I sogni imperiali di Mussolini si infransero contro la realtà dei fatti, e cioè l'impreparazione dell'esercito e la durissima resistenza greca. La "guerra parallela", oltre a rivelarsi un clamoroso bluff, segnerà la definitiva sottomissione a Hitler.
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La mattina del 10 giugno del 1940 Galeazzo Ciano, genero di Benito Mussolini, nonché Ministro degli Esteri del Governo fascista, consegnava la dichiarazione di guerra agli Ambasciatori di Francia e Gran Bretagna. Lo stesso Mussolini visse lunghe e dolorose titubanze, ma alla fine cedette e scelse l'opzione bellica: a spingerlo furono non solo le minacce più o meno velate dell'alleato tedesco, ma anche i trionfi della macchina da guerra nazista, capace in poche settimane di occupare la Polonia, la Norvegia e la Danimarca e di sferrare un attacco inarrestabile sul fronte occidentale, attacco che stava portando rapidamente la Francia al collasso. Anche il Belgio e l'Olanda erano cadute sotto la croce uncinata del Reich germanico. Il Duce era convinto che la guerra fosse già alle sue ultime battute e che essa avrebbe portato, in breve tempo, a una pace generalizzata. Questo calcolo rafforzò ulteriormente la sua convinzione della necessità di un diretto contributo italiano al conflitto, pena lo scadimento dell'Italia a potenza "vassalla" in un'Europa ridisegnata dai tedeschi vincitori.
In un promemoria, Mussolini stendeva e pianificava tale decisiva convinzione, introducendo il concetto di "guerra parallela": l'Italia avrebbe combattuto sì con gli alleati tedeschi, ma perseguendo obiettivi autonomi e indipendenti. Lo scopo era di creare una sfera egemonica in Africa e nel Mediterraneo, sfera da far poi pesare durante i futuri negoziati di pace quando il conflitto si sarebbe concluso con la scontata vittoria dei nazisti (detto per inciso: l'11 ottobre del 1940 Hitler annunciava di aver dato "protezione ai campi petroliferi rumeni". Il Duce andò su tutte le furie, ma, come al solito, ingoiò il rospo ". Questa volta lo pago della stessa moneta. Saprà dai giornali che ho occupato la Grecia"). Mussolini, d'altronde, non era mai stato esente da progetti bellicosi. Già nell'estate 1933 con 300.000 uomini voleva invadere la Francia. Nel gennaio dello stesso anno aveva in programma una spedizione punitiva contro la Jugoslavia. A farlo desistere dai suoi propositi guerrafondai ci pensò l'allora Ministro della Guerra, il generale Pietro Gazzera, un militare con i piedi ben saldi per terra (G. Novero. Mussolini e il generale. Rubettino, 2009). La disfatta libica e la perdita delle colonie africane furono autentici macigni che cominciarono a spezzare la fiducia degli italiani verso il regime. Le ambizioni del Duce e la vanagloria egoista di alcuni gerarchi e della casa reale stavano portando l'Italia al dramma più nero.
Ma prima un'ulteriore catastrofe era avvenuta. La catastrofe seppellì per sempre il mito della "guerra parallela" e condannò l'Italia e il fascismo al suo triste destino. Questo iniziale tracollo fu l'avventato attacco italiano alla Grecia.
L'errore più grossolano e gravido di conseguenze di Mussolini nel disastroso biennio 1940-41 fu proprio prendere la decisione di attaccare sconsideratamente la penisola ellenica: fu una scelta fatta con incredibile leggerezza, non condizionata da motivazioni strategiche o militari, ma per una semplice smania di prestigio personale. Anche qui il Duce, come nel caso della Francia, pensava a una "passeggiata" che avrebbe procurato facile gloria e pingue bottino. Anche qui i fatti avrebbero smentito tragicamente le sue presunzioni. L'Albania sarebbe stata la base di partenza per l'offensiva dell'esercito regio e ciò fece entrare pesantemente in gioco il genero di Mussolini, Galeazzo Ciano. Questi considerava il Paese delle aquile come proprio feudo personale e appoggiò caldamente il progetto del suocero, convinto che esso gli avrebbe portato nuovi meriti e nuove ricchezze. L'egoismo e l'opportunismo di Ciano fecero più danno delle stesse ambizioni del Duce: infatti, persino la preparazione logistica e strategica dell'impresa contro la Grecia fu fatta con un pressappochismo dilettantesco, badando solo agli aspetti puramente propagandistici.
