Sull'atteggiamento tenuto dai conquistadores spagnoli nei confronti degli indios si sviluppò un importante dibattito già nei primi decenni del XVI secolo. Ci fu chi tentò di fornire una base legale alle guerre di colonizzazione. Altri, invece, come il filosofo Ginès de Sepulveda e il vescovo di Chiapas Bartolomé de Las Casas, si confrontarono in una famosa disputa sull'uguaglianza e sul diritto di imporre il "bene" agli indigeni.
La disputa sull'uguaglianza degli indios
di ROBERTO RUGHI
La conquista dell'America da parte degli Spagnoli nel XVI secolo si risolse nella distruzione della civiltà conquistata. I conquistadores reputavano gli indigeni degli esseri inferiori, a mezza strada fra l'uomo e l'animale. Esaminando le descrizioni lasciateci delle città, delle usanze e dell'organizzazione civile degli Atzechi, si nota l'attenzione con cui gli Spagnoli paragonano quello che vedono con ciò che hanno lasciato in Europa. Paradossalmente, il risultato di questo raffronto è del tutto positivo per gli Aztechi: le città sono più belle delle più grandi città europee, gli usi più raffinati. Nonostante ciò, il giudizio sulle popolazioni che avevano costruito tante meraviglie fu negativo. Gli Spagnoli parlano
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Gli spagnoli sbarcano
nel Nuovo Mondo
spesso "degli" Aztechi ma non parlano mai "agli" Aztechi. Il dialogo è inesistente perché non esiste un riconoscimento reciproco fra l'io e l'altro. La conseguenza di tutto ciò fu la distruzione delle meraviglie che tanto si erano ammirate.
Ciò che è fuori di dubbio è che l'arrivo degli europei nelle Americhe si risolse in una tragedia per le popolazioni indigene. I dati sono evidenti: si stima che nel solo Messico ci sia stata, in meno di un secolo, la diminuzioni di circa 24 milioni di persone e che a livello globale il decremento sia stato di 70 milioni di esseri umani.
Gli Spagnoli non si dedicarono a un vero e proprio sterminio delle popolazioni native. Solo un numero relativamente esiguo di uomini venne ucciso direttamente, durante le guerre di conquista. Un numero un po' più elevato di esseri umani fu eliminato in seguito ai maltrattamenti messi in atto successivamente. Ma la gran parte delle vittime si ebbe a causa dello shock microbico, in particolare con l'introduzione (involontaria) del virus del vaiolo, fino ad allora sconosciuto in America.
Non bisogna comunque esimersi dall'evidenziare le atrocità messe in atto dagli spagnoli, utilizzando le testimonianze che gli stessi conquistadores o i missionari al loro seguito raccoglievano e conservavano. I racconti sono molto crudi. Emerge una violenza giustificata esclusivamente con il desiderio di arricchirsi velocemente.

A questo punto però è interessante raffrontare le crudeltà compiute dagli spagnoli e quelle che innegabilmente avvenivano anche fra gli Aztechi. In particolare Duràn racconta che in occasione dell'inaugurazione del nuovo tempio di Città del Messico vennero sacrificate 80.400 persone. Quali sono dunque le differenze esistenti tra la pratica del massacro e quella del sacrificio rituale? Il massacro si può definire delitto ateo, mentre il sacrificio sarebbe un delitto religioso. Quest'ultimo viene fatto in nome di un'ideologia ufficiale, sulla pubblica piazza, davanti a tutti. La scelta del sacrificato è fissata da regole rigorosissime: deve provenire dai paesi limitrofi, non deve far parte della comunità ma non deve neanche appartenere a popoli troppo lontani. Senza dubbio il sacrificato deve possedere qualità che lo rendano importante nella sua comunità, certamente non si catturano per i sacrifici personaggi invalidi o inetti. In definitiva un sacrificio rivela la forza del tessuto sociale di una comunità, cosa che invece non avviene per i massacri. Questi avvengono di solito in paesi lontani, dove la legge non può farsi rispettare rigorosamente. Si massacrano di solito coloro che non si conoscono, gli stranieri, l'identità del massacrato non è rilevante, non c'è un rituale né una funzione sociale dell'atto, al punto che si arriva a pensare che questo trovi la sua giustificazione in sé stesso. Gli europei, lontani dal poter centrale e liberi da ogni divieto, non incontrarono ostacoli ai loro massacri.
Utilizzando una definizione dello studioso bulgaro Tzvetan Todorov, nasce la dottrina della così detta ineguaglianza di tutti gli uomini, che di conseguenza fece sorgere una contro teoria detta dell'eguaglianza. Il dibattito fra le due teorie non mette in causa solo l'opposizione eguaglianza e ineguaglianza, ma anche quella fra identità e differenza che rende più difficile giudicare le due tesi contrastanti. Ciò che viene definito come differente, dice Todorov, inevitabilmente diventa ineguale e ciò che è eguale diventa identico. Entrambe le tesi, naturalmente, hanno degli estimatori e degli oppositori che si accusano vicendevolmente, cercando di smontare le teorie dell'avversario.

