Intellettuale scomodo, ha fatto dello studio del nazismo e della denuncia dei progetti di palingenesi comunista i suoi cavalli di battaglia. Un percorso che emerge dalle sue opere più importanti
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Joachim Fest, uno storico contro le utopie totalitarie
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di FRANCESCO PAOLO LEONARDO
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La profonda cesura epocale determinata dalla caduta dell'impero sovietico e dal crollo del regime comunista non ha soltanto modificato la geopolitica mondiale ma ha anche rivoluzionato i modelli concettuali e le categorie utili a capire gli accadimenti storici. Joachim Fest, storico e giornalista tedesco scomparso nel 2006, ha evidenziato con lucidità in numerose sue opere il punto di svolta rappresentato dal 1989 nell'interpretazione del futuro della società aperta e dell'ordinamento democratico.
Nel saggio dal titolo Il sogno distrutto, pubblicato in Italia da Garzanti nel 1992, Fest descrive tramite un'acuta analisi storico-politica i meccanismi che hanno portato dopo il 1989 alla fine dell'età delle utopie. Il filo del discorso viene ripreso nell'opera La libertà difficile, uscita quattro anni dopo sempre per Garzanti, in cui lo storico tedesco riprende il tema della caduta del regime comunista approfondendo i possibili sviluppi e le ripercussioni sul futuro dell'ordinamento liberale. Fest, in particolare, pone l'accento sulle debolezze delle cosiddette "società aperte" alla luce della fine dell'età delle utopie culminata col crollo del colosso sovietico. In questo frangente il termine "utopia" non va inteso nella sua accezione convenzionale, ovvero come progetto irrealizzabile, bensì come «definizione di un sistema sociale concluso, mentalmente prefigurato, che promette all'uomo uguaglianza, giustizia, benessere e libertà e, in aggiunta a tutto questo, anche una risposta al senso del suo operare e, con essa, una specie di redenzione da ogni male, già su questa terra».
Secondo Fest ciò che ha contraddistinto l'epoca delle utopie è stata la fede nell'idea che l'uomo potesse concretamente superare le difficoltà dovute all'imperfezione della sua condizione, riuscendo a rimodellare la realtà. La prima espressione dell'idea utopistica è rintracciabile addirittura nella Politeia di Platone. Molti secoli dopo, all'Utopia di Tommaso Moro si ricollegò perfino un genere letterario: all'inizio del Cinquecento, infatti, la nascita degli Stati moderni e la diffusione dei principi economici capitalistici indusse gli uomini a cercare delle risposte di fronte a quei rivolgimenti storici che quell'epoca stava promuovendo. Si iniziò così a immaginare una società libera da malgoverno e conflitti sociali, in una terra ancora inesplorata (ricordiamo che siamo nell'era delle grandi scoperte geografiche), dove gli uomini potessero convivere in armonia e giustizia. Svelato l'elemento palesemente irreale che si nascondeva dietro queste prime utopie, a partire dalla fine del XVIII secolo, partiti, leghe, sette e confraternite alimentarono questa speranza cercando di trasferirla al mondo reale. Questa volta, però, la fede negli ideali dell'utopia perse l'innocenza di un tempo abbandonandosi a pretese di onnipotenza demiurgica, con l'uomo posto saldamente a fare le veci del Creatore.
Figlio della Rivoluzione francese (il primo tentativo di tradurre quelle idee in realtà), il secolo successivo, l'Ottocento, fu la stagione della politicizzazione/degenerazione delle utopie. Lo sviluppo delle scienze naturali, unito al rapido susseguirsi di scoperte scientifiche e invenzioni tecniche, rafforzò sempre di più la convinzione dell'uomo di poter costruire il mondo secondo le leggi umane, intervenendo sugli sbagli commessi dal creatore biblico. L'Illuminismo aveva stravolto la lezione del Cristianesimo, al quale risultava estranea la concezione di un mondo redento nella vita terrena. Così l'utopia divenne un modello di azione politica, ricevendo un ulteriore spinta dal processo di industrializzazione e quindi dal progresso dell'umanità. Gruppi inizialmente di origine settaria si organizzarono in potenti movimenti: provenienti originariamente dall'ala del socialismo radicale, rivendicarono principalmente l'abolizione della proprietà privata, individuata come la radice di tutti i mali. Al progetto di un mondo nuovo si affiancò quello di un uomo nuovo.
