La pubblica amministrazione fu l'arma principale con cui le monarchie assolute organizzarono il controllo centrale sui propri regni, sostituendosi, anche se non completamente, al feudo. Ma è solo con la fine del '700 e con la Rivoluzione francese che lo Stato dà forma all'apparato amministrativo centralizzato come lo conosciamo oggi. Nemmeno l'avvento della Restaurazione, infatti, scardinò i meccanismi organizzativi dell'amministrazione pubblica che il regime napoleonico aveva contribuito a perfezionare.
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La nascita della Pubblica Amministrazione:
dalla Rivoluzione Francese a Napoleone
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La tesi della nascita della Pubblica Amministrazione in senso moderno con la Rivoluzione Francese non è da tutti condivisa, venendo negata da chi individua già nelle monarchie assolute gli elementi dell'accentramento e dell'ampliamento delle attribuzioni e degli strumenti del potere esecutivo. L'esperienza rivoluzionaria non avrebbe fatto altro che riprendere e sviluppare i vecchi istituti.
Anche secondo Mario Nigro, che si occupa del nesso tra regime amministrativo e giustizia amministrativa, le origini dello Stato amministrativo sono da ricercarsi nel periodo delle monarchie assolute. L'amministrazione pubblica, infatti, sarebbe proprio emersa "nelle lotte accentratrici delle monarchie contro gli istituti feudali". Lo Stato moderno, dunque, sarebbe stato, sin dalla sua nascita, Stato amministrativo costituendosi, "oltre che con la personificazione e con la unificazione dell'ordinamento generale, con il fenomeno di una struttura unitaria d'uffici" proprio per gestire l'attività amministrativa. E tali uffici, secondo quest'autore, sarebbero stati "al di sopra e al di fuori degli istituti comunitari e feudali".
Il tutto sarebbe stato completato da un'azione volta ad assicurare l'immunità dell'azione autoritativa dello Stato dal controllo della giurisdizione ordinaria: "ed è proprio in questa sottrazione alla giurisdizione ordinaria, la quale è insieme esenzione dal diritto comune, che nasce e si sviluppa il diritto particolare degli uffici amministrativi". Tale situazione non si sarebbe realizzata solo in Francia ma, pur se tardiva, anche in Germania e negli stessi stati italiani, richiamando a tale proposito la Regia Camera della Sommaria "che fu per tre secoli e mezzo il supremo tribunale amministrativo del Regno di Napoli".
Non ci sembra di condividere tale tesi per la semplice ragione che, se è vero che nelle monarchie assolute prerivoluzionarie vi erano uffici pubblici addetti all'amministrazione, questo avveniva, non "al di sopra e al di fuori degli istituti comunitari e feudali", ma insieme ad essi, in una commistione foriera di confusione ed incertezza giuridica come spesso diede prova proprio la Regia Camera della Sommaria citata dal Nigro.
In altri termini, l'accentramento e la monopolizzazione del potere nel periodo delle monarchie assolute finirono col convivere "con il pluralismo di potere, a fondamento corporativo territoriale", non esistendo "un potere centrale superiore alle istituzioni intermedie, un potere esecutivo separato da quello giudiziario, regole stabili, non fluttuanti" che avrebbero consentito "ad una disciplina scientifica di organizzare le regole in sistema".
Le cose cambiarono alla fine del '700 quando, per dirla col Giannini, la Rivoluzione francese "eliminò dalla scena le strutture dell'assolutismo pieno e dell'assolutismo illuminato", introducendo una nuova struttura che fu detta quasi subito "a diritto amministrativo".
In definitiva, con la Rivoluzione Francese del 1789 non fu solo distrutto il vecchio sistema di potere ma venne messo in moto un percorso ineluttabile di grandi trasformazioni che costituirono la cornice storica e giuridica per la nascita della pubblica amministrazione intesa in senso moderno.
Nell'obiettivo di abolire le istituzioni che avevano ferito la libertà e l'uguaglianza dei diritti entrava, infatti, una nuova organizzazione dell'intero territorio che cancellava i privilegi di corpi ed organismi ormai senza più senso. La Costituzione tendeva inesorabilmente all'unità dello Stato e delle sue articolazioni dove gli interessi particolari non avevano più alcuna cittadinanza, cedendo di fronte all'interesse generale, l'unico degno di essere perseguito e difeso.
