Nel 1482, al seguito dei navigatori portoghesi giunsero nel regno del Congo anche numerosi missionari. Re Nzinga Nkuwu vide nei nuovi arrivati una possibilità di sviluppo per il suo paese, che per qualche tempo sembrò poter diventare il primo stato cristiano africano. Ma nonostante i buoni rapporti con il papato, i contrasti tribali interni e la spoliazione di uomini e materie prime imposta dai portoghesi condussero il regno alla rovina.
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L'evangelizzazione del Congo
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Racconta una tradizione congolese che un giorno il re del Congo, Nzinga Nkuwu, indicò verso l'oceano e disse al suo popolo: «Di là verrà il vero sacrificio, la conoscenza del vero Dio. Che io possa godere la felicità di tale giorno!».
Poco tempo dopo, nel 1482, tre caravelle condotte dall'esploratore portoghese Diego Cão, comparvero alla foce di un grande fiume chiamato Nzaidi, che successivamente prese il nome di Zaire.
Seguirono i primi contatti tra le due civiltà. Sembrava un perfetto idillio. «Grande, potente, molto popoloso e con numerosi vassalli», secondo la descrizione dei portoghesi, il regno del Congo aveva una struttura feudale: il mani (re, signore) deteneva un potere quasi assoluto su una società spezzata in due classi: il popolo, che rappresentava la forza produttiva e militare, e gli aristocratici, che dirigevano le province e i distretti per conto del re.
L'economia verteva principalmente sulla coltivazione dei cereali, sulla pesca, sulla caccia e sull'artigianato. La proprietà di terre, fiumi, palmeti e foreste era in comune: veri proprietari erano gli antenati dei rispettivi clan. Solo il ricavato del lavoro spettava al singolo o alla famiglia. C'era anche una moneta accettata in tutto il regno e consisteva di semplici conchiglie.
Ammaliato dalle conquiste tecniche dei portoghesi, il mani Congo vide nei nuovi arrivati un alleato prezioso in grado di far progredire il proprio regno e tenere a bada i vassalli, che non sempre gli erano leali. I portoghesi, oltre che stipulare accordi commerciali, intuirono l'opportunità di fare di quel Paese uno stato cristiano modello.
Dopo qualche tempo un cappellano venne a stabilirsi nella capitale del regno, Mbanza, a 180 chilometri dalla costa, e nel 1489 alcuni giovani della nobiltà locale furono condotti a Lisbona per istruirsi e studiare la religione del «vero Dio». Rimpatriarono nel 1491, insieme a preti, monaci, soldati, maestri, carpentieri, muratori, contadini e artigiani.
In quello stesso anno, a Manza, venne edificata una chiesa; re Nzinga fu battezzato insieme alla moglie e al figlio maggiore. In onore della famiglia reale portoghese adottarono rispettivamente i nomi di Don João, Dona Leonora e Don Alfonso. Altri capi e notabili di corte fecero lo stesso.
Ci furono comunque delle difficoltà poiché il re non intendeva abbandonare la poligamia; altri battezzati tornarono alle abitudini pagane. Il figlio di Mbemba Nzinga, Don Alfonso, fece eccezione: a causa dei contrasti tra cristiani e tradizionalisti lasciò la corte paterna e si insediò a Mbanza Nsundi, un centinaio di chilometri a sudovest dell'attuale Kinshasa; portò con sé i missionari e li favorì nell'evangelizzazione dei suoi sudditi.
Alla morte del padre (1506), Don Alfonso riuscì a farsi riconoscere re da tutti i Bakongo, sconfiggendo, con l'aiuto dei portoghesi, il fratello minore, appoggiato dai tradizionalisti. Si impegnò quindi a modernizzare lo stato sul modello di quello portoghese: innalzò chiese e scuole; mandò dei nobili, tra cui il figlio Henrique, a studiare a Lisbona; moderò le leggi facendo riferimento all'insegnamento cristiano; si dedicò alla cristianizzazione del suo regno con tale scrupolosità e moralità da essere considerato dai contemporanei come l'apostolo dei Bakongo, il nuovo Costantino. Lui stesso predicava nella cattedrale che i portoghesi avevano eretto nella capitale, ribattezzata São Salvador. Durante il suo lungo regno (1506-43), il cristianesimo ebbe una crescita stupefacente: approssimativamente un milione di battezzati (circa la metà della popolazione del regno).