Lo sviluppo della dottrina nazionalista all'alba del XX secolo farà il resto, orientando il pensiero utopico verso due direzioni: la prima si concretizzerà in Russia, con la Rivoluzione bolscevica, la seconda risentirà delle conseguenze della prima guerra mondiale, prendendo forma nei regimi autoritari e totalitari formatisi fra i due conflitti. Intrecciate, ma al contempo antagoniste, queste due esperienze raduneranno al loro seguito milioni di seguaci, imponendosi come dottrine chiuse, dotate di una propria morale e di un proprio modello di uomo e di società.
Il modello fascista di utopia scatenerà una guerra mondiale a cui non sopravvivrà. Il secondo grande tentativo utopico del secolo si arrenderà soltanto nel 1989, privando il mondo liberale del suo punto di riferimento in negativo. Con il tramonto del comunismo l'Occidente ha perso, secondo Joachim Fest, molto più di un avversario: la contrapposizione tra liberalismo e totalitarismo aveva infatti conferito ai paesi democratici quel supporto e quella coesione necessari a far fronte a un nemico tanto temibile. Fino a quando gli Stati liberali si erano potuti confrontare con il regime comunista, le loro debolezze erano rimaste in secondo piano. Scomparso quello che Ronald Reagan definì «l'impero del male», queste si manifestarono apertamente. La caduta dell'avversario storico ha imposto alla società democratica una scelta senza appello: o l'ordine liberale trova in se stesso le energie che prima gli erano state conferite dall'esterno, giungendo a una più forte consapevolezza di sé, oppure dovrà cedere allo svilimento dei valori e al dilagare dell'egoismo, dando vita a un regime di futilità incapace di percepire l'esistenza di principi e di assumersi responsabilità.
L'esistenza del gigantesco impero sovietico aveva per decenni nascosto le debolezze e i pericoli insiti nell'ordinamento libero: fra questi è opportuno citare la crescente indifferenza nei confronti del problema dell'esistenza, per il quale l'uomo moderno si aspetta al contrario un'indicazione di soluzione, l'estensione smisurata della libertà fine a se stessa, la diffidenza nei confronti della politica moderna, la ricerca sfrenata del benessere, lo smantellamento di norme e vincoli di coesione, l'inefficienza delle istituzioni e in particolare la loro incapacità di venire incontro ai bisogni della gente. Il dilemma dell'ordinamento liberale risulta così insito nella sua stessa natura: il grande potenziale di seduzione esercitato dalla dottrina marxista, per non parlare del seguito popolare ottenuto dai regimi autoritari e totalitari fioriti fra le due guerre mondiali, si basava, sin dalle sue origini, sulla possibilità di offrire una precisa interpretazione del mondo, presentata dalla propaganda come una sorta di pseudoreligione che non conosce alcun tipo di lacune o fraintendimenti. Grazie all'elemento dell'utopia l'uomo avrebbe avuto sempre in primo piano quelle certezze e quella fede di cui ha sempre bisogno. La costante ricerca di una società idealmente ordinata, le antichissime nostalgie che richiamavano l'avvento di un uomo nuovo e di un'età dell'oro, fino alla convinzione di vivere in un'epoca segnata dal destino, sorretta dalle leggi della storia, tutto ciò avrebbe tenuto a bada qualsiasi lamento prodotto da condizioni di ingiustizia sociale e di mancanza di pace.