Di qui, fra il 1790 e il 1791, la divisione della Francia in Dipartimenti, Distretti e Cantoni: 83 dipartimenti geograficamente omogenei e tali che dalla località più distante si potesse raggiungere il capoluogo in una giornata di cammino. Le 44.000 Municipalità restavano le unità amministrative fondamentali, mentre tutti gli amministratori venivano eletti dai cittadini attivi.
Parigi stessa venne divisa in 48 circoscrizioni corrispondenti ad altrettante assemblee elettorali. Ognuna di esse eleggeva tre delegati che entravano a far parte del Consiglio Generale cittadino.
Una strutturazione sostanzialmente unitaria in cui il potere si diramava dal centro alla periferia. Se è unica la Nazione (L'Etat est un), unica è la sua amministrazione la quale non può non essere "comune" e "generale". L'unico attore protagonista sul palcoscenico della storia rivoluzionaria è lo Stato, altri soggetti intermedi non hanno ragion d'essere se non nei limiti stabiliti dallo Stato stesso.
Così, infatti, si esprimeva l'Assemblea Nazionale: «Lo Stato è uno. I dipartimenti non sono che sezioni dello stesso tutto: un'amministrazione uniforme deve dunque ricomprenderli tutti in un regime comune. Se i corpi amministrativi, indipendenti, e in qualche modo sovrani nell'esercizio delle loro funzioni, avessero il diritto di variare i principi e le forme dell'amministrazione, la contrapposizione dei loro movimenti parziali, distruggendo in breve la regolarità del movimento generale, produrrebbe la più dannosa anarchia».
Come ben hanno descritto Luca Mannori e Bernardo Sordi, la Rivoluzione isola, in tal modo, uno spazio di potere distinto da quello delle comunità di base: "uno spazio di potere che non appartiene né al legislatore né al giudice e che solo ora, nel nuovo impianto costituzionale, può essere detto propriamente amministrativo, per organizzazione, funzione, compiti".
Ma, insieme a tale strutturazione gerarchica del territorio, è il principio della divisione dei poteri "che opera come discrimine epocale nei confronti degli assetti giustiziali di antico regime: scioglie la realizzazione dei compiti pubblici dall'abbraccio della giustizia; libera una funzione che può definirsi di amministrazione generale; pone le premesse di un'organizzazione che è in senso stretto amministrativa".
Accompagnata da questi due fattori (divisione del territorio e separazione dei poteri) nasce il concetto di una Amministrazione unitaria, come "funzione di realizzazione dell'interesse generale", un potere distinto da quello legislativo e giudiziario e, perciò, degno di un suo ruolo e di una sua competenza.
Tramonta così definitivamente il vecchio sistema fondato sull'unione di amministrazione e giustizia. L'Amministrazione che viene fuori ha, dunque, una sua caratterizzazione ben definita di potere unitario, generale, esclusivo, con la funzione di soddisfare le esigenze della collettività. Una concezione estremamente moderna che avrebbe, tuttavia, avuto bisogno nel prosieguo di ulteriori specificazioni.
Il primato della legge, che pur rimane, in quanto espressione della volontà generale, non è più sufficiente. Occorre un braccio operativo dello Stato che, "sporcandosi le mani", agisca nel concreto della vita dei cittadini. I nuovi compiti necessitano di un apparato organizzativo che, servendo lo Stato, si divida sul territorio e si caratterizzi innanzitutto come "attività", realizzando una vera e propria metamorfosi della stessa funzione pubblica. L'Amministrazione diventa, cioè, il complemento indispensabile degli altri poteri come delineati del dettato costituzionale e come richiesto dalla collettività. Una Amministrazione, dunque, al tempo stesso "organizzazione" e "attività", con compiti e funzioni materialmente distinti da quelli di governo e di amministrazione della cosa pubblica in senso tradizionale e con pari dignità rispetto alla legge stessa: «L'amministrazione viene quindi ad occupare, con la Rivoluzione, un campo d'azione che doppia perfettamente quello conquistato dalla centralità della legge: il grande tutto nazionale reclama insieme una legislazione e un'amministrazione comune e uniforme. Come la legge è divenuta l'unica forma di determinazione politica, drasticamente riducendo nella volontà generale della nazione sovrana ogni espressione del politico, così, l'amministrazione diventa una, ingloba e invera le tante amministrazioni dell'ordine antico, si fa potere nazionale, in posizione ormai subalterna alla legge, ma con la stessa identica proiezione, affermando un monopolio amministrativo nella realizzazione dei fini collettivi inconcepibile nel pluralismo istituzionale e corporativo dell'antico regime. (...) C'è un passaggio epocale e necessariamente moderno che permette all'amministrazione, attraverso il momento costituente, di essere assunta come potere generale: quel braccio esecutivo della legge e dello stesso corpo sociale, che non richiede terzietà, ma al contrario diretta proiezione della sovranità (...). Da questo momento, l'amministrazione ha portato a termine la propria rivoluzione semantica: non ha più bisogno di un genitivo di specificazione, come nel lessico antico; l'uso del termine è ora assoluto. (...) L'amministrazione è divenuta un'attività generale di realizzazione degli scopi della collettività nazionale, è divenuta un potere pubblico con proiezione tendenzialmente illimitata».
