Settant'anni fa moriva il leader che costruì lo Stato turco sacrificando la vocazione imperiale ottomana in favore di un modello nazionale moderno, ispirato alla civiltà occidentale e contro la stretta soffocante dell'islam. Lo storico Fabio Grassi ne tratteggia la figura contraddittoria in una biografia che abbiamo letto per voi
|
|
Atatürk: il fondatore
della Turchia moderna
|
|
|
Padre della moderna Turchia; fine stratega in guerra e politico con vocazione dittatoriale in pace; riformista dal piglio quasi rivoluzionario ma uomo d'ordine e laicista intransigente; donnaiolo impenitente e grande bevitore. La figura di Kemal Atatürk, il Garibaldi e il Cavour dello Stato turco, è di una complessità che sfugge alle definizioni univoche. Oggetto di un culto della personalità ancora molto forte - in Turchia i bambini a scuola devono impararne a memoria i discorsi più importanti - a settant'anni dalla morte una bella biografia ce ne propone le numerose sfaccettature, permettendo al lettore di comprendere meglio non solo il personaggio in sé ma anche il passato e il presente della Turchia. Lo storico Fabio Grassi, che da anni vive e lavora a Istanbul, ha tratteggiato in un volume dal pregevole taglio narrativo la parabola di uno statista che non solo ebbe il coraggio di sacrificare la vocazione imperiale ottomana in favore di una realtà statale etnico-nazionale, ma di credere fortemente nell'occidente come modello di civiltà e di cultura contro la pervasività della religione islamica e le vecchie tradizioni del sultanato. Con tutti i limiti e le contraddizioni che vedremo.
Ma andiamo per ordine. Kemal Atatürk (nel corso della vita assumerà nomi diversi: Mustafa, Mustafa Kemal, Mustafa Kemal pascià, Gazi Mustafa Kemal, Kamal Atatürk...) nasce nel 1880 in una famiglia piccolo borghese a Salonicco, allora possedimento ottomano e importante città ebraica. L'impero, esteso dalla Penisola Balcanica al Medio Oriente, e allungato fino ai territori del Nordafrica, ha una forte vocazione cosmopolita: su 17 milioni di abitanti 12 milioni sono mussulmani, 2 milioni greci, 1 milione e 200 mila armeni, 1 milione bulgari e quasi 200 mila ebrei. E' un impero teocratico in cui però convivono aspetti giuridici occidentali. Il sultano Abdulhamid II punta sull'Islam come collante identitario ma non chiude completamente le porte alla modernizzazione. Sarà questo dualismo a provocare, con la Prima guerra mondiale, il disfacimento del "grande malato d'oriente". E sarà cavalcando un nazionalismo estraneo se non addirittura apertamente ostile al sentimento religioso che Atatürk darà vita al nuovo Stato.
Non senza l'involontario apporto dell'ambiente familiare. E' anche il dualismo tra la figura del padre, simbolo di apertura al mondo, e della madre, vissuta come depositaria di tradizioni superate, a determinare la sua formazione giovanile e il suo futuro, spiega Grassi. «Mustafa introietta l'idea di un padre la cui autorità non aveva il minimo carattere di ingiusto autoritarismo, grazie alla magnifica sintonia con le esigenze e le propensioni del figlio, e l'idea di una vecchia Turchia, incarnata dall'universo femminile superstite, che meritava il massimo rispetto e il massimo amore, ma che al contempo doveva essere tenuta a bada e ignorata nelle sue passatistiche illusioni». E' il padre a indirizzarlo nel 1899 alla Scuola di guerra di Istanbul, punta avanzata dell'occidentalismo nell'Impero Ottomano. Tra i giovani studenti e gli ufficiali intermedi dell'esercito c'è una profonda ammirazione per la Francia e un'enorme considerazione per l'avanguardia militare e tecnologica della Germania guglielmina, dalla quale intendono trarre ispirazione per riformare l'organizzazione militare del Paese (dirà anni dopo Atatürk: «Secondo me gli ufficiali superiori dell'Impero Ottomano sono dei buoni a nulla. Per me, la struttura di comando dell'esercito si ferma al grado di maggiore. I grandi capi militari di domani verranno dalle loro file»). Ed entrambi, giovani reclute e ufficiali, nutrono un profondo disprezzo per la corte di Istanbul (definita Kahpe Bizans, "Bisanzio la puttana"), simbolo di passatismo, incapacità di governo e corruzione estrema.