Per scongiurare le devastazioni e le montagne di cadaveri prodotte dal tentativo di tradurre l'utopia in realtà, Fest sottolinea come prima o poi anche per la comunità liberale occidentale potrebbe arrivare il giorno in cui i vantaggi della vita sicura, della libertà di consumo e delle occasioni di guadagno verranno considerati insufficienti. L'esigenza di una fede, di una promessa, o quanto meno di un'idea trascendente, utile all'uomo per confrontarsi con le mille difficoltà che ci impone la vita, è sopravvissuta alle cesure storiche degli ultimi decenni. Fest si spinge oltre, ritenendo che «i bisogni di fede e di promessa esistenziale che il socialismo aveva fatto propri ora, dopo la sua fine, non hanno più riferimento e non attenderanno a lungo il momento di indossare nuove uniformi e di incamminarsi dietro nuove bandiere, verso nuovi fantastici regni». Nonostante le montagne di cadaveri alle spalle, infatti, l'addio all'utopia non è certo un passo semplice: il fallimento del comunismo non è che l'ultimo atto di una trama fatta di continue disillusioni. Non è escluso, anzi, per lo storico tedesco è persino probabile, che nel clima di smarrimento tipico delle società aperte, l'uomo, tormentato dalle paure del futuro, si lasci sedurre da quelle teorie intese a spiegare il mondo che non solo offrono interpretazioni plausibili ma che propongono anche di risollevarlo dalla sua anonimato. La prospettiva apocalittica di una resa dei conti finale, che costituì il lato oscuro e allo stesso tempo affascinante dei grandi progetti utopici, tende a essere accantonata fino a quando non trova un cospicuo e ostinato consenso di massa.
In una società in cui, però, le istituzioni tradizionali (prime fra tutti la scuola, le chiese, i teatri, fino agli stessi media) non sanno quasi più qual è il proprio ruolo, in cui i governi si rapportano ai cittadini solo in funzione di riforme sindacali e di welfare, in cui ci si culla sulla sicurezza fittizia fornita dai vantaggi di una vita agiata, della libertà di consumo e delle occasioni di guadagno, confondendo la democrazia col benessere, in queste circostanze potrebbe, secondo l'intellettuale berlinese, emergere nuovamente il desiderio di capi carismatici, la cui capacità di seduzione non si è esaurita fino in fondo nonostante tutte le catastrofi del passato. I fascismi di qualsiasi tipologia, anche religiosi, sono la grande tentazione nelle condizioni di transizione, in cui le tradizionali forme di vita si disintegrano e le nuove forme di vita non si sono ancora sviluppate. La situazione si fa ancora più allarmante se si considera che l'ordinamento liberale si è mostrato il sistema politico più vulnerabile e meno preparato a contrastare le minoranze decise a contestarne le regole.
«Le tendenze al disfacimento stanno avanzando», sostiene Joachim Fest, tanto più se consideriamo che la democrazia si basa su un complesso di diritti e di norme di comportamento contrari alla natura umana e che a fronte di tali limitazioni non si individua come corrispettivo nessuna grandiosa visione del mondo futuro, se non la convivenza dignitosa fra uomini a cui non è stata delegata alcuna missione storica. Il pensiero liberale, infatti, accetta non solo l'imperfezione del mondo e dell'uomo, ma tiene anche conto dell'inevitabilità delle contraddizioni, delle passioni e dei conflitti. Per questo non potrà mai esistere un'utopia liberale. Non è casuale per Fest che l'interminabile riflessione sulla società ideale, che si protrae ormai da secoli, non abbia mai concepito come sistema una comunità aperta. L'idea utopistica prescinde dal singolo individuo, individuando un ordine assoluto che sottomette i suoi interessi e che accelera di conseguenza lo sviluppo delle tendenze totalitarie.
