All'inizio della Seconda Guerra Punica i Cartaginesi di Annibale, che hanno invaso l'Italia settentrionale, scendono verso sud per minacciare gli alleati latini dell'Urbe. I legionari romani si mettono sulle tracce di Annibale per lo scontro decisivo. Il risultato è una delle più sanguinose sconfitte di Roma. Ecco la cronaca di questo disastro alla luce delle più recenti ricostruzioni.
LA BATTAGLIA DI CANNE
di MASSIMO IACOPI
Nel 216 a.C. da quasi due anni Roma e Cartagine si affrontano nel bacino del Mediterraneo occidentale. L'esercito di Annibale, partito dalla penisola iberica, dove si è impadronito della città di Sagunto, alleata dei Romani, ha attraversato in successione i Pirenei e le Alpi. Giungendo di sorpresa nella piana del Po l'esercito cartaginese riesce ad avere la meglio sulle diverse legioni che Roma non ha smesso di lanciargli contro: al Ticino (novembre 218 a.C.), alla Trebbia (dicembre 218 a.C.) e soprattutto al Trasimeno (giugno 217 a.C.) Annibale infligge ai Romani delle sconfitte sempre più pesanti.
Dopo i 20 mila morti del Trasimeno, i Romani decidono di prendere tempo e di evitare scontri diretti con le forze cartaginesi, preferendo una azione di guerriglia e di disturbo allo scopo di logorare progressivamente le sue forze. In risposta a questa strategia, propugnata dal console Quinto Fabio Massimo detto appunto il "Temporeggiatore" (Cunctactor), Annibale moltiplica le razzie e i saccheggi. Il suo esercito mette a ferro e fuoco la penisola, lasciando dietro di sé una scia di devastazione. Davanti al rischio di vedere allontanarsi i propri alleati, i Romani non possono più rimanere inattivi davanti a un irriducibile nemico che sfida la loro potenza. Per questo motivo il Senato decide di inviare nuovamente le sue legioni contro Annibale, ma questa volta l'impegno sarà massimo. Infatti la mattina del 2 agosto 216 a.C., quasi 100 mila uomini, ovvero otto legioni romane più ausiliari, il più grande esercito mai riunito da Roma, si trovano accampati nella piana di Canne in Puglia, nei pressi della costa adriatica e a sud del non lontano promontorio del Gargano.

Già il giorno prima Annibale aveva cercato di provocare lo scontro, allineando le proprie
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Annibale
truppe nei pressi del fiume Aufide (oggi Ofanto), ma il console Paolo Emilio, che comandava quel giorno aveva ritenuto opportuno non fare uscire le proprie truppe dal campo fortificato. Il console Terenzio Varrone, cui spetta il comando della giornata, è invece ben deciso non a farsi sfuggire l'occasione di una giornata di gloria. Avendo i Cartaginesi mostrato l'intenzione di combattere sulla riva sinistra del fiume, i Romani andranno ad attenderli sulla riva destra, in modo da non dare all'avversario la scelta del terreno di battaglia.
Ma questo è quello che esattamente sperava il suo avversario. Annibale, informato dell'intenzione dei romani, preferiva infatti il terreno sull'altra sponda del fiume, più favorevole alle manovre della sua cavalleria (che costituiva lo strumento più agguerrito ed efficace dell'esercito punico). I Romani, invece, speravano di fare affidamento sulla preponderanza della fanteria, numericamente quasi doppia per numero di uomini rispetto a quella cartaginese.
A partire dall'alba risuonano nel campo romano le trombe e le forze cominciano a traversare il fiume Aufide, legione dopo legione, per assumere lo schieramento di battaglia. Di fronte, a diverse centinaia di metri, un gruppo di cavalieri punici sale al galoppo la collina del villaggio di Canne: Annibale con i suoi principali aiutanti, osserva il dispositivo nemico. Sotto i loro occhi appare un vasto formicolare di uomini che prende a poco a poco la forma di un immenso muro d'acciaio che sbarra tutta la piana per una fronte di circa tre chilometri. Alcuni dei capi cartaginesi, per quanto esperti e veterani di numerose battaglie, non nascondono una certa tensione davanti a un esercito di una grandezza mai vista prima. Ma Annibale appare piuttosto disteso e in cuor suo felice dell'occasione tanto attesa. Anche l'esercito punico prende posizione protetto sulla fronte dagli arcieri e dai frombolieri balearici, una specie di fanteria leggera.