Non si valutarono a sufficienza le zone dove si sarebbe dovuto iniziare l'attacco, ci si fidò delle chiacchiere astruse e senza senso di Ciano che blaterava di un Governo greco corrotto e instabile, facile quindi da abbattere, e non si sottoposero al vaglio critico le informazioni raccolte sulle capacità difensive/offensive dell'esercito greco. Inoltre, ogni decisione fu affrettata per impedire decisivi interventi di Hitler il quale aveva già fatto sapere all'alleato fascista di essere contrario a qualsiasi operazione militare italiana nei Balcani. Essa avrebbe offerto agli inglesi l'occasione di intervenire massicciamente in quest'area, mettendo in pericolo i campi petroliferi della Romania necessari all'imminente attacco che i nazisti avrebbero sferrato di lì a poco contro l'URSS (Operazione Barbarossa, 22 giugno del 1941). Ma il Duce voleva farla pagare all'alleato che aveva fatto scoppiare la seconda guerra mondiale senza consultare minimamente il Governo italiano a lui legato da un Patto d'Acciaio. Fece quindi di testa sua, cambiando completamente il panorama generale del conflitto. L'aggressione militare italiana alla Grecia provocò, infatti, tutta una serie di eventi a catena: mise in movimento l'intera situazione dell'Europa sudorientale, permise agli inglesi di installarsi a Creta e in altre importanti località dell'Egeo (da cui furono poi cacciati con grande difficoltà), contribuì a un mutamento importante nella politica jugoslava che costrinse la Germania a un intervento militare violento e indesiderato in Jugoslavia, soprattutto fece rinviare di cinque decisive settimane la già prevista Operazione Barbarossa contro l'Unione Sovietica. Ma, aldilà del quadro storico, non bisogna dimenticare che le conseguenze peggiori dell'avventato comportamento mussoliniano furono pagate dai nostri poveri soldati inviati sul fronte greco per combattere un'impari lotta numerica.
Che cosa avrebbero detto e fatto o lasciato fare i greci minacciati dall'invasione imminente non aveva la benché minima importanza. Gli dei dell'Olimpo mussoliniano avevano già deciso per loro e tutto ciò era più che sufficiente. Indro Montanelli, definì la campagna di Grecia come "una smargiassata di Mussolini". La smargiassata costò: 13.755 morti; 50.784 feriti; 12.638 congelati; 25.067 dispersi; 52.108 invalidi. Questi sono i frutti "del piano logico e convincente" elaborato dalla diplomazia fascista dell'epoca, messo a punto da Mussolini e da Ciano, avallato dal generale Sebastiano Visconti Prasca (comandante delle truppe in Albania) ed accettato da Pietro Badoglio (capo di Stato Maggiore) senza alcuna reticenza. "Assassini, Assassini, mille volte assassini...", scriveva a casa sua un soldato italiano dalla Grecia nel lontano dicembre 1940.
Già nel 1939 il generale Alfredo Guzzoni (comandante del corpo di spedizione italiano in Albania) aveva elaborato un piano simile che avrebbe richiesto tre mesi di preparazione e venti divisioni, ma Mussolini e Ciano avevano stabilito un attacco rapido, una guerra lampo, "alla tedesca", da iniziare con poche divisioni ed entro dieci giorni al massimo, basandosi su supposizioni azzardate se non assurde: a) che i greci non avrebbero combattuto perché il popolo odiava il suo Governo dittatoriale filo-inglese; b) che Ciano aveva speso vari milioni di lire per corrompere i generali ellenici (ma, a sua insaputa, lo stesso avevano fatto gli inglesi); c) che gli abitanti della Ciamuria (parte dell'Epiro), a maggioranza albanese, si sarebbero sollevati contro i vicini ostli; d) che i bulgari sarebbero intervenuti nel conflitto italo-greco a fianco di Mussolini, occupando Salonicco e la Grecia orientale; e) che le truppe albanesi, integrate nell'esercito italiano, avrebbero dato un contributo importante all'impresa sia perché conoscevano bene il terreno, sia perché volevano liberare la Ciamuria albanese; f) che gli inglesi, infine, date le scarse forze che avevano in Africa per difendere l'Egitto, non sarebbero intervenuti in aiuto del popolo greco. Tutte queste supposizioni risultarono false od errate. Ma Mussolini ebbe il coraggio di affermare: "L'operazione è stata preparata fin nei minimi dettagli ed è perfetta per quanto umanamente possibile.".