Queste riflessioni di Fest suscitarono un notevole scalpore in Germania, anche perché in quel periodo (siamo a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta), risuonava ancora forte l'eco dell'Historikerstreit, traducibile come "disputa" o "controversia fra gli storici". Tale dibattito storiografico aveva affrontato alcuni tra i più rilevanti problemi legati all'interpretazione e alla spiegazione del nazismo, evidenziando non solo la sensibilità dell'opinione pubblica tedesca verso la storia più recente, ma anche la difficoltà nel confrontarsi con essa senza lasciarsi influenzare da presupposti ideologici.
Dal 1973 al 1993 Fest fu condirettore e responsabile della redazione culturale dell'illustre Frankfurter Allgemeine Zeitung, l'unico giornale nel mondo appartenuto a una fondazione e con al vertice un team di sei direttori. Proprio dalle colonne del suo quotidiano, il 6 giugno 1986, Ernst Nolte, intellettuale di formazione filosofica (fra i suoi maestri vi era Martin Heidegger), pubblicò un articolo dal titolo "Il passato che non vuole passare" con una visione rivoluzionaria del nazionalsocialismo. Nell'articolo Nolte ribadiva una serie di convinzioni espresse nelle sue opere (tra cui I tre volti del fascismo, Nazionalismo e bolscevismo, fino al più recente Gli anni della violenza): il nazionalsocialismo e i suoi crimini furono una conseguenza della rivoluzione d'ottobre in Russia e della sua successiva politica del terrore; una reazione, praticata attraverso mezzi simili, alla vittoria dell'ideologia bolscevica.
L'allievo di Heidegger sottolineava il grande impatto emotivo suscitato in Europa dal bolscevismo russo, interpretato come una minaccia di annientamento. La borghesia tedesca non costituiva un'eccezione e, secondo la nebulosa concezione di Nolte, fu proprio la paura della distruzione della minoranza borghese, fomentata dall'urto delle masse operaie, a spianare la strada a Hitler. Nolte riconduce le lotte sanguinose e le lacerazioni che hanno caratterizzato il Novecento, dagli anni della Grande guerra fino al crollo del regime sovietico, alla contrapposizione tra i due totalitarismi, comunismo e fascismo, quest'ultimo considerato come una semplice reazione al primo. Lo sterminio della borghesia russa e dei proprietari terrieri (i cosiddetti Kulaki) non soltanto precedette lo sterminio di massa degli ebrei, ma ne fu anche la causa scatenante.
Nolte si inserisce così in quella forte tendenza neoconservatrice, di cui si fece portavoce la giovane generazione tedesca postbellica. Un po' come negli Stati Uniti con Reagan o in Inghilterra con la Thatcher, anche in Germania negli anni Ottanta, in concomitanza col governo Kohl, si registrò una sorta di reazione alle correnti di sinistra fortemente presenti nella vita intellettuale del Paese fin dagli anni Sessanta e Settanta, tanto che anche Fest si servirà spesso delle colonne del suo quotidiano per denunciare le correnti estremiste, soprattutto di sinistra, sviluppatesi nella società di quel tempo. Le idee espresse da Nolte scatenarono un vero e proprio putiferio: a suo sostegno si mossero Klaus Hildebrand e soprattutto Andreas Hillgruber, uno fra i massimi esperti della storia della seconda guerra mondiale, mentre sul fronte opposto Jürgen Habermas accuserà di neorevisionismo il gruppo degli storici conservatori. Questi ultimi, a parere di Habermas, sminuivano le atrocità commesse dai nazisti equiparandole ai crimini staliniani. L'obiettivo sarebbe stato quello di indurre l'opinione pubblica a un ripensamento generale del nazionalsocialismo in favore di una ridefinizione, orientata in senso conservatore, di quei tragici fatti.