Certo questa nuova configurazione dell'Amministrazione è ancora ben lontana da quella che produrrà l'Ottocento, anche in Italia, quantomeno per una sua fragilità intrinseca e per una mancanza di consapevolezza della propria identità giuridica. E' un'amministrazione basata sulla collegialità, sulla rappresentanza elettiva e su incarichi prevalentemente "onorari". E' carente, perciò, di quella professionalità tecnica del personale burocratico che diverrà una costante della Pubblica Amministrazione ottocentesca, caratterizzata da una visione monocratica e gerarchica oltre che accentrata ed astratta. Caratteri, questi ultimi, che invece ritroveremo, seppure non in maniera completa, nelle riforme napoleoniche.
Ma il limite più forte che si individuava nell'amministrazione venuta fuori dal 1789 era la mancanza di una specifica competenza sul contenzioso amministrativo, la mancanza, cioè, di quella che poi verrà chiamata "la giustizia amministrativa", un'area autonoma sottratta alla giurisdizione ordinaria.
E del resto non ci si poteva certo attendere una tale caratteristica, visto che si veniva fuori da una rivoluzione che aveva distrutto tutto ciò che anche lontanamente poteva apparire come "privilegio di foro" nel ricordo delle riserve di giurisdizione di caste e classi del vecchio regime.
Il giudice, dunque, non poteva essere che "unico", cioè quello ordinario, altre figure, almeno per ora, non avevano cittadinanza nella Francia rivoluzionaria. E poi il problema non era affatto avvertito per la semplice ragione che il contenzioso non aveva numeri tali da preoccupare l'amministrazione del tempo, così poco autoritativa e così espressione diretta della collettività cittadina.
Ma i cambiamenti erano dietro l'angolo e lo dimostrava il fatto che, al momento dell'approvazione della normativa sull'ordinamento giudiziario, veniva stabilita la prima deroga alla competenza assoluta del giudice ordinario. Le controversie sull'imposta diretta, infatti, venivano tolte alla magistratura ed attribuite agli stessi amministratori dipartimentali incaricati del riparto.
La "ratio" del provvedimento normativo stava nel fatto che ci si rese conto che non si poteva, al tempo stesso, pretendere una forza esecutoria di questi provvedimenti dell'amministrazione e poi attribuire la potestà sul contenzioso relativo alla magistratura, creando una pericolosa ipotesi di ingerenza di un potere sull'altro in spregio del principio della divisione degli stessi poteri.
E la falla si aprì, perché a questa seguirono altre eccezioni alla competenza del giudice come, per esempio, nel caso delle elezioni degli amministratori delle municipalità, mentre nel settembre del 1790 una nuova legge stabiliva che le amministrazioni dipartimentali e distrettuali avrebbero avuto la competenza per le controversie nate in tutta una serie di settori, dai lavori pubblici ai contratti amministrativi.
Ad ampliare e rendere più generale questo modo di vedere intervenivano altri due provvedimenti nel 1795 e nel 1797 i quali finivano col vietare ai tribunali di giudicare su "atti d'amministrazione" di qualunque specie fossero, oltre che su "qualsiasi operazione" fosse eseguita dietro ordine del Governo, a mezzo dei suoi agenti e con fondi di derivazione del tesoro pubblico.
Pur riguardando situazioni specifiche, tali atti si imposero a causa di una interpretazione estensiva che arrivò a statuire la sottrazione al sindacato del giudice di ogni atto "soggettivamente" amministrativo.
