Convinto che nessuna dittatura potesse vivere senza un efficiente apparato di polizia, il fascismo creò una struttura di investigazione alimentata da un esercito di spie. Vi erano intere categorie dedite alla delazione: portinai, esercenti di locali pubblici, insegnanti. E le vittime non furono solo ignari cittadini, ma anche podestà, gerarchi e funzionari, tutti fatti oggetto delle accuse più varie.
Gli occhi e le orecchie del Duce
di MICHELE STRAZZA
Lo Stato che il Regime Fascista creò e rafforzò in tutto il ventennio non può non definirsi "Stato di Polizia". Fondamentali furono, nel suo consolidamento, alcune tappe importanti che andiamo a sintetizzare.
Innanzitutto deve essere ricordato il nuovo Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (RD n.1848 del 6 novembre 1926). Il Testo Unico dedicava molto spazio alle misure di prevenzione, strutturate come semplici fattispecie di sospetto, funzionali alla repressione del dissenso politico e dotate di maggiore effettività rispetto alla disciplina repressiva della Legge Penale, sancendo l'ampia applicazione, in nuova forma, di un istituto giuridico già presente nell'Ordinamento: il Confino.
L'emanazione era stata preceduta, pochi mesi prima, dalla nomina a Capo della Pubblica Sicurezza del Prefetto Arturo Bocchini che grande parte avrà nella riorganizzazione dell'apparato repressivo del Regime. Fortemente convinto che nessuna dittatura potesse vivere senza un efficiente apparato di polizia, Bocchini creò una struttura fortemente centralizzata, spostando il centro del potere sulla direzione di PS e quindi sul capo della polizia il quale operava in periferia mediante ispettori regionali e ispettori generali di Pubblica Sicurezza. Questi ultimi erano preposti a organismi alle sue dirette dipendenze come l'OVRA (reparto speciale destinato principalmente alla repressione dell'antifascismo) o destinati a incarichi speciali, svincolati comunque da rapporti gerarchici con i Prefetti e i Questori.

L'OVRA, vero capolavoro di Bocchini, era formata, al centro, da un nucleo di funzionari ed agenti di carriera, mentre, tutt'intorno, vi era una vastissima rete di informatori privati. I
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Mussolini
funzionari erano 80 e gli agenti circa 600. Con l'OVRA collaboravano, "in condizione di dipendenza", tutti gli Uffici Politici delle varie Questure, gli uffici di PS di frontiera, gli Uffici Politici Investigativi (UPI) dei vari comandi di Legione della Milizia e, se richiesti, tutti gli altri servizi politici e militari dello stato.
Col Regio Decreto Legge n.1903 del 6 novembre 1926 venne anche istituito il servizio speciale di investigazione politica, avente per scopo la difesa dell' Ordine Nazionale dello Stato. Significativo fu l'utilizzo che Bocchini fece di fondi speciali di notevole entità per alimentare un esercito di spie definite "fiduciari" che lo tenevano al corrente di ogni più piccolo fermento o malcontento. Appena arrivato al Viminale dalla Prefettura di Genova, infatti, Bocchini chiese ed ottenne l'aumento dei fondi segreti che, ammontanti a lire 3.000.000, furono portati a lire 50.000.000.
Con l'OVRA e con i fondi speciali, dunque, si diede l'avvio a una sorta di spionaggio generalizzato che faceva sentire continuamente scrutata anche la gente comune. Non furono pochi i casi in cui tali spie, per continuare a fruire dei compensi (che qualche volta arrivavano a 5, 10, 20 volte lo stipendio degli stessi funzionari di polizia), mescolarono notizie false a quelle vere, inventando complotti e macchinazioni che si concludevano immancabilmente con l'arresto dei colpevoli.
Come giustamente precisa Canosa, la conseguenza dell'esistenza di una polizia politica così strutturata, «fondata principalmente sulle private confidenze», cioè sull'attività di spie in gran parte mosse da fini di lucro, fu quella di avvelenare ulteriormente la già abbastanza degradata vita politica nazionale, creando una situazione di generale diffidenza e sospetto.
