Da Cavour a Mussolini i regolamenti hanno sempre oscillato tra norme di profilassi igienica e un dubbio controllo della moralità pubblica.
La legge e l'alcova:
la prostituzione nella legislazione italiana tra '800 e '900
di MICHELE STRAZZA
All'inizio dell'Ottocento con l'espandersi dell'impero napoleonico viene introdotta anche in Italia la legislazione francese sulla prostituzione. Nel 1791 i controlli sulle meretrici erano stati aboliti perché un regolamento a riguardo sarebbe stato contro la libertà individuale.
Preso il potere Napoleone, le cose cambiarono e nel 1810 entrò in vigore a Parigi un regolamento che, superando l'esigenza di uno specifico intervento legislativo, demandò il controllo del fenomeno allo strumento amministrativo.
L'uso di regolamenti di polizia per controllare il fenomeno della prostituzione, voluto da Napoleone essenzialmente per proteggere le proprie truppe dal contagio di malattie veneree, si estese così anche in Italia.
Nei Ducati parmensi, ad esempio, diventati uno dei 130 dipartimenti francesi, entrò in vigore nel 1811 un regolamento sulla prostituzione con la previsione, per le meretrici,
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di una "carta d'iscrizione" rilasciata dal commissario di polizia e di tre visite mediche mensili, mentre padroni di casa, affittuari e locandieri venivano obbligati a denunciare la presenza delle donne. Vietato anche alle "donne pubbliche" di affacciarsi ai balconi, di trattenersi sulle porte, nelle strade per fare "inviti sfrontati" ai passanti.

Ma un po'in tutt'Italia si susseguono vari regolamenti di polizia sulle attività delle meretrici. A Bologna è del 1814 il Regolamento di polizia sulli lupanari e le meretrici e il 15 novembre 1823 in Sicilia viene emanata un'ordinanza che prevede l'iscrizione a libro, la visita sanitaria obbligatoria e la reclusione ospedaliera delle prostitute.
Nel 1836 a Parigi viene pubblicata l'opera del medico francese Alexandre Jean-Baptiste Parent Duchatelet De la prostitution dans la ville de Paris, considérée sous le rapport de l'hygiène publique, de la moral et de l'administration la quale ripropone il collegamento tra prostituzione e sifilide.
Per l'autore la prostituzione è una "cloaca d'altra specie", la "più immonda" di tutte e le meretrici costituiscono una "classe segregata" che ha dichiarato di "abiurare questa società e le leggi comuni che la regolano". Sono sempre le meretrici a rappresentare il mezzo di trasmissione della sifilide, la più pericolosa e temibile delle malattie che affliggono l'umanità. Di qui la necessità - secondo il medico francese - di sottoporle a sorveglianza per evitare il contagio, utilizzando anche rimedi estremi come il "sequestro". Quest'ultimo rappresenta un mezzo lecito in quanto chi si è estraniato dalla società non può invocare il diritto alla libertà individuale. Egli risponde così in maniera negativa alla domanda che pone al paragrafo 40 del capitolo XXII: "La libertà individuale è un diritto che le prostitute possono opporre alle misure repressive dei disordini inerenti alla prostituzione?". Due sono le soluzioni da adottare: il carcere e l'ospedale. Anche il secondo, pur dovendo essere "gradevole sotto tutti gli aspetti", bisogna che sia caratterizzato dall'isolamento delle meretrici. Questa dunque la strada da seguire, lasciando perdere inutili mezzi di prevenzione visti come immorali in quanto renderebbero "innocua la malattia", favorendo solo "il libertinaggio".
E' proprio la paura di un ritorno alla misura epidemica della sifilide che spinge nel XIX secolo le nazioni europee a tutta una legislazione di controllo della prostituzione.


Il 18 aprile 1844 è Bruxelles che, con il suo "Regolamento", inaugura una tendenza normativa poi seguita dagli altri Stati.