Promosso ufficiale di stato maggiore, nel 1904 Atatürk viene inviato in Siria, a Damasco, dove si mette in luce per il coraggio nel ricondurre all'ordine le ribelli popolazioni arabe. Ma anche per la decisione di creare una piccola società segreta chiamata "Patria e libertà", che presto si ramifica presso lo stato maggiore dell'esercito ed entra in contatto con la centrale cospirativa ostile al sultanato, il Comitato Unione e Progresso, a Salonicco. Ma fino a quell'epoca, e per alcuni anni ancora, Atatürk è un pesce piccolo rispetto alle altre figure del Comitato cospirativo. Anche nel 1909, quando scoppia la rivoluzione dei Giovani turchi. In quell'occasione il vecchio sultano viene destituito e il nuovo, Maometto V, ripristina la costituzione sospesa nel 1877, ma Atatürk non è alla testa degli eventi. Sono anni di traumi interni e di mutilazioni esterne per l'Impero: l'Austria-Ungheria si annette la Bosnia Erzegovina, la Bulgaria proclama l'indipendenza e Creta si unisce alla Grecia.
Atatürk matura proprio allora i tratti fondamentali del suo progetto politico, la laicità dello stato e il principio dell'estraneità dell'esercito alla politica. Ma non ha ancora modo di mettere in pratica a fondo i suoi propositi. Nel 1911 è in Libia con un corpo di volontari a combattere gli italiani, quindi in Tracia contro i bulgari, nel corso della guerre balcaniche.
Sarà invece un conflitto ben più grande, la Prima guerra mondiale, a consacrarlo definitivamente al rango di vittorioso capo militare. Il ruolo giocato nella difesa di Gallipoli, assediata dalle truppe anglo-francesi dall'aprile 1915 al febbraio 1916, lo trasforma nell'"eroe dei Dardanelli". Scrive Grassi: «Per il regime repubblicano turco, la battaglia di Gallipoli è l'inizio del riscatto nazionale turco e Mustafa Kemal ne è l'eroe assoluto. In entrambi questi "atti di fede" c'è non poca esagerazione, non poco anacronismo, e un nucleo di verità. Certamente la battaglia risollevò il morale del soldato turco, che si ricordò di essere capace di sconfiggere, se decentemente armato e ben guidato, qualunque nemico; allo stesso tempo la differenza di comportamento tra il soldato turco e quello arabo favorì lo sviluppo di un'identità-solidarietà di tipo etnico tendenzialmente alternativa con quella religiosa».
Promosso generale di Brigata, Atatürk è pronto per la battaglia più importante: la conquista del potere. Che inizialmente affronta sfruttando sottobanco la confusa situazione determinata dalla fine del conflitto: ottenere migliori condizioni armistiziali; proporsi all'occidente come baluardo contro "l'infezione comunista" che preme ai confini nordorientali dell'Anatolia; mantenere buoni rapporti con il nascente stato dei Soviet alternando nei suoi confronti lusinghe e minacce, ma senza lasciarsi contagiare ideologicamente.
La seconda carta verso la conquista del potere Atatürk la gioca nella notte tra il 21 e il 22 giugno 1919, emanando la cosiddetta "circolare di Amaysa". Forte dall'appoggio delle diverse anime del nazionalismo turco, dichiara il governo di Istanbul incapace di far fronte all'estrema crisi del Paese e crea un contropotere in Anatolia centrale. Mentre le truppe alleate procedono all'occupazione della capitale e all'arresto di tutti i capi nazionalisti, Atatürk riapre le trattative con la Russia bolscevica per stabilizzare almeno i confini orientali, lasciandole la Georgia e tenendo per sé l'Armenia. Allo stesso tempo elimina l'opposizione di sinistra all'interno del governo. Con le spalle coperte riesce così a sconfiggere l'esercito greco (vittoria del Sakarya), che a partire dalla testa di ponte di Smirne avevo occupato ampia parte dell'Anatolia occidentale e puntava ormai verso Ankara.
Ma la guerra non è ancora formalmente conclusa. Atatürk ricopre fino al 1922 la carica di comandante in capo e di dittatore della nascente Turchia post-ottomana, mettendo progressivamente a tacere qualsiasi voce dissenziente, sia che si ispiri all'internazionalismo comunista sia che faccia capo alle posizioni conservatrici di notabili e latifondisti. I greci sono definitivamente costretti ad abbandonare il territorio turco e il loro avamposto di Smirne, città storicamente a forte presenza ellenica, viene raso al suolo. A partire dal 1923 tra i due Paesi si giunge a un accordo per un gigantesco trasferimento di popolazioni: cinquecentomila turchi e mussulmani lasciano la Grecia mentre un milione e mezzo di greci e di ortodossi devono abbandonare l'Anatolia. Com'è noto, sorte non migliore toccò in quegli stessi anni ad armeni e curdi (di fatto il Curdistan verrà amministrato da Ankara come una colonia).
