Nel dicembre del 1937 l'esercito giapponese occupava l'allora capitale cinese. I massacri di prigionieri, gli stupri sulle donne e le efferate violenze consumate sulla popolazione civile rivivono nelle testimonianze di numerosi testimoni occidentali.
Lo stupro di Nanchino
di MICHELE STRAZZA
Quando il 13 dicembre 1937, nell'ambito del conflitto cino-giapponese, l'esercito nipponico occupò l'allora capitale cinese Nanchino, dopo aver già massacrato civili inermi durante la marcia di avvicinamento alla città da Shangai, le stragi e gli stupri furono all'ordine del giorno.
Mentre i militari cinesi scappavano la popolazione civile cadde in balia di un esercito intriso di presunzione di superiorità nei confronti dei cinesi giudicati una razza inferiore.
Ad eccezione di una "Zona di protezione internazionale", gestita da europei e americani, alla cui realizzazione contribuì notevolmente John Rabe, uomo d'affari tedesco e rappresentante a Nanchino del partito nazista, nessun luogo della città fu immune dalle stragi. Le vittime furono da 260.000 a 350.000, fino a 500.000 secondo fonti del Governo federale USA recentemente rese pubbliche se si comprendono anche i morti nei dintorni della città.

Le crudeltà perpetrate furono inaudite. Solo gli stupri furono tra i 20.000 e gli 80.000. E a subirli furono anche bambine e anziane. Numerose donne vennero rapite anche dalla zona di protezione internazionale e violentate.
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Esecuzione di prigionieri cinesi
Tantissimi coloro che furono sbranati dai cani, bruciati insieme alle proprie case, seviziati fino alla morte, sepolti vivi. Gli ufficiali giapponesi inscenavano addirittura delle gare su chi era più bravo a mozzare le teste con un sol colpo di spada e i giornali in patria riportavano notizie e fotografie. Alcuni soldati inviavano alle proprie fidanzate fotografie delle stragi, altri conservano teste mozzate come trofei.
Molti cinesi vennero usati per addestrare allenamento all'attacco delle baionette, altri furono evirati e i loro peni venduti tra i soldati perché ritenuti cibo afrodisiaco. Si registrarono anche casi di cannibalismo.
Nel diario di un soldato giapponese si legge: "quando ci annoiavamo, passavamo il tempo ammazzando dei cinesi. Li seppellivamo vivi, o li buttavamo nel fuoco, o li picchiavamo a morte con le mazze, o li uccidevamo in altri modi crudeli".
I massacri e gli stupri continuarono per 6 settimane. I cadaveri vennero seppelliti in fosse comuni o gettati nel fiume Yangtze. Molti vennero bruciati. Alla fine i cani randagi banchettavano tra i resti dei soldati e dei civili cinesi.
Le testimonianze del tempo e i resoconti degli stranieri (come i diari di John Rabe e Minnie Vautrin) concordano tutti sull'efferatezza dei crimini commessi. Anche i corrispondenti dei giornali europei e i diari da campo dei membri del personale militare ci offrono un quadro apocalittico. Un missionario americano, John Magee, riuscì addirittura a girare un filmato in 16 mm e a scattare alcune fotografie dei massacri.

Gli stupri furono un elemento centrale delle violenze. Ogni notte se ne contavano più di mille mentre di giorno avvenivano in pubblico, spessissimo di fronte agli stessi mariti e familiari costretti a guardare. I soldati giapponesi cercavano le donne penetrando in ogni casa e portando fuori le proprie vittime per violentarle in gruppo. Dopo si procedeva a recidere i seni o ad altre mutilazioni per poi trafiggerle con canne di bambù o baionette. Molte donne vennero avviate nei bordelli militari giapponesi.
Così ricordò quelle violenze un militare nipponico: "Mentre ne abusavamo, le donne venivano considerate esseri umani, ma quando le uccidevamo non erano che maiali. Non ce ne vergognavamo assolutamente, non ci sentivamo minimamente in colpa: altrimenti non avremmo potuto farlo. Quando entravamo in un villaggio la prima cosa che facevamo era rubare il cibo, poi prendevamo le donne e le violentavamo, infine uccidevamo tutti gli uomini, le donne e i bambini per essere sicuri che non potessero fuggire e raccontare ai soldati cinesi dove ci trovavamo".

All'interno della "zona di sicurezza" una missionaria e insegnante americana, Minnie Vautrin (1886-1941), riuscì a salvare, tra il dicembre 1937 e la primavera del 1938, migliaia di donne e bambini accogliendoli nel Ginling College, la prima istituzione destinata all'istruzione femminile universitaria in Cina.
Dalle pagine del suo diario appaiono in tutta la loro tragicità le vicende della popolazione inerme, ma anche la solidarietà degli stranieri che instancabilmente si prodigavano per salvare più vite possibili.
Così Minnie Vautrin: "Mercoledì, 15 dicembre. Sono rimasta al cancello ininterrottamente dalle 8,30 di questa mattina fino alle 6 di questa sera, tranne che per il pranzo, mentre le rifugiate entravano a fiumi. I volti di molte donne esprimono terrore - la scorsa notte in città è stata tremenda e molte giovani donne sono state portate via dalle loro case da soldati giapponesi. (...) Ieri e oggi i giapponesi hanno fatto grandi saccheggi, hanno distrutto scuole, ucciso uomini e stuprato donne. (...) Giovedì, 16 dicembre. (...) Probabilmente non c'è crimine che non sia stato commesso oggi in questa città. La scorsa notte trenta ragazze sono state rapite dalla scuola di lingue e oggi ho sentito storie strazianti di ragazze portate via dalle loro case la notte scorsa: una aveva appena dodici anni. (...) Questa sera è passato un camion con 8 o 10 ragazze gridavano Giu ming, Giu ming - salvateci la vita".