L'ascesa di Napoleone viene sancita dalla Costituzione dell'anno VIII, entrata in vigore il 25 dicembre 1799, nella quale lo Stato francese assume una fisionomia più delineata, inquadrato in una visione accentratrice e monocratica.
Il potere esecutivo, più rafforzato, viene dato interamente nelle mani del "Primo Console" che ha anche il potere di proporre le leggi, assistito dal Consiglio di Stato. Gli altri poteri legislativi sono divisi tra: a) il "Tribunato", composto da 100 membri, che discute le leggi ma non può votarle; b) il "Corpo Legislativo", formato da 300 membri, che le vota senza poterle discutere; c) il "Senato", con 60 componenti, che, prima della promulgazione, procede al controllo di costituzionalità.
Lo Stato per Napoleone non è più semplice strumento nelle mani della collettività ma realtà prima e assoluta che non si limita a mantenere l'ordine esistente prefiggendosi, invece, l'obiettivo di crearne uno nuovo. Nasce lo "Stato a pubblica amministrazione".
Napoleone procede subito ad una risistemazione della macchina amministrativa, con una nuova organizzazione ma anche con una diversa definizione di compiti e finalità. L'obiettivo è quello di trasformare il "tourbillon revolutionnaire" in un "mécanisme régulier", basandosi fondamentalmente su due criteri: la concentrazione di tutto il complesso dell'attività esecutiva in capo ad organi monocratici (secondo il principio "délibérer est le fait de plusieurs, agir est le fait d'un seul") e l'inserimento di tali organi in una rigida scala gerarchica, in una "catena di esecuzione" che "discende senza interruzione dal ministro all'amministrato, e trasmette la legge e gli ordini del governo fino alle ultime ramificazioni dell'ordine sociale con la rapidità del fluido elettrico".
Con la Legge del 28 piovoso dell'anno VIII (17 febbraio 1800) si provvede a trasferire le competenze dei corpi amministrativi elettivi a tre funzionari monocratici nominati direttamente dal governo: il Prefetto nel Dipartimento, il Sottoprefetto nel Distretto e il Sindaco nel Comune.
La figura centrale, il Prefetto, dipende direttamente dal Primo Console e, in seguito, dall'Imperatore. I suoi compiti sono politici e amministrativi: applica le direttive del governo centrale ed esercita il controllo su ogni aspetto della vita del Dipartimento.
Alle assemblee collegiali, invece, restano solo funzioni propositive, di controllo sul bilancio consuntivo e di riparto dell'imposta. Gli organi collegiali sono "collocati, per così dire, al di sotto della linea di esecuzione: vigilano sugli interessi di tutti, mantengono la giustizia nell'amministrazione, senza nuocere, in alcun caso, al suo rapido funzionamento".
Lo Stato è ormai divenuto apparato, complesso istituzionale, separato nettamente dalla collettività. Caduta la collegialità, cade anche la rappresentanza nell'amministrazione che assume una caratterizzazione più burocratica e professionale, rompendosi il legame diretto con la società degli amministrati.
L'arte 3 della Legge, statuendo che "soltanto il Prefetto" è l'incaricato dell'amministrazione del Dipartimento, stabilisce di fatto che la società è diventata "il semplice oggetto di una funzione amministrativa di esclusiva pertinenza statale" e che il suo consenso "è irrilevante rispetto all'azione amministrativa, in quanto si considera già interamente speso nel momento di formazione della legge", che perciò da quel momento lo Stato è diventato "l'unico rappresentante di qualunque interesse pubblico".
L'Amministrazione ha ormai assunto una funzione di terzietà, del tutto separata da qualsiasi consenso degli amministrati, in procinto di assumere nuove forme e nuovi poteri. Così, nella stessa Costituzione dell'anno VIII, al governo viene attribuito il potere di emanare regolamenti necessari "all'esecuzione delle leggi"(art. 44), mentre prima gli era stato attribuito solo quello di "proclamarne" il contenuto, inaugurando il lungo cammino di questo nuovo strumento normativo.
In questo periodo nasce anche il potere ablatorio della pubblica amministrazione. Un parere interpretativo del Consiglio di Stato, infatti, nel 1807 dichiarò non più indispensabile la dichiarazione di pubblica necessità del legislatore per tutti gli espropri. Non si dimentichi, infine, che l'art. 46 della Costituzione dell'anno VIII autorizzò il governo a spiccare mandati di arresto per determinati reati. Un potere, questo, che fra breve il codice penale avrebbe demandato ai Prefetti ed esteso a tutti i reati.