Ridotto l'ex impero multietnico a un supposto nucleo originario, Atatürk si dedica da questo momento alla fase più importante del suo progetto di riforma sociale e culturale, quello che Grassi sintetizza nel "manifesto" del kemalismo: «funzione pedagogica assegnata alle classi occidentalizzate; lotta di liberazione nazionale come prima fase di una non meno importante rivoluzione politica e culturale; necessità di non limitarsi alla strumentale acquisizione degli output tecnologici della civiltà occidentale ma di assorbire profondamente tutti i suoi valori spirituali ed estetici. [...] distruzione della vecchia Turchia non come umiliazione della cultura del suo popolo, ma come recupero dei suoi genuini valori e delle sue genuine qualità, smarriti o emarginati nella civiltà islamica».
Il 29 ottobre 1923 nasce ufficialmente la Repubblica di Turchia, con Atatürk eletto alla carica di presidente (conservò anche la carica di presidente del partito, il Partito del Popolo). Tra le prime iniziative tese a mettere in pratica i principi del "manifesto" ci furono la chiusura delle scuole religiose in favore di un sistema di istruzione pubblica centralizzato, l'abolizione dei tribunali religiosi e la cancellazione del divieto alla vendita e al consumo di bevande alcoliche. Per non turbare eccessivamente la componete religiosa del Paese, l'Islam fu mantenuto come confessione di Stato.
Sul piano economico il leader turco si mosse con i piedi di piombo: propugnò uno svecchiamento delle campagne per favorire la nascita di una borghesia terriera imprenditoriale e gettò le basi per l'industria, ma senza far quasi appello a investimenti stranieri, a indebitamento, a svalutazione o a spese per grandi opere pubbliche. Il risultato fu uno sviluppo modesto, spesso frenato, ma che conservò il Paese al riparo dalle crisi congiunturali.
Tra la fine degli anni Venti e la prima metà degli anni Trenta, nonostante una progressiva chiusura al multipartitismo e l'accentuazione della vocazione dittatoriale (le forze armate rimasero sempre saldamente nelle sue mani), Atatürk non pose fine allo slancio occidentalizzante. Vietò l'uso della religione a fini politici, avviò una campagna per "civilizzare" l'abbigliamento e i costumi, fino al punto di approvare leggi che vietavano l'uso del turbante e che imponevano ai pubblici funzionari di non portare la barba (ancora oggi i militari non possono avere nemmeno i baffi). Abolì inoltre l'insegnamento obbligatorio dell'arabo e sostituì i caratteri arabi con un nuovo alfabeto a caratteri latini, introdusse il calendario gregoriano, la festività domenicale e un nuovo codice penale ispirato al "codice Zanardelli".
Il tutto, però, senza sanare quella che Grassi definisce la contraddizione di fondo dell'uomo Atatürk, che nel sentirsi investito di una "missione" praticò per tutta la vita una corsa verso l'occidente facendo però uso di metodi cari al "dispotismo asiatico". Ne fecero le spese l'opposizione, prima cancellata e poi ricostituita per decreto dallo stesso Atatürk, che volle anche sceglierne gli esponenti (pescando naturalmente tra le figure più scialbe). E poi i curdi, nei confronti dei quali applicò alternativamente vessazioni e sterminio. Di stampo prettamente autoritario, in ciò perfettamente in sintonia con lo "spirito dei tempi", fu anche il tentativo di esaltare la storia turca preislamica rispetto a quella dell'Impero ottomano e il voler ricondurre alla lingua turca la protolingua dalla quale si sarebbero poi sviluppate tutte le altre lingue europee.
Morì il 10 novembre 1938 di cirrosi epatica, dopo una vita di eccessi e in preda alla depressione. Di lui rimane viva oggi più che l'immagine di rivoluzionario quella di uomo d'ordine. Un po' come De Gaulle per la Francia. «Tra i vari accostamenti fatti alla figura di Atatürk - spiega Grassi -, quello con De Gaulle è il più convincente: entrambi presero in mano le sorti del loro paese nel momento della disfatta e dell'asservimento; entrambi furono militari di carriera che si trovarono ad essere dei resistenti e dei ribelli, ma erano e vollero sempre apparire uomini dello Stato e della legge; entrambi erano socialmente conservatori e tuttavia furono anche, nei campi in cui lo ritenevano opportuno, decisi modernizzatori».
|
|
BIBLIOGRAFIA
- Atatürk. Il fondatore della Turchia moderna, di Fabio L. Grassi - Salerno Editrice, Roma 2008, pp. 444, euro 29,00
|
|
|