I greci, come era logico, combatterono eroicamente per difendere la loro Patria minacciata dall'improvvisa invasione. Furono guidati da generali capaci strategicamente e tatticamente. I milioni di Ciano furono forse intascati, ma tutti fecero il dovere del soldato armato contro lo straniero invasore. Re Boris di Bulgaria affermò pubblicamente che non sarebbe mai intervenuto nel conflitto in corso. Gli abitanti della Ciamuria non si sollevarono. Le truppe albanesi, dopo le prime batoste ricevute, disertarono quasi subito. Abbondanti aiuti inglesi giunsero in soccorso dei greci aggrediti dagli italiani. Come se tutto questo non bastasse non c'erano in Albania le venti divisioni calcolate da Guzzoni, ma solo sette: "Ferrara", "Centauro", "Siena", "Litorale", "Julia", "Parma" e "Piemonte" (le ultime due posizionate a difesa della conca di Koritza, Albania del sudest, nel caso in cui fossero apparse, anche se i nostri competentissimi generali lo scartavano a priori, truppe greche dalla Macedonia e dalla Tracia). Cosicché con molte meno divisioni di quelle impiegate contro gli abissini si sognava un blitzkrieg, "un'azione rapida e travolgente" che distruggesse le forze avversarie in modo da "spezzare le reni alla Grecia", come disse con enfasi più volte il Duce ai suoi collaboratori e a tutta la poco irenica nazione italiana.
Emanuele Grazzi, Ambasciatore italiano ad Atene, aveva avvertito che i soldati greci mobilitati erano più di 250 mila. La maggior parte si trovavano alle frontiere pronti a combattere contro gli invasori, ma non fu minimamente ascoltato (al suo rientro in Italia fu addirittura emarginato). In totale le nostre sette divisioni avevano un effettivo di 87 mila uomini. Il Duce pensò anche, secondo l'uso e il costume dei tedeschi, d'ordinare un incidente di frontiera, facendo credere che i greci l'avessero causato. Voleva gettare un po' di fumo negli occhi dell'opinione pubblica mondiale. Ciano chiese a Mussolini: "Quando volete che avvenga l'incidente?". "Il 24 ottobre (1940, ndr)", rispose Mussolini e Ciano di rimando: "Il 24 avrete l'incidente". La preparazione diplomatica fu alquanto fumosa, il casus belli molto debole, in pratica creammo una serie di fasulli incidenti di frontiera e ci facemmo paladini di una presunta repressione da parte dei greci sulle aspirazioni irredentiste del Kossovo. Alla veridicità degli incidenti potevano credere solo i giornali italiani manipolati ad arte dal regime littorio. A palazzo Venezia, Mussolini e gli alti gerarchi, convinti che avrebbero potuto liquidare la Monarchia dopo la preventivata resa dell'Inghilterra, lasciavano il Re, Vittorio Emanuele III, fuori da ogni decisione di carattere militare e strategico sulla condotta della guerra programmata, avvalorando la sua immagine popolare di Re travicello, di "Sciaboletta" come era chiamato in modo canzonatorio dai suoi sudditi. Essi tendevano a far passare la casa reale come un'accozzaglia di ometti imbelli ed incapaci (il che era vero).