Tra il 1860 e il 1870 in tutt'Europa si arrivò, così, all'approvazione di una serie di norme regolatrici del fenomeno della prostituzione. Tali sistemi, liberamente ispirati al modello napoleonico, prevedevano che le meretrici si registrassero presso l'autorità di polizia e si sottoponessero a visita medica per accertare la presenza di malattie a trasmissione sessuale. In alcuni Paesi venivano anche previsti bordelli registrati per un maggiore controllo amministrativo.
Tale impostazione giuridica era il frutto di una visione di tipo "regolamentazionista". I fautori di tale "corrente" di pensiero "sostenevano la necessità di controllo amministrativo e medico delle prostitute a difesa della salute, dell'ordine e della decenza pubblica". Considerando la prostituzione "un male necessario", essi venivano così a sostenere una "sessualità a doppio binario, che giustificava il rapporto del maschio con una categoria di donne perdute".
In Italia la legislazione regolamentazionista prende avvio in Piemonte nel 1855. Il 20 luglio, infatti, il Ministro degli Interni Urbano Rattazzi emana le "Istruzioni ministeriali sulla prostituzione", mentre nel gennaio del 1857 si ha il "Regolamento sulla prostituzione per la città di Torino", risolvendo la confusione venutasi a creare tra le funzioni generali di polizia e i nuovi compiti di sorveglianza sull'attività delle meretrici. Se nelle "Istruzioni ministeriali" era la Questura ad avere competenza nell'iscrizione delle prostitute (artt. 3 e 6), nella destinazione ai postriboli (artt. 18 e 38), nel ricovero coatto in ospedale (art. 17) e nella cancellazione dal registro (art. 22), il regolamento torinese istituiva un ufficio sanitario apposito al quale, sia pur con il contatto con la Questura, venivano demandate le competenze precedenti.

Dopo i numerosi casi di malattie veneree contratte dai soldati sabaudi tra il 1859 e il 1860 Cavour affidò al medico Casimiro Sperino il compito di compilare un efficace
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regolamento che, con la dizione "Regolamento del servizio di sorveglianza sulla prostituzione", venne emesso il 15 febbraio 1860 ed entrò in vigore il successivo 1° aprile.
Esteso prima alle province settentrionali fino alla Toscana annesse al Regno con i plebisciti di quell'anno, con l'unificazione nazionale tale regolamentazione entrò anche nelle province del Sud.
Emanato con fini prevalentemente sanitari, il regolamento si trasformò poi in un efficace strumento di controllo delle Autorità sulle donne che si prostituivano. Con esso si autorizzava, dietro rilascio di apposita licenza, l'apertura di postriboli di Stato suddivisi in due categorie e tre classi, si fissavano le tariffe, il guadagno della tenutaria e della prostituta oltre alle imposte da pagare allo Stato.
Venivano creati appositi Uffici Sanitari dove le meretrici erano sottoposte a visita medica ogni due settimane, delegando l'ufficiale di Pubblica Sicurezza alla sorveglianza delle donne addette a tale mestiere.
Ma la normativa doveva produrre non pochi problemi per l'arbitrario potere discrezionale di cui veniva dotata la polizia, specialmente con l'art. 31 che consentiva l'arresto delle donne "sospette" e la loro sottoposizione coatta a visita sanitaria . L'art. 17, inoltre, definiva le interessate come "donne che esercitavano notoriamente la prostituzione", prescrivendo per esse l'iscrizione all'ufficio sanitario.
L'art. 19 prevedeva anche una iscrizione "d'ufficio" quando fosse "notorio e comprovato" che le donne si abbandonassero alla prostituzione. Tale disposizione diede luogo a soprusi e abusi da parte di agenti di polizia e ispettori sanitari i quali, dietro semplici voci o lettere anonime, davano corso all'iscrizione. Spesso, anzi, a causa di connivenze con i tenutari dei postriboli, determinate donne venivano continuamente perseguitate.