Ma la grande novità del periodo napoleonico dal punto di vista del diritto amministrativo fu sicuramente la definitiva sottrazione del contenzioso amministrativo alla competenza dei tribunali. La strategia normativa usata non fu quella delle grandi riforme legislative ma di procedere ad un riassestamento del quadro istituzionale dando per scontata quella sottrazione.
Proprio, dunque, dalla consapevolezza della divisione dell'amministrazione dal potere giudiziario vennero alla luce alcuni provvedimenti che, di fatto, confermarono la convinzione che l'Amministrazione dovesse avere una propria sfera di attribuzioni giustiziali, in una parola "una propria giustizia". Era, però, necessario che i titolari di tale nuova funzione fossero distinti e separati da coloro che avevano compiti di amministrazione attiva. Per questi fini nacquero il Consiglio di Stato e i Consigli di Prefettura con funzioni, inizialmente, di consulenza degli organi di amministrazione attiva: il Governo e i Prefetti.
Si riconosceva, dunque, che l'amministrazione non poteva prescindere da un momento di risoluzione del contenzioso e che tale funzione era affidata ad organi speciali della stessa amministrazione.
Ma tutto questo significò anche un'altra cosa. Se la pubblica amministrazione non aveva più bisogno dei giudici voleva dire che essa poteva ormai dare carattere esecutivo ai propri atti, senza bisogno di interventi legislativi specifici e con forme del tutto autonome da quelle giudiziarie. Nasceva, così, pur senza averne espressa consapevolezza, il principio di esecutorietà dell'atto amministrativo, di un atto, cioè, che, avendo la forza di imporne l'obbedienza, poteva essere portato ad esecuzione, anche coattiva, direttamente dall'amministrazione senza preventivo accertamento da parte di una autorità giurisdizionale circa la sussistenza del potere dell'amministrazione di attuare la sua pretesa.
I nuovi organismi, intanto, incominciavano ad occuparsi del contenzioso amministrativo che
Il Consiglio di Stato
si occupava delle
"difficoltà" che
s'incontravano" in
materia amministrativa",
fungendo da organo di
consulenza legale
dell'Esecutivo |
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non poteva essere più deciso dai tribunali. Nei Dipartimenti gli interessati inviavano una istanza al Prefetto che convocava i Consigli di Prefettura, presiedendoli, i quali approfondivano le questioni dal punto di vista giuridico. Dal canto suo il Consiglio di Stato si occupava delle "difficoltà" che s'incontravano "in materia amministrativa", fungendo da organo di consulenza legale dell'Esecutivo.
Inizialmente, dunque, il Consiglio di Stato non aveva alcuna funzione giurisdizionale. Ma le cose cambiarono nel 1806. Su sollecitazione degli stessi consiglieri, venne istituita una commissione interna al Consiglio che, presieduta dal Ministro della Giustizia, aveva il compito di istruire gli affari contenziosi poi decisi dall'intero plenum secondo una procedura stabilita in apposito regolamento che prevedeva anche l'assistenza di un avvocato.
Verso la fine del periodo napoleonico tale competenza assunse una connotazione più generale, pur restando sostanzialmente limitata alla contestazione su una obbligazione o su un diritto di sua natura regolato dalle leggi civili e che nasceva da un atto della pubblica amministrazione.
In poche parole se il contenzioso nasceva da "rapporti privatistici" con lo Stato si poteva adire, usando una terminologia attuale, il giudice amministrativo, non potendo rivolgersi a quello ordinario. Se, invece, la contestazione riguardava l'adempimento di obbligazioni che la legge collegava alla qualità di cittadino, allora non si poteva adire alcun giudice e non restava altro che obbedire ad uno Stato che non si trovava più in una posizione privatistica di proprietario o contraente, bensì in quella di Stato sovrano.
Con la Restaurazione e il ritorno all'ancient regime lo Stato a pubblica amministrazione viene mantenuto nelle sue connotazioni fondamentali, venendo eliminati solo quegli aspetti in contrasto con le forme politiche degli Stati sovrani della Restaurazione. L'Amministrazione pubblica, con i suoi compiti e le sue caratteristiche, viene considerata valida nelle sua separazione dagli altri poteri e nella sua lontananza dalla comunità degli amministrati, una lontananza ancora meglio percepita da apparati statali spesso conservatori ed autoritari.
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