La cosa indubbiamente curiosa fu che proprio Bocchini, che aveva elevato a sistema la delazione, ne fu oggetto in alcuni casi. Relazioni e lettere anonime, infatti, pervennero al Duce, mettendo a nudo tutti i vertici della Polizia, da Bocchini (accusato di dubbia moralità e rifornito dal suo segretario di donne di facili costumi) ai suoi più stretti collaboratori (ringraziati con una folgorante carriera per i bassi servigi resi). La documentazione, come si vede pesantemente denigratoria, proveniva probabilmente da un dirigente della questura romana, scavalcato dai fidi del capo della Polizia, che, in seguito, fornì a Mussolini i precisi nominativi degli accusati. Ma il Duce non fece nulla, conservando accuratamente il dossier a futuro bisogno.

Ma torniamo alle tappe fondamentali dell'instaurazione dello Stato di Polizia. Il 25 novembre 1926, con la Legge n.2008 ("Provvedimenti per la Difesa dello Stato"), emanata come legge di emergenza dopo l'attentato Zaniboni a Mussolini, veniva istituito il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, composto da un presidente scelto tra gli ufficiali dell'esercito, della marina, dell'aeronautica e della milizia volontaria per la sicurezza nazionale, dalla quale provenivano altri cinque giudici e un relatore scelto tra il personale della Giustizia Militare.
Il Tribunale, il quale aveva competenza sui reati politici introdotti dalla nuova normativa e per quelli contro la sicurezza dello Stato, era, in definitiva, un vero e proprio organo di
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giustizia politica che giudicava secondo la procedura penale in tempo di guerra, con un rito inquisitorio e ridotte garanzia difensive: una fase istruttoria segreta senza patrocinio dell'avvocato, una fase predibattimentale con possibile segretazione degli atti processuali, obbligo del mandato di cattura, impossibilità della libertà provvisoria, non ricorribilità in Cassazione per le sentenze, inesistenza di altri mezzi di impugnazione, ad eccezione della revisione.
Con il nuovo Testo Unico di Pubblica Sicurezza del 1931 la disciplina delle misure di prevenzione resta sostanzialmente immutata rispetto al 1926, ma viene resa ancora più esplicita la possibilità di ammonire gli avversari politici e destinarli al confino.
Nel luglio del 1931 entra in vigore il nuovo codice penale preparato da Alfredo Rocco e quello di procedura penale. La contemporanea riforma carceraria porta altresì a un notevole inasprimento punitivo.
L'apparato legislativo repressivo del Regime ha ormai assunto una forma definitiva ed utilizza come forma privilegiata di notitia criminis proprio la delazione ormai diventato lo sport preferito di migliaia di italiani.
Non si dimentichi, inoltre, che il nuovo codice di procedura penale aveva introdotto il cosiddetto fermo di polizia giudiziaria (art.238) e aveva cancellato l'istituto della scarcerazione automatica per decorrenza dei termini, legittimando la detenzione preventiva senza limiti. Il fermo, infine, attribuiva all'esecutivo uno strumento autonomo per privare il cittadino della libertà. Esso consisteva nel potere della polizia giudiziaria di fermare e trattenere sotto custodia le persone gravemente indiziate di un reato per il quale fosse obbligatorio il mandato di cattura e sempre che vi fosse il pericolo di fuga. La PG era tenuta a informare l'Autorità Giudiziaria del fermo ma quest'ultima non interferiva nell'attività di polizia poiché non sindacava la fondatezza del fermo, cosicché l'indiziato poteva essere trattenuto senza limiti di tempo

Il Fascismo, dunque, creando un sistema squisitamente poliziesco, incoraggiò massicciamente la delazione come dovere del cittadino e partecipazione alla lotta agli avversari del Duce, sfruttando ampiamente le "segnalazioni" da qualunque parte giungessero.