Il 19 ottobre Mussolini scrisse a Hitler per annunciargli la decisione bellica estemporaneamente presa. Il Fuhrer era allora in viaggio per Hendaye e Montoire sur le Loir (Aquitania e Francia). Sembra che la lettera (il cui testo non è mai venuto alla luce) lo abbia seguito torno torno. Quando essa finalmente lo raggiunse egli propose subito a Mussolini un incontro per discutere la situazione politica generale in Europa. Questo incontro ebbe luogo a Firenze, il 28 ottobre del 1940. La mattina stessa era cominciato l'attacco italiano contro la Grecia. Sembra però che Hitler non abbia voluto discutere sull'avventura bellica fascista nei Balcani. Egli disse cortesemente che la Germania era d'accordo con l'azione militare da noi intrapresa in Grecia. Poi passò a raccontare come si erano svolti i suoi incontri con il generalissimo spagnolo Francisco Franco e con il collaborazionista francese Philippe Pétain. Non ci può essere alcun dubbio che non gli piaceva molto quello che il suo socio italiano aveva fatto nei Balcani. Poche settimane dopo, il 20 novembre, quando l'attacco alla Grecia era già stato bloccato, egli scrisse a Mussolini: "Quando io vi pregai di ricevermi a Firenze iniziai il viaggio con la speranza di potervi esporre i miei pensieri (astenersi dal conflitto contro i greci, ndr) prima che avesse inizio la minacciosa controversia con la Grecia, di cui avevo avuto sentore solo in generale". In complesso, però, egli accettò la decisione del suo alleato ed antico maestro, Benito Mussolini.
Prima dell'alba del 28 ottobre il Ministro d'Italia a Atene (E. Grazzi) presentò un ultimatum al generale Joannis Metaxas, primo Ministro e dittatore greco. Mussolini chiedeva che tutta la Grecia venisse occupata dalle truppe italiane. Contemporaneamente l'armata italiana d'Albania invase la Grecia in vari punti. Il Governo greco, che aveva forze pronte alla frontiera, respinse l'ultimatum mussoliniano. Esso invocò anche la garanzia data da Neville Chamberlain (Cancelliere dello scacchiere britannico) il 13 aprile del 1939. Dietro consiglio del Gabinetto di Guerra e per "un impulso del suo albionico cuore" così rispose Sua Maestà britannica al Governo ellenico: "La vostra causa è la nostra causa, noi combatteremo contro un nemico comune". Winston Churchill ribadì il concetto, dicendo al generale Metaxas: "Noi vi daremo tutto l'aiuto che è in nostro potere. Noi combatteremo contro un nemico comune e condivideremo una vittoria unita". Questo impegno fu mantenuto dopo molte traversie.
Nei colloqui con Mussolini, Hitler si era dichiarato contrario a un'offensiva italiana nei Balcani perché avrebbe messo in difficoltà i suoi piani di attacco alla Russia con l'apertura di un fronte non ritenuto essenziale per i suoi progetti ed in un settore dove la Germania preferiva evitare l'intervento militare diretto a favore di un controllo indiretto, attraverso i Governi amici, di quello che considerava il retroterra naturale del futuro "fronte orientale". L'Italia invece riteneva la Jugoslavia e la Grecia tra i principali obiettivi della sua politica espansionistica di aggressione. L'avanzata a est costituiva in effetti un argomento tradizionale della politica e dell'ideologia nazionalfascista che mirava soprattutto a destabilizzare la Jugoslavia, principale ostacolo alla nostra penetrazione nei Balcani. Intanto, però, si assisteva, fin dal 1933, a una crescente presenza economica e politica dell'alleato tedesco nell'area balcanica, in particolare in Romania e in Bulgaria, mentre l'annessione dell'Austria alla Germania, nel 1938, comportava una crisi di tutta la diplomazia condotta fino ad allora dal fascismo in quell'area e rivelava come fosse la Germania il vero avversario dell'Italia fascista, oltre ovviamente alla Gran Bretagna che vantava un'influenza tradizionale sul Mediterraneo centrale.