Il fulcro della normativa era, dunque, la vigilanza sanitaria, concentrata sullo strumento della cosiddetta "patente" (artt. 24, 26 e 27), rilasciata dalla Pubblica Sicurezza e obbligatoria per l'esercizio dell'attività, dove venivano registrate le visite sanitarie bisettimanali (art. 71). Tali controlli, da eseguirsi "colla massima diligenza e con tutti i mezzi che nello stato attuale della scienza" erano "riconosciuti utili a rendere più certa la diagnosi delle malattie veneree" (art. 72), avevano anche un costo: 1 lira per la visita ordinaria, 1,5 lire per la visita a domicilio, gratis per le prostitute attestate come "miserabili"dalle amministrazioni comunali dei paesi d'origine e, perciò, da ritenersi esentate.
Qualora dalla visita medica, i cui risultati venivano annotati anche sul registro dell'ufficio sanitario (art. 82), fosse risultato un qualsiasi sospetto d'infezione la donna veniva trasferita immediatamente al sifilocomio per la cura coatta (art. 84). In caso di fuga si sarebbe proceduto, dopo averla rintracciata, con l'ospedalizzazione forzata e l'arresto da cinque a quindici giorni (art. 86).
Sulla patente erano anche specificate i principali obblighi comportamentali delle meretrici: il divieto di esercizio per le minori di 16 anni (art. 59), i divieti di vestire in modo poco decente, di essere in stato di ubriachezza, di affacciarsi alle finestre o stazionare sulla porta "anche della propria abitazione", di fermarsi o frequentare le vie principali, piazze e pubbliche passeggiate, di commettere "atti indecenti" nei luoghi pubblici e tenere "discorsi osceni", di seguire i passanti per le strade "o adescarli con parole o segni", di restare fuori casa "senza giusta causa" oltre le ore 20,00.
La normativa stabiliva, poi, la divisione delle case di tolleranza in 2 categorie: quelle in cui le prostitute avevano domicilio fisso e quelle in cui si recavano solo per esercitare. Il prezzo di accesso distingueva i postriboli in 3 classi: i lupanari nei quali si aveva accesso pagando lire 5 o somma superiore (c.d. case di lusso), quelli nei quali la somma era tra 2 e 5 lire, infine quelli in cui il prezzo era inferiore a lire 2 (c.d. case popolari). Il guadagno delle prostitute era devoluto, nei postriboli di prima classe, per 3/4 alla tenutaria e 1/4 alla meretrice, nelle altre categorie 2/3 alle prostitute e 1/3 alla tenutaria.

A formalizzare ulteriormente il controllo statale, l'8 gennaio del 1861 interveniva un Decreto Luogotenenziale del Ministro Farini che regolava le attività della Pubblica
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Sicurezza. Esso, all'art. 112, prevedeva l'arresto per tutte coloro che esercitavano "clandestinamente" case di prostituzione, stabilendo che il Governo "nell'interesse dell'ordine, del costume pubblico ed in quello della pubblica salute" poteva emanare regolamenti relativi "alle donne che si abbandona(va)no al meretricio".
E difatti nel 1871, per quanto riguardava l'aspetto sanitario, veniva emanato il "Regolamento generale per sifilocomi"che, però, sollevò un coro di proteste, addirittura a livello internazionale, per le disposizioni considerate troppo restrittive della libertà personale delle donne, spingendo il Governo Depretis nel 1880 a correggere il tiro. Ma anche questa volta le critiche non mancarono anche perché le scarse condizioni igieniche dei sifilocomi finivano col favorire, invece di combattere, il contagio delle malattie veneree.
L'opinione pubblica era divisa tra "abolizionisti" e "rigoristi". I primi evidenziavano nella miseria e nell'ignoranza le cause del fenomeno, criticando lo Stato che lo tollerava e non interveniva per creare condizioni di vita migliori per le donne, sottoponendole all'arbitrio della polizia e lucrando sul loro stesso guadagno. Dalla parte opposta vi era chi, invece, non aveva alcuna fiducia sulla capacità di redenzione delle meretrici che andavano costantemente sorvegliate anche per evitare il contagio delle malattie veneree.