Secondo il Franzinelli, infatti, l'apparato statale fu ben più di un mero «recipiente di denunzie», favorendo le segnalazioni ai più diversi livelli fino a garantire, in alcune situazioni, concreti vantaggi ai loro autori, e facendo seguire a ogni esposto anonimo indagini contro le persone accusate: «Migliaia di cittadini adempirono in modo spontaneo e intermittente alla medesima funzione referente svolta dai fiduciari dell'O detenzione preventiva senza limiti OVRA in forma mercenaria e continuativa. Grazie ad essi affluirono agli archivi di Polizia informazioni di carattere privato su decine di migliaia di italiani, di seguito schedati e sorvegliati».
Anche l'apparato del Partito Fascista era organizzato per favorire la delazione. All'interno della stessa Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale, infatti, erano stati istituiti gli Uffici Politici Investigativi (UPI), con sede in ogni Federazione Provinciale, con l'obiettivo di raccogliere informazioni sugli individui sospetti.
Vi erano addirittura intere categorie viste come delatori per eccellenza. Pensiamo ai portinai che erano tenuti a riferire all'Autorità di Polizia ogni anomalia venisse riscontrata nello stabile da loro custodito.
Anche gli esercenti spacci pubblici erano quasi obbligati a tenere sotto controllo quanto accadeva nei loro locali, pena il rimetterci loro stessi. E' quanto, ad esempio, accade a Domenico Di Terlizzi, nativo di Ruvo di Puglia ma residente ad Irsina, in Lucania, che nell'agosto del 1933 rifiuta di confermare i nomi degli avventori che, nella propria osteria, avevano intonato Bandiera rossa, dimostrando così «la sua complicità morale con gli arrestati».
Vi è persino chi ama spacciarsi per spia accreditata. Il 18 luglio del 1941, ad esempio, viene arrestato a Macerata e inviato al confino un pugliese, usciere di 50 anni, proprio «per essersi spacciato confidente dell'OVRA».

La spiata e la denuncia cosiddetta "orizzontale", cioè quella in cui accusatore e accusato erano dello stesso livello sociale (spesso, anzi, si conoscevano direttamente), costituisce, indubbiamente, la mole maggiore delle delazioni. Dietro di esse vi erano motivazioni delle più varie, da quelle di invidia nel lavoro, alla gelosia, alle contese familiari. Tutte sfociavano nella denuncia, anonima o no, vista come strumento indiretto per la risoluzione dei conflitti privati.
Le
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Esponenti dell'OVRA
denunce contro persone di ceto sociale superiore, invece, come afferma sempre il Franzinelli, funsero da «arma del debole» contro i potenti, «arma caricata a salve, che danneggiava solo individui privi di protezione». Podestà, gerarchi, segretari del fascio, funzionari, tutti venivano fatti oggetto di accuse delle più varie che, sovente, coinvolgevano aspetti intimi e familiari, oltre precisi interessi clientelari ed economici.
Alcune segnalazioni erano debitamente firmate, anche da persone in vista locali, altre, al posto della sottoscrizione, portavano sigle più o meno chiare ("fascisti puri", "un fedele fascista", "molti fascisti"etc.), altre, infine, erano del tutto anonime.
Le accuse, come già detto, erano le più varie e dipendevano dalle situazioni e dal retroterra sociale di denuncianti e denunciati. L'elemento comune a tutte fu che le Autorità le presero sempre in considerazioni, mai cestinandole ma predisponendo le indagini del caso.
Spesso, però, anche di fronte a fatti più o meno veritieri, scattava la copertura del sistema ma solo se l'accusato era ancora ritenuto "utile" e degno di protezione, negli altri casi, invece, veniva regolarmente "buttato a mare", specialmente se intervenivano i veti incrociati di opposti schieramenti.