Le delusioni subite nella prima fase della guerra, con le rapide vittorie tedesche e la magra figura fatta fino ad allora dalle forze italiane, aveva acuito il senso di frustrazione e di inferiorità del dittatore nostrano nei confronti del collega tedesco. Mentre l'esercito, dopo la resa della Francia, smobilitava metà delle divisioni concentrate nella pianura padana, il gruppo dirigente italiano, dal Re Vittorio Emanuele III, al Duce, al Ministro degli Esteri Ciano ed al capo di Stato Maggiore Badoglio, si convinceva della necessità di trovare uno spazio alla nostra politica di potenza, una rivincita sul piano internazionale, grazie a un'impresa militare che appariva, almeno sulla carta, facile da portare a termine: la conquista territoriale della Grecia. All'Italia mancava, tuttavia, proprio quella efficiente forza militare che le avrebbe permesso di sostenere le sue ambizioni internazionali, senza questa forza si trattava piuttosto di una strategia utopistica e rischiosa. Infatti l'inizio della crisi del regime littorio può farsi risalire proprio all'avventato attacco alla Grecia guidata dal dittatore Metaxas (capo del Governo greco dopo il colpo di Stato antibolscevico effettuato dal Re Giorgio II nel 1936).
Nel 1939 la Romania si accordò con Berlino per l'esportazione di materie prime, escludendo la concorrente Inghilterra. Dopo la Romania, e dopo l'occupazione italiana dell'Albania, anche la Bulgaria, la Jugoslavia e l'Ungheria, decise a rimanere neutrali, saranno, loro malgrado, intrappolate nelle manovre economiche tedesche e poste davanti a scelte obbligate per non subire l'occupazione da parte dei nazisti. Rimaneva la Grecia. Il suo orientamento filo-britannico costituiva un probabile obiettivo militare da parte delle forze dell'Asse.
Ma perché Paesi sia pur in grado di opporre una resistenza diplomatica se non militare, sono stati in così breve tempo attirati e imprigionati nelle trame imperialiste del Reich tedesco e del Governo fascista? La risposta è una sola: avrebbero potuto evitare un loro diretto coinvolgimento, almeno ancora per qualche tempo, se avessero opposto alle aspirazioni di Hitler e di Mussolini un fronte unito e compatto. Ma essi stessi erano su posizioni contrastanti e l'Asse avrebbe avuto partita facile nel fomentare le rivalità reciproche, particolarmente a riguardo delle questioni territoriali che erano rimaste irrisolte al termine della prima guerra mondiale. Si erano quindi creati due blocchi: da una parte Romania, Grecia e Jugoslavia, dall'altra Bulgaria e Ungheria. La questione ha però il proverbiale rovescio della medaglia: ciò che preoccupava Hitler era il pericolo di un'invasione sovietica di tali territori prima che fosse scattata l'Operazione Barbarossa. Mosca, infatti, secondo gli accordi di non-aggressione con Berlino (Patto Ribbentrop-Molotov del 23 agosto del 1939), già reclamava la Bessarabia e la Bucovina settentrionale, popolata da ucraini, proprio a spese della Romania. Per non compromettere gli accordi russo-tedeschi Hitler lasciò che l'Armata Rossa occupasse queste regioni, non inviò alcun aiuto in soccorso delle popolazioni invase dai russi, né propose la mediazione pacificatrice della Germania.
Sull'esempio della Russia, pochi mesi dopo anche la Bulgaria e l'Ungheria reclamarono i possedimenti persi con i trattati degli anni Venti, ma questa volta la Romania ordinò la mobilitazione dell'esercito. Quando la crisi fu sul punto di scoppiare, il Fuhrer decise di intervenire, inviando una lettera ufficiale al sovrano e dittatore rumeno Carol II in cui lo si pregava di tornare sulla sua decisione di aprire le ostilità. Bisognava risolvere, questa volta con la mediazione della Germania, ogni questione al tavolo delle trattative. Dopo non poche difficoltà, dal momento che le richieste bulgare erano di portata limitata (riguardano infatti solo una parte della Dobrugia meridionale), Re Carol decise di accettare, mentre si dimostrò più che mai contrario a considerare le richieste ungheresi sulla Transilvania abitata da etnie consorelle. Quando i colloqui si interruppero per manifesta incompatibilità tra le parti in causa, il Fuhrer intervenne drasticamente imponendo la sua legge. I rappresentanti di Romania e d'Ungheria furono convocati a Vienna per un ultimo tentativo, ma si resero subito conto che non si trattava più di prendere parte attiva alla definizione degli accordi di pace, ma bensì di essere obbligati a sottoscrivere un trattato, redatto dal Ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop, già deciso dalle potenze dell'Asse: restituzione all'Ungheria di 1/3 della Transilvania settentrionale, con usufrutto per la Romania di tutte le risorse del sottosuolo. E' il documento diventato noto come Secondo Arbitrato di Vienna (30 agosto del 1940).
