oculare dell'esecuzione di Benito Mussolini così ignominiosa e brutale. Ho grossi dubbi! Leggendo il diario di quel giorno sento che dietro a tutto c'è un suggeritore furbo e astuto, di quelle furbizie che si apprendono nei seminari e nelle sacrestie delle chiese: forse il suggeritore è proprio un prete". Che la famiglia di Dorina fosse profondamente religiosa è un fatto accertato. Il padre "ricopriva una carica nella parrocchia in rappresentanza degli abitanti di Bonzanigo".
Rodolfo Putignani è andato con G. Pisanò ad esaminare i pantaloni e gli stivali del Duce conservati nella cripta di famiglia situata nel cimitero di San Cassiano a Predappio. Il Pisanò ha trovato un foro in corrispondenza del fianco destro che gli faceva molto comodo per avvalorare la sua versione dei fatti basata sulla testimonianza della Mazzola. Sempre per utilitarismo personale il Putignani ha detto che i pantaloni erano imperforati. Nemmeno tra camerati sono riusciti a mettersi d'accordo. Il che significa che l'importante non è la verità ma vendere i propri libri con gli annessi DVD.
Mi risulta che la Mazzola abbia precedentemente rivelato le stesse cose dette al Pisanò anche ad Alessandro Zanella il quale, non avendo creduto ad una sola virgola di quello che lei diceva, si è rifiutato di pubblicarle. Ho chiesto ad uno storico della resistenza di provate capacità professionali, Marino Viganò, cosa ne pensasse della testimonianza della Mazzola rilasciata a G. Pisanò e quali argomenti avesse per confutarla. Mi ha cortesemente risposto con queste parole: "E' una storia che si commenta da sola. Così direbbero i filosofi". Il che significa: "Timeo Danaos et dona ferentes" (Temo i Greci e coloro che portano doni).
Dopo aver fatto le sue rivelazioni al Pisanò, la loquace supertestimone oculare è stata severamente sgridata da suo fratello che nel 1945 era un partigiano. E' strano che il vincolo politico ed ideologico abbia avuto il sopravvento su quello del sangue. Sono del pari a conoscenza di un fatto: il Pisanò ha ricercato con il metal detector le pallottole che dovevano trovarsi infisse nella porta di legno della stalla di casa De Maria. Mussolini sarebbe stato, infatti, finito a colpi d'arma da fuoco proprio legato al catenaccio di quel limitare. La ricerca ha dato esito negativo. Poiché la proprietaria di casa De Maria, Danielle Nastri, mi ha detto che la porta della stalla l'aveva buttata via perché troppo deteriorata, non si capisce il significato delle indagini strumentali fatte fare al Pisanò. In questa vicenda c'è qualcosa che non torna. La Mazzola, inoltre, doveva avere orecchie da elefante. Nonostante la sua casa distasse cento metri in linea d'aria da casa De Maria ha potuto distinguere distintamente il rumore dei colpi di pistola sparati in camera da quelli esplosi all'esterno dell'edificio. Non tutti sono disposti a darle una fiducia incondizionata.
La Mazzola dice che Claretta si è aggrappata alle gambe del cadavere di Mussolini (sorretto per le ascelle) con una tale veemenza tanto da sfilargli lo stivale destro. Il Pisanò ipotizza che per tentare di rimetterglielo i partigiani ne avrebbero rotto la cerniera lampo posteriore. Nella cripta di San Cassiano a Predappio lo stivale è effettivamente in queste condizioni. I motivi del rinvenimento di una calzatura così danneggiata non sono quelli addotti dal Pisanò perché per trazione dal basso è impossibile sfilare uno stivale aderente e alto fino al ginocchio se questo è correttamente chiuso posteriormente da una cerniera lampo (nemmeno con la forza della disperazione che aveva Claretta). Qualsiasi calzolaio lo può confermare.
Quasi in contemporanea al Pisanò, la Mazzola ha fatto le sue rivelazioni anche ad un giornalista del settimanale Epoca. Nella versione riportata su Epoca due particolari importanti, il risveglio notturno di mezzanotte e la storia delle stivale sfilato da Claretta, non sono chiaramente intelligibili. Il Pisanò può averci ricamato sopra, modificando la prisca verginità della Mazzola. Alternativamente il giornalista di Epoca non ha riportato nei dettagli tutta la cronistoria fornita dalla supertestimone oculare per contenere l'articolo entro certi limiti editoriali. Lo storico Giorgio Cavalleri, autore del citato libro "Ombre sul lago", ha detto: "La testimonianza di Dorina Mazzola mi sembra fragile e contraddittoria". Il perché, però, non lo ha mai precisato. Essendo di sinistra, il Cavalleri non poteva dire altro.
Il Pisanò, quando ha presentato il suo libro, ha detto di aver omesso due pagine, quelle in cui ipotizzava che Claretta fosse stata ripetutamente violentata dal capo dei partigiani di Bonzanigo, Martino Caserotti (capitano Roma). Sia il professor Giovanni Pierucci che il professor Pier Luigi Baima Bollone hanno escluso che la Petacci avesse subito violenze sessuali prima della morte. Quella dello stupro è stato sempre un chiodo fisso del Pisanò. Il lupo perde il pelo, ma non il vizio. Dopo aver ipotizzato che il killer del Duce fosse stato Sandro Pertini, il Pisanò ha corretto il tiro, spostandolo sul leader comunista Luigi Longo. Si tratta comunque di esecutori blasonati, un'altra mania persecutoria dell'ex parlamentare del Movimento Sociale Italiano che ha sempre suonato l'olifante per chiamare personalmente in causa gli "indiretti" responsabili dell'assassinio del Duce.
Ogni situazione che ha coinvolto Mussolini dopo il suo arresto è stata motivo di racconti contrastanti. A parte le poco credibili obiezioni del Lazzaro e quella dello Zanella, si può ritenere che la ricostruzione del viaggio verso Moltrasio ed i motivi che ne hanno condizionato il fallimento rispecchi una sequenza di fatti realmente accaduta.
(2 - Fine)
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