Nella categoria della delazione "verticale" possono essere compresi i numerosi casi in cui ad essere denunciati furono insegnanti e professori di una scuola che abituava gli stessi studenti a denunciare gli oppositori. E' il caso di Nicola Conte, venticinquenne lucano, perito agrario. Il 31 maggio del 1939 viene arrestato, denunciato dai suoi alunni, a Napoli, dove insegna Matematica, perché durante una lezione aveva raccontato agli studenti una barzelletta antifascista. La Commissione Provinciale di Napoli, con ordinanza del 28 luglio, gli assegna anni 5 di confino. Il 17 maggio del 1940, dopo la permanenza a Pisticci, viene liberato condizionalmente. Per una barzelletta aveva scontato, tra carcere e confino, 11 mesi e mezzo. Anche Lorenzo Bobbio, di origine romana ma professore di Matematica a Montalbano Jonico, in provincia di Matera, nel 1943 è denunciato e assegnato al confino per 5 anni per aver pronunciato davanti alla scolaresca frasi oltraggiose nei confronti del Duce. Fortunatamente, dopo la caduta di Mussolini, viene liberato nell'agosto dello stesso anno .
La scuola fu un ambiente privilegiato per le delazioni dato l'indottrinamento fascista nei riguardi degli alunni, i quali venivano portati a una vera e propria identificazione con il fascismo. Che andava difeso e sostenuto contro chiunque ne parlasse male, a scuola ma anche a casa. Maestri e maestre, professori e studenti, tutti erano pronti a essere fiduciari e informatori del Regime contro qualsiasi manifestazione di antifascismo.
Ma spesso l'intero personale era coinvolto nella pratica delatoria per pareggiare i conti con i propri superiori. E' quanto capita a Emanuele Bigotta, preside di un istituto magistrale privato di Penne, in Abruzzo, che nel 1926 viene denunciato da un impiegato licenziato per aver pronunciato parole offensive contro il Re e il Duce. Il procedimento penale contro il professore si concluse senza serie conseguenze ma gli venne negata l'autorizzazione alla riapertura della scuola in altra località.

Il delatore che le Autorità fasciste preferivano e, in qualche modo, invogliavano era, però, il cosiddetto "delatore occasionale", colui, cioè, che, trovandosi occasionalmente di fronte ad un comportamento antifascista o comunque pregiudizievole per gli interessi del Regime, ne informava prontamente le forze di polizia per la conseguente repressione e punizione.
In realtà più che da un dovere civico o fascista il delatore era quasi sempre mosso da interessi personali o familiari.
I luoghi e le occasioni nelle quali individuare un oppositore da denunciare erano i più vari e le segnalazioni spesso venivano da persone che a volte mangiavano alla stessa tavola. E' il caso del potentino Gerardo Rosa, di 35 anni, che viene arrestato con l'accusa di oltraggio al capo del governo e di aver tentato di generare disordini. La denuncia parte da un suo stesso commensale il quale riferisce alla Polizia che il Rosa, durante una riunione conviviale, tra parenti e amici, aveva rivoltato di faccia al muro un ritratto di Mussolini. L'arrestato pagherà con il confino l'insano gesto: assegnato per quattro anni, poi ridotti a due, cominciati a scontare a Lampedusa e Lipari, verrà liberato il 9 giugno del 1927, con la commutazione in diffida, a causa delle precarie condizioni di salute ed economiche sue e dei suoi familiari.
Poteva addirittura capitare di parlare nella propria casa o in quella di un parente senza sapere di essere ascoltati da un passante giù in strada. E' quanto capita ad un calzolaio socialista di Satriano di Lucania, Rocco Nicola Perrone, inviato al confino, per un discorso antifascista fatto in casa del cognato. Egli viene denunciato proprio da un passante che l'aveva sentito affermare, in contraddittorio col parente fascista, che in Russia si viveva bene e liberi, mentre in Italia si moriva di fame, esprimendo anche il desiderio di ritornarsene in America, dove aveva vissuto 9 anni, dato che in Italia si dovevano pagare molte tasse.
Anche un intellettuale siciliano come Beniamino Joppolo era stato vittima di una delazione mentre si trovava ospite di una sorella a Ravenna dove, durante le feste di Natale del 1935, aveva criticato il Regime.