Le conseguenze furono un improvviso inaridimento dei rapporti russo-tedeschi e la fine della dittatura del Re Carol II. In verità il tiranno nazista non si era mai fidato del monarca rumeno e non si mostrò dispiaciuto più di tanto quando, il 6 settembre del 1940, il Re abdicò in favore del figlio Michele e delegò tutti i poteri al generale filo-nazista Ion Antonescu. Costui si affrettò a richiedere ufficialmente l'intervento militare tedesco per paura di rivolte popolari e per la protezione dei suoi giacimenti petroliferi. Così la Wehrmacht entrò in Romania "legalmente" e a testa alta con la 13a divisione corazzata, reparti d'assalto e unità contraeree. Mussolini, di fronte ad una tale improvvisa mossa, si sentì in un certo qual modo scavalcato dal suo bellicoso alleato d'oltralpe. E' allora che prese forma nella mente mussoliniana il progetto di invasione della Grecia. Era ormai una questione politica e di prestigio: l'Italia non poteva permettersi di apparire come un semplice spettatore o peggio, come un "cane al guinzaglio della Germania" che aspettava solo gli avanzi del suo prepotente padrone cobelligerante.
Il Governo "nemico", quello del dittatore greco Metaxas, si barcamenava tra l'influenza ideologica dei Paesi dell'Asse e la presenza della Gran Bretagna nel Mediterraneo. Senza costituire un vero problema per le strategie continentali italo-tedesche, senza una preparazione militare adeguata, anzi, con una decisa sottovalutazione delle forze del nemico, sia militari che politiche, con piani di invasione improvvisati, ritenendo che il Governo Metaxas fosse incapace di reagire e che la popolazione greca non si sarebbe opposta all'occupazione italiana e senza reali motivazioni strategiche, il 28 ottobre del 1940 venne presentato alla Grecia un ultimatum impossibile da accettare. Metaxas si rese conto che la guerra era inevitabile. Egli si aspettò l'attacco dall'Albania e un'invasione dal mare. Per questo chiese l'intervento della flotta inglese, ma sapeva che lo scontro era ormai deciso, si doveva combattere solo per l'onore della Patria. La popolazione greca reagì all'invasione, aiutando con tutte le proprie forze il suo esercito, un'ondata di patriottismo sostenne il Governo Metaxas nell'azione difensiva e, in certi casi, la popolazione civile partecipò direttamente alla lotta per la sua sopravvivenza. Lo stesso Mussolini, dopo le previsioni ottimistiche, ma illusorie, sul presunto rapido cedimento del "fronte interno" nemico, affermò: "I greci odiano l'Italia come nessun altro popolo. E' un odio che appare a prima vista inspiegabile, ma è generale, profondo, inguaribile, in tutte le classi, nelle città, nei villaggi, in alto, in basso, dovunque. Il perché è un mistero".