Il primo documento che Todorov esamina per cercare di delineare le caratteristiche delle due tesi è il Requierimiento, un testo scritto nel 1514 da Palacios Rubios allo scopo di fornire una base giuridica, non solo alla conquista, ma anche allo sterminio della popolazione. Il documento è chiaramente portatore di istanze riconducibili alla teoria dell'ineguaglianza, concetto che nel testo viene sottinteso. In particolare, si può notare come dopo aver esposto le ragioni per le quali il dominio spagnolo fosse giustificato, si pongono gli indigeni nella posizione di dover scegliere tra una condizione di schiavo per natura o per forza. L'inferiorità dello status dell'indigeno è implicita nel fatto che sono i conquistadores stessi che dettano le regole e le eventuali punizioni, così che gli spagnoli si pongono sin dall'inizio come superiori. Gli oppositori del Requierimiento hanno anche
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La persecuzione degli indios
evidenziato come il presupposto giuridico di tale testo, la religione cristiana fautrice dell'uguaglianza di tutti gli uomini, sia in contraddizione con l'idea che lo stesso documento esprime.
Uno degli esponenti di spicco tra gli avversari dei conquistadores, Francisco de Vitoria, nel tentativo di demolire le giustificazioni alle guerre condotte nelle Americhe, individua delle motivazioni per cui in alcuni casi le guerre giuste siano possibili. Egli ritiene che vi siano sostanzialmente due gruppi di ragioni che fanno si che una guerra sia giusta: le ragioni legate al principio di reciprocità e le ragioni dette della tutela.
Il primo gruppo di ragioni riguarda la violazione del diritto naturale di socievolezza e comunicazione, inteso come libertà di circolazione, commercio ed espressione. Lo studioso, nel proporre la sua argomentazione sottintende che anche gli indios abbiano il suddetto diritto, senza però spiegare come o quando ne abbiano effettivamente usufruito. In pratica de Vitoria, considerando i suoi valori cristiani come assoluti e universali, riconduce le pratiche indigene ad azioni di tirannia che, secondo il teologo e studioso di Salamanca, giustificano un'azione violenta da parte europea.
Il secondo gruppo di ragioni presenta gli indios come dei barbari non lontani dalla pazzia, dei bambini bisognosi di tutela. In questo modo gli europei andrebbero ad assumere, nelle loro azioni di conquista e distruzione, la funzione di tutori della popolazione indigena.
Francisco de Vitoria fornisce una base legale alle guerre di colonizzazione, sotto la copertura di un diritto internazionale basato sulla reciprocità. Quelli di Rubios e di de Vitoria sono due tentativi di porre una base giuridica all'inuguaglianza e a quel che ne consegue.

Il dibattito fra i sostenitori della teoria dell'eguaglianza e quelli della teoria dell'ineguaglianza ha il suo culmine nella celeberrima controversia di Valladolid, nel 1550, di cui furono protagonisti il filosofo Ginès de Sepulveda e il vescovo di Chiapas Bartolomé de Las Casas. La controversia avvenne in pubblico, cosa molto rara per quei tempi, davanti ad una pletora di giuristi, teologi e filosofi, perché a Sepulveda venne impedita la pubblicazione di una sua opera sulle giuste cause delle guerre.
Sepulveda, essendo un grande umanista e specialista di Aristotele, poggia le sue teorie sui enunciati filosofici espressi dallo stesso filosofo greco nella Politica, in base ai quali esisterebbero naturalmente delle differenze fra coloro che sono padroni e coloro che sono schiavi, coloro che differiscono fra loro quanto l'anima dal corpo. Sepulveda crede che la gerarchia sia lo stato naturale della società umana e non conoscendo altra relazione gerarchica che non quella di superiorità e di inferiorità, egli afferma che non esistono differenze naturali ma solo gradi diversi su una stessa scala di valori. Le sue teorie gerarchiche si basano sul principio della superiorità della perfezione sull'imperfezione, di modo che il corpo deve essere sottomesso all'anima, la materia alla forma, i figli ai genitori, la donna all'uomo. Egli associa gli indios ai bambini e alle donne, determinando così la loro inferiorità rispetto agli uomini, cioè agli spagnoli.
Sepulveda riconduce ogni gerarchia e ogni differenza alla semplice opposizione buono-cattivo, facendo appello al principio d'identità piuttosto che a quello di differenza. Egli propone una vasta gamma di opposizioni che si concatenano in progressione, partendo dall'opposizione tautologica male-bene, passando per le opposizioni che si basano su differenze biologiche per giungere in fine all'opposizione corpo-anima, che dimostra il passaggio tra l'altro interiore e l'altro esteriore.