Nelle file romane sono presenti giovani e vecchi che rappresentano tutta Roma, tutto il Lazio e tutte le città alleate. Nelle loro file regna una fiducia contenuta perché l'avversario è temibile, ma questa volta non potrà tendere imboscate e soprattutto non c'è la nebbia come al Trasimeno.
I due eserciti sono ormai di fronte nella piana di Canne: i Romani hanno posto alla loro sinistra la loro cavalleria al comando del console Paolo Emilio e al centro l'immensa massa della fanteria legionaria agli ordini dei due consoli dell'anno precedente Minucio e Servilio, mentre Varrone, il console in carica, comanda la cavalleria degli alleati sull'ala destra dello schieramento.
Di fronte, a circa mille metri, i cavaliere galli e iberici sotto il comando di Asdrubale, fratello di Annibale, occupano la sinistra del dispositivo cartaginese, mentre al centro si schierano 22 mila fanti iberici e celti fiancheggiati da due corpi di fanteria pesante africana in riserva, costituiti complessivamente da 10 mila libici; sulla destra dello schieramento Annone, nipote di Annibale, si trova alla testa della cavalleria numide. In entrambi i casi i generali si sono piazzati dove il dispositivo appare più debole: Varrone e Paolo Emilio ai lati con la cavalleria ed Annibale e suo fratello Magone, al centro con la fanteria.
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La battaglia ha inizio Gli arcieri cretesi, i frombolieri balearici e i lanciatori di giavellotti escono e rientrano a turno dai loro ranghi per scagliare sui romani una pioggia di dardi. Nello stesso tempo le cavallerie vengono allo scontro: gli squadroni di Asdrubale caricano gli uomini di Paolo Emilio, li agganciano e li costringono ad arretrare; dall'altra parte invece Marrone ed i suoi alleati riescono a resistere agli assalti della cavalleria numide. Al centro, le due muraglie di fanteria vengono a contatto in un frastuono di urla, di gridi di guerra e di rumori di spade che colpiscono gli scudi.
Le linee cartaginesi presentano una curiosa avanzata a semicerchio, con i celti e gli iberici in prima linea. Arrivati a una trentina di passi i legionari dei primi ranghi lanciano i loro giavellotti, ma sono troppo numerosi, troppo serrati e si disturbano mutuamente. Nonostante questo la fanteria romana avanza, riassorbendo il saliente creato dallo schieramento punico, cominciando ad intaccare il cuore dello schieramento nemico. Gli iberici e i celti retrocedono senza peraltro perdere la coesione tattica. I legionari romani, presi dall'ardore del combattimento ed esaltati dalla prospettiva di una vicina vittoria, accentuano la loro pressione, infliggendo agli avversari delle terribili ferite con i loro corti gladi

Ormai la fronte cartaginese ha preso la forma di un saliente concavo ad arco di cerchio, verso il quale convergono in una calca infernale quasi tutte le unità romane. Quasi spossati dai combattimenti i veterani cercano le unità che devono prendere il loro posto ma vedono venire loro addosso dai fianchi delle colonne di soldati armati alla romana che inizialmente scambiano per amici. Il tribuno Gneo Lentulo si rende conto della situazione: si tratta di soldati africani e non romani, equipaggiati con le armi dei morti del Trasimeno. Lentulo cerca immediatamente di dare l'ordine di ritirata ai suoi uomini ma nel frastuono del combattimento e le grida dei feriti non è ascoltato.
Ormai è troppo tardi: sul retro delle linee romane i due corpi libici, ancora freschi e ben addestrati, completano l'accerchiamento delle forze romane, bloccando ogni via di fuga e si gettano contro le legioni prese in trappola. Il panico e la disorganizzazione si impadronisce delle giovani reclute romane, per di più prive dei loro ufficiali, bersagli prioritari degli arcieri e dei frombolieri.
In prima linea i veterani vedono nuovamente i Galli e gli iberici riprendere l'attacco, ma nel momento in cui le legioni romane cercano di riformare i quadrati per uscire dalla trappola, ecco arrivare la cavalleria di Asdrubale. Questa, dopo la sua vittoria su Paolo Emilio, ha proseguito la sua azione gettandosi insieme ai numidi sugli squadroni di Varrone che, sopraffatto dalla massa degli avversari, deve ritirarsi dal campo di battaglia
Lasciato ai numidi il compito di inseguire i fuggitivi, Asdrubale rientra con le proprie forze sul campo di battaglia, infliggendo ai romani il colpo decisivo. L'esercito romano si trova completamente accerchiato per la successiva fase di annientamento. La disperazione, la rassegnazione, la stanchezza, il terrore sommergono i legionari, che soccombono uno dopo l'altro all'azione dell'avversario. Si verificano casi di follia e alcuni romani si uccidono fra di loro. Il console Paolo Emilio, raggiunto da numerosi colpi muore al centro della sua guardia. Il combattimento si è ormai trasformato in un massacro.

Allorché giunge la sera, dopo circa 9 ore di combattimento, torna la quiete sul campo di battaglia che ha portato a Roma la più sanguinosa delle sconfitte della sua storia: tre consoli o ex consoli, 80 senatori, più di 30 ufficiali superiori e non meno di 60 mila soldati sono caduti nella piana di Canne; circa 10 mila uomini sono stati fatti prigionieri.
Canne, battaglia d'accerchiamento e d'annientamento, da allora diventata esemplare nella storia militare, sancisce la vittoria dei cartaginesi su un avversario due volte superiore di numero e consacra il trionfo dell'intelligenza tattica di Annibale sulla forza bruta. Ma quello che Annibale ancora non sa, mentre il giorno successivo contempla con orgoglio il ricco bottino conquistato, è che l'ampiezza dell'eclatante vittoria non ha risolto nulla. Anzi, ha reso ormai impossibile ogni possibilità di accordo con Roma. Di fatto circa 70 anni più tardi, nel 146 a.C. la distruzione finale e totale di Cartagine sarà la conseguenza e la conclusione definitiva della battaglia di Canne.
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