Dopo l'attacco tedesco alla Polonia, la dichiarazione di non belligeranza dell'Italia fu apprezzata dai greci con grande sollievo. In Polonia la parola spettava ai panzer, ma poiché Roma (l'altro polo dell'Asse Roma-Berlino) rimaneva stranamente neutrale la guerra restava lontana dal bacino dello Ionio. Specie in un momento in cui i rapporti italo-greci erano alquanto tesi, l'atteggiamento pacifista di Mussolini rappresentava un motivo di tranquillità per il popolo ellenico. I contatti tra l'Italia e la Grecia non erano mai stati molto cordiali. Se volgiamo lo sguardo indietro si vedrà che i punti di contrasto tra i due Paesi erano sorti fin dalla prima guerra mondiale. Infatti, durante le trattative che avevano portato alla stipula del Patto di Londra (26 aprile del 1915) le potenze della Triplice Intesa (Francia, Inghilterra e Russia presto affiancate dal Giappone e poi della Romania) avevano promesso sia alla Grecia che all'Italia la concessione di sfere d'influenza che si estendevano nelle stesse aree dell'Asia minore. Durante il travaglio per la stipulazione dei trattati di pace (Versailles, 18 gennaio del 1819), Elefhterios Venizelos (capo del Governo greco) era riuscito a ottenere larghissime concessioni tutte a danno dell'Italia, mentre contrasti persistevano per la delimitazione dei confini fra l'Albania e la Grecia: l'Italia, sicura che la prima sarebbe caduta prima o poi sotto il dominio diretto o indiretto del littorio cercava di favorirla nelle sue pretese, mentre la Grecia non celava una profonda insoddisfazione per quel poco aveva ottenuto durante le guerre balcaniche. Considerava, inoltre, di sua pertinenza tutta l'Albania meridionale, almeno fino alla zona di Argirocastro. Basterà ricordare un fatto: proprio mentre si procedeva alla definizione del confine greco-albanese, venne ucciso a Janina il generale Enrico Tellini. Da ciò scaturì il temporaneo intervento militare italiano a Corfù, un ricordo che ancora bruciava nell'animo dei greci. Il Tellini, il 27 agosto del 1923, guidava una commissione militare incaricata dalla Conferenza di Parigi (Versailles) di delimitare il contrastato confine tra la Grecia e l'Albania.
All'Italia erano contestate mire annessionistiche su tutto l'Eptaneso, l'arcipelago delle isole ionie. In verità il timore era sproporzionato all'entità degli appetiti italiani stimolati dai succhi gastrici di una ristretta cerchia di personalità fasciste. Si può ragionevolmente affermare che l'opinione pubblica italiana si disinteressava dell'Eptaneso, come per altro di tutta la Grecia. Ma in Grecia di ciò non ci si rendeva conto e di tanto in tanto i timori di colpi di mano nello Ionio si ridestavano specie quando a ridestarli erano fonti degne di rispetto. Se si deve dar credito ad alcuni documenti dell'epoca, voci del genere trovavano talvolta la loro origine negli ambienti del Vaticano. Motivo di discordia era anche l'occupazione del Dodecaneso, rapinato dai greci alla Turchia, ma avente una popolazione prevalentemente greca. Si capiva, d'altronde, che dopo il riconoscimento della legittimità del possesso italiano da parte delle grandi potenze (Versailles), c'era poco da sperare in Grecia circa l'acquisizione definitiva di quel settore dell'Egeo meridionale. Un ulteriore colpo alle precarie relazioni diplomatiche italo-greche fu l'occupazione dell'Albania. L'Italia diveniva una sgradita vicina stazionante proprio sui confini contesi. Se vennero con apparente gratitudine accettate le assicurazioni italiane sulla assoluta mancanza di propositi aggressivi verso il popolo greco, vennero ugualmente accettate con riconoscente favore le "garanzie" di Francia e di Gran Bretagna (sostegno politico-militare) palesemente dirette contro gli interessi dell'Italia nel Peloponneso.