Per Sepulveda, dunque, esistono quattro ragioni che legittimano la guerra, sintetizzabili nelle seguenti proposizioni: 1) É possibile assoggettare con la forza gli uomini che naturalmente sono soggetti ad essere in una condizione di obbedienza verso gli altri; 2) È legittimo mettere al bando il cannibalismo e i riti pagani; 3) È giusto salvare gli esseri umani innocenti che i barbari, selvaggi, sacrificano sugli altari; 4) È giusta la guerra che apra la strada alla propagazione della fede cristiana.
In seguito a questa enunciazione Sepulveda propone un postulato, che possiamo definire prescrittivo, in base al quale gli spagnoli hanno il diritto, anzi il dovere, di imporre il bene agli indigeni. Bisogna sottolineare che il bene da imporre agli altri è quello fondato sui valori cristiani ed europei, così che è facile identificare i "miei" valori con "i" valori.
Nel ragionamento di Sepulveda, e in particolare nelle quattro proposizioni sulla guerra giusta, si possono riscontrare alcuni dati empirici, come ad esempio i sacrifici umani, la differenza di usi e costumi e la tendenza naturale degli indiani all'obbedienza. Di contro il dato discriminante è un'asserzione difficilmente riscontrabile empiricamente, cioè l'identificazione dei valori cristiani coi valori in assoluto. In seguito a tale identificazione, la vita o la morte di un essere umano diventano degli accessori irrilevanti davanti all'assoluto della fede cristiana e quindi della salvezza delle anime. Per Sepulveda, in sostanza, la morte di migliaia di persone non conta quanto la salvezza di un'anima. Quest'affermazione è uno dei punti di contrasto più forti che il filosofo avrà con Las Casas, che invece conferisce un valore superiore alla morte di un uomo piuttosto che alla salvezza della sua anima, andando ad assumere un posizione teologica proto-moderna.

Sepulveda, per rafforzare le sue argomentazioni, studia la società indiana molto
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approfonditamente, cercando le differenze rispetto alla società europea, evidenziandole e ponendole a giustificazione delle imprese e alle azioni di forza. Egli si sofferma sulla predominanza delle tradizioni orali al posto della scrittura, evidenziando la centralità del rituale in ogni ambito della società che implica il predominio della presenza sull'assenza e dell'immediato sul mediato. Il linguaggio esiste solo per l'altro, la cui presenza è misurata dal posto che questo assume nel sistema simbolico.
Per descrivere il funzionamento del simbolismo nella mentalità azteca si può utilizzare la descrizione, raccolta da Duran, di un sacrificio umano. In un primo tempo il prigioniero, destinato al sacrificio, diveniva letteralmente il dio, assumendone in tutto e per tutto le sembianze, in quanto era necessario sacrificare una vera e propria rappresentazione della divinità. Sembra mancare, a questo punto, la distanza necessaria al funzionamento del meccanismo simbolico, il simbolo non è realmente separato dal simboleggiato.
L'enfasi sulle caratteristiche tribali e simboliche della società azteca comporta la constatazione della sua inferiorità rispetto a quella europea; gli europei sono superiori non solo nella tecnologia utensile ma anche in quella del simbolismo.
L'interesse di Sepulveda per gli indios è debole, in quanto si riconduce esclusivamente alla dimostrazione della loro inferiorità e le sue argomentazioni sono ricche di giudizi di valore, che finiscono per viziare le sue analisi. Le informazioni, su cui poteva contare lo studioso, sono falsate dai giudizi di valore, che identificano le differenze con l'inferiorità.