Hans Ulrich Wehler rincarò la dose scagliandosi contro quella tendenza interpretativa che vedeva in Hitler l'unico responsabile dell'Olocausto, ridimensionando il ruolo delle vecchie élite al potere, della Wehrmacht, dell'amministrazione, della giustizia e di tutti coloro che erano al corrente di ciò che succedeva nei campi di concentramento. Il dibattito suscitò un interesse notevolissimo nella Germania occidentale di fine anni Ottanta e non di rado i protagonisti si lanciarono in aggressivi attacchi personali. I media dell'epoca diedero grande risalto alla controversia che assunse toni sempre più aspri, coinvolgendo anche storici appartenenti alle generazioni più giovani.
Alla disputa non si sottrasse Joachim Fest che, sposando la causa dei conservatori, giocò un ruolo fondamentale nel contesto dell'Historikerstreit approvando la pubblicazione dell'articolo di Nolte e inaugurando di fatto il dibattito. Il 3 marzo del 1988 la Frankfurter Allgemeine Zeitung prese posizione ancora più apertamente, elogiando l'originalità del pensiero di Nolte. D'altra parte le ruggini tra Fest e le correnti di sinistra tedesche avevano radici profonde: già dai tempi del suo servizio presso l'NDR (Norddeutscher Rundfunk) , infatti, lo storico aveva mostrato di mal sopportare pressioni di tipo politico.
Una eco di quelle vicissitudini si trova anche nella bella autobiografia di Fest, Io no, in cui lo storico attaccò Habermas accusandolo di aver aderito al regime nazista. La notizia si rivelò infondata e il tribunale di Amburgo decise di ritirare provvisoriamente dal commercio il volume per espungere il passaggio giudicato diffamatorio.
Nella parte finale delle sue memorie, lo storico berlinese ricorda come gli anni trascorsi sotto la dominazione nazista gli avessero insegnato a diffidare dall'opinione dominante, anzi addirittura a opporsi a essa. «La tentazione del comunismo - scrive Fest - non mi ha mai seriamente sfiorato, benché molti stimati coetanei, in alcuni casi quasi amici, abbiano almeno per qualche tempo ceduto alle sue seduzioni. [...] Il comunismo è riuscito a impedire, anche alla lunga, ogni equiparazione con il nazionalsocialismo. E' stato ed è il suo maggior successo propagandistico». Del resto, il regime comunista della Repubblica democratica tedesca si presentò nella vita di ogni giorno molto più oppressivo della dominazione hitleriana: ma se da un lato è noto a tutti il numero delle vittime sacrificate al programma di sterminio nazista, sulle vittime e sul clima di oppressione vissuto per quattro decenni nella Rdt si conosce molto poco. Così come poco note al grande pubblico sono le dimensioni dello sterminio dei Kulaki avvenute in Unione Sovietica negli anni Trenta.
Fu il rispetto della verità storica e l'odio per le ipocrisie a rendere Fest uno dei principali protagonisti della cultura tedesca del dopoguerra. Per tutta la vita rimase un uomo discreto, lontano dalla ribalta mediatica (rare le sue apparizioni in televisione, altrettanto rare le sue interviste), un intellettuale restio alla contaminazione con le ideologie dell'epoca a lui contemporanea e con le tendenze del presente. Interpretò il mestiere dello storico non come custode di una memoria ufficiale, condivisa dai più, ma come una cronaca, una ricostruzione dei fatti il più possibile aderente alla realtà. Questa sua capacità gli consentì di svelare aspetti del nazismo ancora sconosciuti, in un'epoca in cui si credeva che sul tema fosse stato detto tutto e il contrario di tutto e l'opinione pubblica mondiale, tedesca in particolare, si cullava in questa certezza.
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BIBLIOGRAFIA
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Il sogno distrutto, di J. Fest - Garzanti, Milano 1992
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La libertà difficile, di J. Fest - Garzanti, Milano 1996
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Io no, di J. Fest - Garzanti, Milano, 2007
-
Dossier Hitler, di J. Lukacs - TEA, Milano 2000
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"Il passato che non vuole passare", di E. Nolte, in Germania: un passato che non passa, a cura di G. E. Rusconi - Einaudi, Torino 1987
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