All'alba del 28 ottobre del 1940 l'Ambasciatore italiano ad Atene presentò una nota ultimativa al Governo greco. L'Italia pretendeva di occupare tutta una serie di luoghi strategici per "garantire la neutralità della Grecia". L'occupazione sarebbe durata per tutto il corso della guerra contro la Gran Bretagna. Secondo la nota proveniente da Roma i greci avevano tre ore di tempo per rispondere positivamente o negativamente all'ultimatum. L'Italia non era disposta a trattare. Il generale Joannis Metaxas, capo del Governo greco, non rispose nulla alla drammatica richiesta italiana. Alle 6 del mattino di quella stessa giornata le truppe italiane attraversarono la frontiera greco-albanese. Il CSTA (Comando Superiore Truppe Albania) aveva ricevuto l'ordine di iniziare le ostilità contro la Grecia dopo le ore zero del 28 ottobre (1940) e uguale ordine trasmise ai comandi dipendenti, precisando che l'azione avrebbe dovuto entrare nella fase esecutiva alle ore 7.30. Il maltempo e considerazioni personali, indussero i comandanti dei due corpi d'armata destinati in Grecia a muovere all'alba. Le prime pattuglie passarono il confine greco verso le ore 6.30, ma fu un solo caso se qualcuno non si mosse subito dopo la mezzanotte e cioè prima ancora che il Ministro d'Italia potesse presentare a Metaxas l'ordine perentorio proveniente da Roma. Questo particolare è esplicativo di tutta la leggerezza che presiedette alla preparazione del conflitto italo-greco.
Il 28 ottobre del 1940, senza motivi e senza una preparazione adeguata, ci impantanammo nella campagna di Grecia. Al processo di Verona, che nel gennaio del 1944 lo vide condannato a morte e quindi fucilato, l'ambizioso Ciano è stato condotto dalla "congiura" del 25 luglio, ma essa fu solo il coronamento del suo sconsiderato modo d'agire. Aveva in precedenza già fatto alla Nazione danni incommensurabili (la firma del Patto d'Acciaio il 22 maggio del 1939). La campagna di Grecia fu il suo capolavoro politico-militare. Raccontò, e fu creduto, di aver corrotto elementi militari greci di primo piano. Per parte sua Pietro Badoglio, con criminale faciloneria accettò di avallare un'operazione d'oltremare senza nemmeno interpellare i responsabili della Marina e dell'Aeronautica.
La campagna, strategicamente, fu un'operazione scriteriata. Si decise di attaccare dai monti, con la prospettiva, se le cose fossero andate bene, di dover scavalcare una catena di rilievi dietro l'altra e per di più si attaccò in condizioni di grave inferiorità numerica. La guerra con la Grecia, ammessa la necessità di farla, avrebbe potuto essere risolta in poche ore: la flotta, da Taranto, avrebbe raggiunto il Pireo e nella stessa serata la Grecia si sarebbe trovata con un nuovo Governo allineato sulle posizioni dell'Asse. Non si attuò nemmeno l'"emergenza G" che prevedeva lo sbarco a Corfù, a pochi km. di distanza dal continente. Altra soluzione, altrettanto logica e poco dispendiosa, sarebbe stata quella, risolutiva, di concordare l'operazione bellica con l'alleato tedesco. Tutto questo venne disatteso e le conseguenze furono spietate: d'ora in avanti l'Italia di Mussolini, sconfitta in Grecia, sarebbe diventata un'entità statuale e militare che dipendeva esclusivamente dalle decisioni di Adolf Hitler, il dispotico Fuhrer dei nazisti. Solo lui riuscì a togliere d'impaccio l'amico Mussolini, penetrando in Grecia con i suoi panzer dal confine bulgaro e raggiungendo Salonicco in pochi giorni quasi senza combattere dopo aver aggirato la linea greca Metaxas (Operazione Marita, 6 aprile del 1941).
Malattia, ferie, dopolavoro, pensioni, assegni d'invalidità, INPS, case popolari, ispettorato del lavoro, corporazioni per classe, cooperative sociali, diritto al lavoro per le donne, assegni familiari, bonus figli, scuola gratuita per i figli degli operai, riforma scolastica, ripartizione del capitale sociale tra i dipendenti, 100.000 assunzioni nel settore pubblico e costruzione di oltre 6 mila quartieri popolari. Tutto ciò che il fascismo aveva fatto di buono scompariva se paragonato alla disfatta militare subita in Grecia. "Qualunque volta è tolto agli uomini il combattere per necessità, combattono per ambizione; la quale è tanto potente ne' petti umani che mai, a qualunque grado salgano, li abbandona" (Niccolò Machiavelli).
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