In ogni momento, dunque, poteva capitare di essere nel mirino di un delatore occasionale e non v'era verso di
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Una seduta del Tribunale Speciale
sfuggire alla sua spiata. Uno dei luoghi più pericolosi per la forte presenza di delatori occasionali erano le mescite pubbliche. Se n'era sicuramente dimenticato Giuseppe Capuano, bracciante nativo di Vietri di Potenza, che il 30 dicembre 1939 viene arrestato per aver fatto in un bar, mentre leggeva il giornale, apprezzamenti disfattisti sulla politica interna ed esterna del Fascismo, compiacendosi perfino delle vittorie franco-inglesi sui tedeschi, meritandosi, così, l'assegnazione di due anni di confino.
Ma la delazione diventa anche metodo privilegiato di lotta politica. Podestà, segretari del fascio, dirigenti di partito, federali, deputati, tutti verranno coinvolti in questo vortice senza fondo dove ogni colpo è ammesso, ogni calunnia consentita, anzi, auspicata.
E le autorità vaglieranno attentamente ogni singola accusa, anche la più fantasiosa, occupando allo stremo polizia e carabinieri in estenuanti indagini su cose e persone, con una fittissima corrispondenza di rapporti, più o meno "riservati", tra forze dell'ordine, questure, prefetture ed organi del Ministero dell'Interno. La stessa segreteria del Duce verrà coinvolta e dovrà, a sua volta, rimettere le questioni agli organi periferici di questa elefantiaca macchina poliziesca.
Il delatore, appartenente spesso ad una delle fazioni in lotta, mascherandosi dietro l'anonimato o persino firmando la denuncia, cercherà di convincere le autorità della coincidenza del proprio interesse personale, fatto di rivalità e desiderio di vendetta, con quello generale dello Stato, non lesinando neanche confidenze "intime" per mettere in cattiva luce un avversario e condurlo sulla strada della rimozione o del confino.

Ma se il fascismo incoraggiava "la spiata" era altrettanto duro con i diffamatori, specialmente quando ad essere calunniato inutilmente era un dirigente di partito o una autorità. Così, nel 1931, viene arrestato e spedito al confino un medico di Tricarico, in provincia di Matera, per aver inviato o favorito l'invio di lettere anonime con le quali varie persone erano state accusate di procurato aborto, e alcune autorità, tra cui l'ex prefetto materano, di avere favorito l'occultamento di tale reato. Il medico è esponente di una nota famiglia di Tricarico del quale il padre, nel 1927, è stato anche Podestà poi allontanato con accuse di irregolarità ed è molto probabile che il provvedimento abbia le sue radici nella lotta interna ai gruppi dirigenti fascisti locali.
Anche la delazione, come arma per la lotta politica, era indice di un clima surriscaldato che caratterizzò il Ventennio in Italia. La nuova compagine politica dominante, dunque, non fu mai lontana da vere e proprie lotte di potere che ne caratterizzarono la vita e lo sviluppo.
Tali scontri spesso furono palesi e riguardarono precise correnti politiche, altre volte, invece, furono predominio di fazioni e consorterie, quando non di singole personalità, e si svolsero dietro le quinte pur avendo grande influenza sulle decisioni e le scelte del nuovo Regime.
Le denunce anonime e le spiate testimoniano tutto questo, anche ai livelli più bassi, dandoci il quadro di un fascismo ben lontano dalle immagini monolitiche rassicuranti propagandate dalla stampa di regime.
BIBLIOGRAFIA
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  • Costituzione e cittadino, di G. Filangi, in AA.VV., "Storia d'Italia", vol. V - Einaudi, Torino 1973.
  • Delatori. Spie e confidenti anonimi: l'arma segreta del regime fascista, di M. Franzinelli - Mondadori, Milano 2001.
  • Provincia di Confino. La Lucania nel ventennio fascista, di L. Sacco - Schena, Fasano 1995.
  • Storia del Partito comunista italiano, Gli anni della clandestinità, di P. Spriano - Einaudi, Torino 1969.
  • Melfi Terra di Confino. Il Confino a Melfi durante il Fascismo, di M. Strazza - Edizioni Tarsia, Melfi 2002.
  • La prima guerra mondiale e il fascismo, di N. Tranfaglia, in AA.VV., "Storia d'Italia", vol.XXII - UTET 1995