Il "Costantino africano" ebbe con re Manuel di Portogallo (1495-1521) una fitta corrispondenza epistolare, in cui i due sovrani si chiamavano a vicenda fratelli. Il re del Congo chiedeva consigli e, soprattutto, missionari e maestri, medici e materiale sanitario, consiglieri e artigiani specializzati, una nave e costruttori di navi. Tra il 1508 e il 1512 si registrarono tre spedizioni missionarie.
Nel 1513 Don Alfonso inviò al papa Leone X un'ambasciata di cui faceva parte anche il diciottenne figlio Henrique, che pronunciò un discorso in latino davanti al sommo pontefice. Cinque anni dopo, su proposta di quattro cardinali, il principe fu nominato vescovo titolare di Utica (5 maggio 1518). Tornò in patria con altri preti congolesi nel 1521. Dieci anni dopo, Don Henrique fu invitato al Concilio di Trento, ma morì nel 1531, a 36 anni: fu il primo vescovo dell'Africa nera, dopo appena trent'anni di evangelizzazione, e l'ultimo per i successivi quattro secoli.
A proposito del Portogallo c'è da sottolineare che lo stato più occidentale d'Europa non elargiva gratuitamente la propria benevolenza. Esigeva il monopolio del commercio e voleva essere pagato non con conchiglie ma con rame, avorio e soprattutto schiavi.
Don Alfonso avrebbe voluto che la propria chiesa fosse indipendente, ma il Congo era sottoposto a São Tomé, capitale del traffico negriero, e le decisioni di Lisbona venivano abrogate dalle autorità civili dell'isola: l'ideale di far nascere uno stato cristiano in Congo veniva represso dalla frenetica escalation della tratta degli schiavi.
In poco tempo anche i vassalli congolesi, artigiani portoghesi e perfino alcuni missionari si diedero alla tratta degli schiavi: siccome erano pagati in conchiglie, moneta che fuori del regno non valeva nulla, le cambiavano in schiavi, che potevano essere così venduti a São Tomé che, oltre ad essere stata la prima a sperimentare il "modello" della nuova schiavitù, divenne, dopo la scoperta dell'America, uno dei principali scali di transito della tratta degli schiavi verso l'America latina.
Don Alfonso si rese conto che l'importazione dei prodotti dal Portogallo indeboliva l'economia del regno e, soprattutto, che la schiavitù falsava del tutto il messaggio evangelico. In una lettera del 1526 chiedeva a Giovanni III del Portogallo di far terminare il commercio degli schiavi e di non inviare in Congo prodotti portoghesi, fuorché quelli essenziali per il culto.
Ben presto si giunse allo scontro diplomatico: Don Alfonso respinse diverse ordinanze promulgate dal monarca portoghese, ritenendole inadeguate al popolo africano. Sul fronte interno, i tradizionalisti accentuarono le loro ostilità attribuendo al re diverse calamità naturali, per aver perduto il favore degli antenati. I commercianti di schiavi residenti a corte premeditarono un complotto, al quale il re scampò miracolosamente (1539); pochi anni dopo il mani morì di crepacuore (1543), nel vedere ridotto così il proprio regno.
Con la morte di Don Alfonso l'impresa missionaria divenne sempre più difficile, sia per la tratta degli schiavi che per le lotte interne dello stato congolese, dato che non esistevano regole di successione. I mani Congo continuarono a chiedere altri missionari. Arrivarono i gesuiti portoghesi, ma fallirono per la loro incauta lotta al paganesimo (1547-1555). Seguirono i francescani (1557), che composero un catechismo in kikongo, il primo pubblicato in una lingua bantù di cui si abbia notizia. Infine arrivarono i carmelitani (1582-87), ma con scarso successo.
Malgrado le varie deficienze (povertà di mezzi, discontinuità dell'apostolato, penuria e mediocrità del personale, ignoranza della lingua, battesimo senza catechesi) l'evangelizzazione del Congo proseguiva e nel 1596 fu creata la diocesi di São Salvador. Il vescovo però stabilì la sua residenza a Luanda e i cristiani bakongo rimasero praticamente senza pastori. Dal 1575, infatti, i portoghesi si erano insediati in Angola, occupandosi sempre meno delle sorti del Congo.