Il contendente di Sepulveda nella controversia di Valladolid, Las Casas, prende come riferimento per le sue argomentazioni i valori cristiani di eguaglianza come principio fondante della fede. Egli non è il solo a difendere i diritti degli indiani. La maggior parte dei documenti emanati dalla corona spagnola dell'epoca si pronunciava in questa direzione. Si può proporre ad esempio l'ordinanza di Carlo V del 1530 oppure le nuove leggi del 1542 sul governo delle colonie, in cui si condanna energicamente la riduzione in schiavitù degli indios.
Las Casas adotta queste posizioni e pone l'eguaglianza alla base di ogni azione umana, arrivando ad affermare la reale eguaglianza tra "noi", gli spagnoli, e gli "altri", gli indigeni (anche se in Las Casas permarrà costantemente un'ambiguità di fondo nel suo atteggiamento verso gli indios, influenzato da un moto interiore teso all'evangelizzazione).
Il Vescovo di Chiapas afferma che essendo il cristianesimo universalista, esso comporta una sostanziale in-differenza di tutti gli uomini, avvicinandosi, in questo modo all'assimilazionismo affiorante nelle affermazioni di San Giovanni Crisostomo, quando sostiene che la grazia divina può modificare lo spirito dei barbari, dotandolo di intelletto razionale.
Las Casas constata che, dal punto di vista dottrinale, la religione cristiana può essere adottata da tutti, dopo di che afferma che tutte le nazioni sono destinate alla religione cristiana. Si ripete continuamente che gli indiani sono già dotati di caratteristiche cristiane e che non aspirano ad altro che a far riconoscere il loro cristianesimo selvaggio. Nelle descrizioni di Las Casa si esalta la docilità dei selvaggi e la loro predisposizione ad essere guidati. In questa percezione Las Casas si avvicina alla percezione di Colombo e al mito del buon selvaggio. Egli rileva la mitezza e la tranquillità degli indiani, non solo nel loro stato psicologico ma anche nella loro configurazione culturale e sociale. Egli spiega i comportamenti docili e obbedienti degli indigeni col semplice fatto che questi si comportano come buoni cristiani, esaltando l'indifferenza degli indiani per i beni materiali, con la conseguente scarsa disposizione all'arricchimento e al lavoro, spiegandola esclusivamente con la morale cristiana.

Per Las Casas nessuna pratica o usanza degli indigeni dimostra la loro inferiorità rispetto agli europei o comunque rispetto alle altre popolazioni del mondo. Egli affronta ogni fatto basandosi su alcune determinate categorie, che rendono il risultato del
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Gines de Sepulveda
confronto già deciso in anticipo, così che può ricavarsi un ritratto degli indiani molto più povero rispetto a quello proposto da Sepulveda. In sintesi, può affermarsi che sia il pregiudizio di inferiorità che il pregiudizio dell'eguaglianza rappresentano un intralcio, al fine di fornire una descrizione e una conoscenza completa della società indiana americana.
L'unica opposizione che Las Casas presenta come basilare ad ogni conflitto è quella che oppone il fedele all'infedele. La caratteristica rivoluzionaria del suo pensiero risiede nell'identificare l'altro, gli indigeni, col polo positivo dell'opposizione, mentre associa il disvalore con gli europei. Nonostante il rovesciamento nella distribuzione dei valori è innegabile che il ragionamento di Las Casas sia molto schematico, in particolare nelle analogie che egli utilizza per descrivere gli scontri fra gli indiani e gli spagnoli. Nella prefazione alla sua Brevissima relazione della distruzione delle Indie, gli europei sono rappresentati come lupi che si insinuano in un ovile pieno di pecorelle, dotate dal Creatore di moltissime e bellissime qualità.
Bisogna sottolineare, inoltre, il modo in cui Bartolomé de Las Casas utilizza il concetto di "altro" rispetto a un popolo più vicino come quello Turco, per porre ulteriori elementi di giustificazione al suo atteggiamento sostanzialmente positivo verso gli indios. Egli non manca di sottolineare la barbarie dei musulmani, che non possono essere considerati dei cristiani inconsapevoli. Las Casas utilizza il suo metro di valori anche nel giudicare gli spagnoli delle " Indie ", che vengono identificati con il demonio, o meglio essi sono uomini posseduti dal demonio, che non riconoscono più il significato effettivo della religione cristiana, così che in effetti finiscano per vivere nel nuovo mondo senza religione.
Quando si tratta, in definitiva, di esprimere le differenze tra gli indiani e gli europei, Las Casas si affida a una terminologia, che noi oggi chiameremmo evoluzionista. Gli indigeni sono come gli europei erano tanto tempo prima, quando ancora non avevano conosciuto la parola del Cristo. Il passaggio logico successivo centra in pieno il postulato della teoria dell'uguaglianza per cui la non-differenza finisce per diventare identità, gli indigeni sono identici agli spagnoli e il tempo dimostrerà che il loro spirito inconsapevolmente cristiano li farà diventare migliori di quanto sia in quel momento.
BIBLIOGRAFIA
  • La conquista di un testo,"Il requerimiento", di S. Benso - Roma 1989;
  • Aristotle and the American-Indian, di L. Hanke - Londra 1970;
  • Verso il nuovo mondo. La dimensione e la coscienza delle scoperte, di F. Surdich - Firenze 1991;
  • La conquista dell'America: il problema dell' "altro", di T. Todorov - Torino 1984;
  • L'Amérique latine, philosophie de la conquête, di S. Zavala - Parigi 1977