Continua la Vautrin: "Venerdì, 17 dicembre. (...) Una fiumana di donne esauste e con lo
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Minnie Vautrin
sguardo stralunato stava arrivando. Hanno detto di aver passato una notte orrenda e che le loro case sono state visitate più e più volte dai soldati. (Bambine di dodici anni e donne di sessanta stuprate. Centinaia di donne costrette a lasciare le loro camere e una donna incinta minacciata con la baionetta. Se soltanto i giapponesi di buon senso conoscessero i fatti di questi giorni di orrore). Vorrei che ci fosse una persona qui che avesse il tempo di scrivere una triste storia per ogni persona - soprattutto quella delle bambine più giovani a cui è stato annerito il viso e a cui sono stati tagliati i capelli. (...) Pomeriggio passato al cancello - non è un compito facile controllare chi va e chi viene, evitare che entrino padri e fratelli, o che entrino altre persone con cibo e altro. Ci sono più di 4.000 donne nel campus (...).
Domenica, 19 dicembre. Questa mattina di nuovo donne e bambine dallo sguardo stralunato si sono riversate dal cancello - era stata una notte di orrore. Molte si sono inginocchiate e ci hanno implorato che le lasciassimo entrare - le abbiamo fatte entrare, ma non sappiamo dove dormiranno questa notte. (...) Ho passato il resto della mattinata ad andare da una parte all'altra dell'Università, cercando di far uscire i soldati, un gruppo dopo l'altro. Credo di essere salita tre volte a South Hill, poi al retro del campus e poi sono stata chiamata con urgenza alla vecchia Faculty House dove mi hanno detto che due soldati erano saliti al piano superiore. Là, dentro la stanza 538, ne ho trovato uno fermo davanti alla porta e uno dentro che stava già stuprando una povera bambina. La mia lettera dell'Ambasciata e la mia presenza li ha fatti scappare in fretta - nella mia rabbia vorrei avere avuto la forza di colpirli per le loro vili azioni. (...)
Martedì, 21 dicembre. I giorni sembrano interminabili e ogni mattina mi chiedo come si potrà sopravvivere alla giornata, dodici ore. (...) Mentre camminavo verso casa con il Signor Wang - non oserei uscire da sola - si è avvicinato un uomo molto turbato e ci ha chiesto aiuto. La moglie di ventisette anni era appena rientrata a casa dal Ginling e lì si era ritrovata di fronte e tre soldati. Il marito era stato costretto ad andarsene mentre lei era rimasta nelle mani di quei tre soldati. Questa sera dovremmo avere dalle sei alle settemila (nove o diecimila?) rifugiate nel nostro campus. Chi di noi ancora ce la fa a tirare avanti è sfinito - non sappiamo quanto a lungo potremo sopportare una tale pressione. In questo momento grandi incendi stanno illuminando il cielo a nordest, a est e a sudest. Ogni notte questi incendi rischiarano il cielo e di giorno le nuvole di fumo ci rivelano che saccheggi e distruzioni stanno ancora continuando. I frutti della guerra sono morte e desolazione. Non abbiamo assolutamente alcun contatto con il mondo esterno - non sappiamo nulla di ciò che sta accadendo e non possiamo lanciare alcun messaggio".

L'esercito giapponese sottopose altri Paesi occupati a dure repressioni, usando la tortura e lo stupro come mezzo di disprezzo e controllo delle popolazioni inermi. Particolare efferatezza venne usata nelle Filippine.
Questo il racconto di un giovane camionista americano internato in un campo di prigionia nipponico dove assistette alle violenze su una ragazza filippina: "Un sergente giapponese andava in giro e colpiva gli uomini con il calcio del fucile. Era ubriaco e voleva assicurarsi che tutti sapessero che era lui il capo. Infieriva sulle donne. Trovò un pezzo di cavo e legò strette le gambe della ragazza, all'altezza delle cosce. Lei urlava a squarciagola, e allora lui estrasse la baionetta e la colpì proprio in mezzo ai seni, squarciandola davanti a tutti".
La situazione, naturalmente, peggiorò dopo lo sbarco degli Alleati. Nella loro ritirata verso nord i soldati del "sol levante" si lasciarono andare a numerose atrocità. Vennero violentate molte donne; nemmeno le suore furono risparmiate.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale il Tribunale Internazionale di Tokyo, voluto dagli americani, si occupò anche del massacro di Nanchino, emettendo alcune condanne. Venne, tuttavia, concessa l'immunità a tutta la famiglia imperiale, compreso lo zio dell'imperatore che aveva precise responsabilità nel massacro.
BIBLIOGRAFIA
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  • I 300.000 morti di Nanchino: orrenda strage dimenticata, di T. Tussi, in "Patria indipendente", 24 febbraio 2008