Nel 1877, dopo essere uscita in una serie di articoli su "Il Pungolo", fu rielaborata e pubblicata La miseria in Napoli. Il libro, scritto dalla giornalista Jessie White Mario, era il risultato dell'inchiesta svolta in ogni angolo della città partenopea, passando al setaccio i bassi, i brefotrofi, gli ospizi e le carceri, popolati da una umanità reietta, malata nel corpo e nello spirito, costretta dalla fame e dall'ignoranza al meretricio e alla delinquenza. E proprio analizzando la prostituzione l'opera riapriva il dibattito su tale fenomeno esprimendosi a favore dell'abolizione della patente di Stato.
Solo il 26 agosto 1883 venne nominata una "Regia commissione per lo studio delle questioni relative alla prostituzione e ai provvedimenti per la morale l'igiene pubblica", presieduta da Ubaldino Peruzzi, che terminò i lavori due anni dopo pubblicando due volumi di relazioni, grafici e tabelle.
Si giungeva così ai due Decreti del Governo Crispi del 29 marzo 1888 contenenti il "Regolamento sulla Prostituzione" e il "Regolamento sulla profilassi e sulla cura delle malattie sifilitiche".
Già la decisione di adottare due diversi regolamenti indicava il diverso approccio verso i due problemi. Il sistema precedente veniva abolito e si istituiva un controllo non più incentrato sulle singole meretrici ma sulla sorveglianza igienica dei locali, pena la chiusura del bordello per motivi d'ordine e salute pubblica (art. 25). Contro l'ordinanza di chiusura non era ammesso reclamo (art. 26).
L'art. 1, inoltre, dopo aver stabilito che i funzionari e gli agenti dell'amministrazione civile, secondo le competenze e nei modi stabiliti dalle leggi e dal presente regolamento, avrebbero provveduto "a vigilare i luoghi di prostituzione nell'interesse dell'ordine pubblico e dell'igiene", disponeva che gli stessi avrebbero anche facilitato "la riabilitazione delle prostitute". Compito, questo, che venne naturalmente del tutto disatteso.
Ripresi anche i divieti comportamentali. L'art. 2 vietava "alle persone dell'uno e dell'altro sesso" ogni offesa al buon costume e "qualunque invito o eccitamento al libertinaggio, fatto anche in modo indiretto in luoghi pubblici, o esposti al pubblico, e qualunque designazione pubblica di case di prostituzione". In modo specifico veniva vietato "seguire le persone per via, adescandole al libertinaggio con parole o con atti", nonché "affacciarsi alle finestre o trattenersi alle porte" delle case di tolleranza.
L'art. 5 definiva case di prostituzione "quelle case o piani di case, in tutto o in parte affittate a scopo di prostituzione, ancorché ciascuna meretrice viva isolatamente", mentre le disposizioni seguenti indicavano alcune limitazioni edilizie. Le case, infatti, non potevano avere "che una sola porta d'ingresso", dovendo "essere murata ogni specie di comunicazione con altre case, quartieri, stanze private, botteghe, negozi, magazzini ed altri stabilimenti pubblici" (art. 6). Né potevano aprirsi postriboli "in prossimità di scuole ed altri edifizi destinati al culto, all'istruzione ed educazione, a caserme, ad asili d'infanzia o ad altri luoghi di riunione di gioventù" (art. 7).
Chi voleva aprire un postribolo era tenuto, almeno 8 giorni prima, a dichiarare all'autorità di pubblica sicurezza l'indicazione della casa e il numero delle stanze, nonché l'elenco e le generalità delle meretrici e delle altre persone "addette al servizio del postribolo". Doveva anche essere fornita una dichiarazione del proprietario dell'immobile nella quale lo stesso consentiva "l'uso della casa a scopo di prostituzione". Ogni cambiamento doveva, naturalmente, essere comunicato nello stesso modo (art. 10).
La sorveglianza degli esercizi di meretricio era rimessa agli ufficiali ed agenti di P.S. che potevano, "di giorno e di notte" e "in qualunque ora", entrarvi "e procedervi a visita in tutte le stanze. Onde evitare tentativi di approfittamento si prescriveva che, salvo eccezioni richieste dalla natura del servizio e in casi d'urgenza, questi ultimi erano tenuti ad accedere alle case "in uniforme" e in numero almeno di due. In caso contrario sarebbero scattate pene disciplinari (art. 18).