Pur godendo di una certa indipendenza politica, i re dei Bakongo mal sopportavano la tutela spirituale del regime di padroado, in base al quale i territori d'oltremare del Portogallo dovevano essere evangelizzati da missionari portoghesi. Approfittando delle difficoltà del Portogallo, caduto sotto la monarchia spagnola, Alvaro II (1578-1614) mandò a Roma un ambasciatore per trattare i problemi ecclesiastici. Il primo titolare, Don Antonio Manuel ne Vunda, impiegò quattro anni e perse quasi tutto il suo seguito e i suoi beni per raggiungere la sua destinazione. Infine, ammalato e ridotto in povertà, rimasto con soli quattro compagni d'avventura dei ventisei coi quali era partito, febbricitante, dalla lettiga su cui lo portavano vide a malapena le cupole e i campanili di Roma. La "città eterna" fu onorata e un po' stupefatta di accogliere un messo che arrivava da così lontano. Papa Paolo V aveva dato ogni disposizione. Un corteo di guardie, diaconi, chierici e prelati doveva accompagnare il nobile "nigrita" fino al suo cospetto. Il viaggiatore era però esausto e non riusciva a reggersi in piedi. Il Papa lo accolse a palazzo meglio che poté, affidandolo alle cure dei suoi medici nelle stanze più belle, negli appartamenti chiamati "il Paradiso".
Il "nigrita" stava di male in peggio, «travagliato da febre continua e maligna, con male di gola, di petto, di reni et di urine», come scrisse il cronista vaticano. Il Papa, mostrandogli un riguardo mai concesso a imperatori o principi, venne in piena notte al suo capezzale per confortarlo e benedirlo «e gli tenne un gran pezzo la mano in fronte, pregatone da lui medesimo, il quale mostrò di ricrearsi non poco della visita di Sua Santità e si sforzava di dirgli alcune cose che aveva in commissione dal suo re, ma si trovava in santa agonia e soffocato dal catarro che non poté finire di esplicare la stia intenzione e il suo desiderio». Prima dell'alba Don Manuel «rese l'anima al Signore con molta devozione ed esempio, sì che venne a morire nella giornata delli tre magi». Era domenica 6 gennaio dell'anno Domini 1608.
Paolo V fu colpito dalla morte di quell'ambasciatore e dispose affinché fosse seppellito nella Basilica di Santa Maria Maggiore. Fece anche coniare una medaglia commemorativa con la sua effigie nel dritto e con quella dell'inviato del re nel retro, raffigurato mentre, in ginocchio, gli chiedeva operai per la messe del Signore in una terra tanto lontana.
Le complicazioni politiche, però, ritardarono di oltre trent'anni anni la possibilità di esaudire la richiesta del re del Congo. Nel 1640 il dicastero di Propaganda Fide eresse la Prefettura Apostolica del Congo e l'affidò ai cappuccini italiani, 12 dei quali, dopo cinque anni di trattative diplomatiche tra padroado e Santa Sede, riuscirono a raggiungere il suolo congolese. Dal 1645 al 1834 furono inviati più di 400 missionari cappuccini nel regno dei Bakongo: un numero enorme sulla carta. In pratica, non più di 15 missionari lavorarono contemporaneamente in quelle sconfinate regioni: alcuni morirono e altri dovettero essere rimpatriati poco tempo dopo il loro arrivo, per il terribile clima. Pochissimi quindi portarono a termine il mandato di sette anni richiesto da Propaganda Fide. Intanto, nel tentativo di porre fine alla tratta degli schiavi, i conflitti tra i sovrani del Congo e i portoghesi divenivano sempre più continui, finché, con la scusa del rifiuto per una concessione mineraria, i portoghesi residenti a Luanda dichiararono guerra a re Antonio. Nel 1665, i due eserciti, sventolando entrambi i vessilli con la croce, si affrontarono ad Ambuila (1665): il re Antonio fu catturato e decapitato.
Devastato e nella più totale anarchia, alla fine del secolo XVIII il grande regno del Congo era ridotto a pochi villaggi intorno a São Salvador, nell'odierna Angola.
Altri regni nell'interno del Congo raggiunsero un elevato grado di organizzazione politica e militare, ma rimasero praticamente sconosciuti fino alla metà del XIX secolo. Tuttavia, senza subire alcun processo di colonizzazione, continuarono a operare come grandi empori di avorio, minerali e schiavi per i mercati della costa atlantica e quella dell'Oceano Indiano. Si calcola che, dal 1500 al 1880, quindici milioni di congolesi furono strappati alle loro terre e ridotti in schiavitù; dieci milioni di loro morirono durante il viaggio.
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BIBLIOGRAFIA
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Africa. Dalla preistoria agli stati attuali, di P. Bertaux - Feltrinelli, Milano 1968.
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Storia dell'Africa, di J.D. Fage - Torino, SEI, 1995.
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The Kingdom of Kongo, di A. Hilton - Oxford 1982.
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Il dramma del Congo, di C. Legum - Edizioni di Comunità, Milano 1961.
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Congo e Angola con la storia dell'antica missione dei Cappuccini, di G. Saccardo - Venezia 1982-83
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