Il secondo regolamento firmato da Crispi, in considerazione che la sifilide non era solo
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dovuta alla prostituzione, aboliva gli Uffici Sanitari e li sostituiva con Dispensari Pubblici. In tali organismi la consultazione era "gratuita" e si offrivano "le maggiori facilitazioni per la cura delle malattie sifilitiche e veneree, in determinati giorni e ore per le donne ed i bambini". Contemplato anche l'impegno ad adoperare "le opportune cautele" per rendere noti i dispensari al pubblico ma anche per accedervi "segretamente"(art. 3).
Al posto dei famigerati sifilicomi la normativa prevedeva "apposite sezioni dermosifilopatiche in quegli ospedali civili" mancanti, "dando a queste sezioni speciali le proporzioni volute dalla frequenza delle malattie sifilitiche nella località" (art. 2).
Le prostitute venivano, infine, definite "pensionanti" ed il limite di età per esercitare veniva elevato a 21 anni anche perché sarebbe stato assurdo sostenere i 16 anni quando il codice penale del Regno prevedeva il reato di corruzione dei minori di anni 21 (art. 421 C.P.). Anche tali norme, però, vennero aspramente criticate, soprattutto per la libera scelta di sottoporsi a visita medica.
Nel 1891 con il "Regolamento sul meretricio nell'interesse dell'ordine pubblico, della salute pubblica e del buon costume" (R.D. n. 605 del 27 ottobre), il Ministro dell'Interno Giovanni Nicotera ritornava indietro riportando il controllo di polizia sulle donne e prevedendo, in caso di mancato consenso alla visita sanitaria, una equiparazione "alle infette" con l'invio nelle strutture sanitarie dove gli agenti di P.S. avrebbero vigilato perché la segregazione fosse "assoluta e completa" (artt. 37-40). Nel contempo la stessa età per l'esercizio del meretricio si abbassava a 18 anni (art. 34).
Si cambiavano anche le tariffe atteso che le 2 lire dell'epoca di Cavour erano troppo alte: un operaio guadagnava 3 lire al giorno. Così si scendeva a 1 lira, 50 centesimi per i militari e 70 centesimi per i sottufficiali, mentre per i bordelli di lusso i prezzi venivano alzati.

Nel Novecento, a isolare sempre più il fenomeno della prostituzione, in un momento in cui scemava la minaccia sanitaria per le migliorate condizioni igieniche e per i progressi della scienza medica, interveniva Cesare Lombroso che, insieme a Guglielmo Ferrero, dava alle stampe nel 1893 La donna delinquente, la prostituta e la donna normale dove confermava le sue teorie antropologiche e puntualizzava che "la regressione naturale delle donne è la prostituzione e non la criminalità, la donna primitiva essendo una prostituta più che una criminale".
Se esse divenivano prostitute ciò era dovuto non alla "lussuria" ma alla "pazzia morale", alla mancanza di pudore e alla insensibilità "all'infamia del vizio", venendo attirate da ciò che è vietato e dandosi, così, a tale genere di vita, trovandovi "la maniera migliore per guadagnarsi l'esistenza senza lavorare".
Queste donne, in conclusione, restavano "delinquenti" e pericolose perché affette da "pazzia morale". Ma contro di esse non era necessario una forte repressione poliziesca, data la loro funzione di sfogo della sessualità maschile, abbisognando solo "una diga" per
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Lina Merlin
evitare danno e scandalo sociale.
Sulla scia di tale visione, accettata dai nuovi antropologi criminalisti, l'autorità di polizia continuava, nel primo Novecento, ad avere la competenza nel controllo del fenomeno della prostituzione e dell'attività regolata dallo Stato.
Scoppiato il primo conflitto mondiale il rapporto tra prostituzione e malattie veneree doveva tornare di scottante attualità per la diffusione soprattutto della sifilide tra le truppe. Di qui una serie di provvedimenti normativi "eccezionali" per superare il sistema ordinario e combattere l'emergenza.
Così il decreto legge del 22 agosto 1915 attribuiva ai Prefetti la facoltà di procedere d'autorità all'accertamento e cura delle malattie infettive mentre la successiva circolare del Ministero dell'Interno del 16 aprile 1916 specificava che: "Le donne le quali fanno commercio di sé, sia in locale autorizzato sia clandestinamente, vengano, anche coattivamente, sottoposte a frequenti visite sanitarie e quelle tra esse, le quali risultino infette, abbiano ad essere isolate e curate in appositi locali, impedendosi loro di lasciarli solo a cura compiuta".
Naturalmente i medici dell'esercito provvedevano a tenere sotto stretto controllo sanitario i vari postriboli militari funzionanti. Comunque l'infezione, presente anche in zona non di guerra in quanto l'evento bellico aveva provocato un aumento di unioni extralegali, non produsse incrementi degli effetti letali della malattia che si mantennero ad un livello piuttosto basso (5 ogni 100.000 abitanti) fino al 1917 per poi calare anche di molto negli anni successivi.

Con il fascismo la prostituzione ha una sistemazione normativa anche nei suoi rapporti igienico-sanitari oltre che in quelli amministrativi e d'ordine pubblico. Gli interventi legislativi sono: Regolamento per la profilassi delle malattie veneree e sifilitiche (25 marzo 1923); Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza, artt. 194-213 (6 novembre 1926); Regolamento per l'esecuzione del T.U. delle leggi di P.S., artt. 359-374 (21 gennaio 1929); Testo Unico delle leggi di P.S., artt. 190-208 (18 giugno 1931); Testo Unico delle leggi sanitarie, art. 291-308 (27 luglio 1934); Regolamento per l'esecuzione del T.U. delle leggi di P.S., art. 345-360 (6 maggio 1940).
Qual era, dunque, il sistema che, seppur con qualche variazione nel corso del Ventennio, vigeva allora in Italia? Il Regolamento del 1923 aveva codificato una forte vigilanza igienica e sanitaria sui bordelli con visite mediche periodiche ed un sistema di registri. Per le visite era previsto sempre il consenso delle donne ma, ove queste si fossero rifiutate, sarebbe scattato l'allontanamento dal postribolo e il ricovero coattivo (artt. 17-18).
La prostituzione clandestina subiva una incisiva stretta poliziesca con alcune norme del Testo Unico del 1926 che allargavano il campo dell'illecito alla "sosta in luoghi pubblici in attitudine d'adescamento" (art. 213). Chi fosse stata scoperta in tali atteggiamenti sarebbe stata identificata dagli agenti di P.S. e invitata alla visita medica, per cui, nella sostanza, tenendo presente anche quanto prescriveva l'art. 20 del Regolamento del 1923, alle donne veniva consentito anche il meretricio individuale "fuori dei locali autorizzati" purché "munite di apposita tessera sanitaria". Tali lavoratrici, dunque, se volevano evitare l'azione della polizia dovevano essere in possesso della "tessera", con fotografia e timbro della Prefettura, e sottoporsi a visita sanitaria "almeno due volte la settimana". Lo stazionamento sul marciapiede, per così dire, era consentito sempre che la segnalazione dell'attività avvenisse in modi e forme consone al buon costume. Sennonché, se prima il livello di mortalità per sifilide e blenorragia si era mantenuto nei limiti, dal 1930 al 1938 lo stesso aveva subito un aumento passando dal 3,1 per 100.000 abitanti al 4,9, probabilmente dovuto alla crisi economica del tempo. Di fronte a tutto questo la risposta governativa fu l'allargamento dei controlli a tutti senza distinzioni di sesso ed esercitata sul luogo del lavoro come, infatti, stabilì l'art. 294 del T.U. sulle leggi sanitarie del 1934, provocando sempre più la divisione concettuale della malattia venerea dalla prostituzione.

Per la fine delle "case chiuse" e per un nuovo modo di concepire la prostituzione si dovette aspettare, come sappiamo, la c.d. "Legge Merlin" (L. 20 febbraio 1958 n. 75 "Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui") con cui la prostituzione veniva liberalizzata ed erano introdotte specifiche previsioni penali sullo sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione. Il resto è cronaca dei giorni nostri.
BIBLIOGRAFIA
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