Dalla fede nel separatismo siciliano al mito della sua imprendibilità, fino agli intrighi politici e al tradimento del suo luogotenente. Questa è la storia inquietante del bandito Turiddu.
Salvatore Giuliano:
il bandito-guerrigliero
di Montelepre
di RENZO PATERNOSTER
«O Giulianu con quali curaggiu a Portella ddu primu di Maggiu ti vinnisti coscienza e onuri e ammazzasti li lavuraturi». Sono le parole di un cantastorie siciliano che narra l'evento (una strage) che più di ogni altro porta scolpito il ricordo di uno dei banditi più famosi d'Italia: Salvatore "Turiddu" Giuliano.
Tra il 1943 e l'estate del 1950 Salvatore Giuliano è un uomo potente: uccide, minaccia, detta condizioni, comanda un piccolo esercito separatista di disperati, sequestra persone ricche per riscuotere taglie milionarie, commette stragi.
Giuliano con la sua banda costò all'Italia la vita di 149 persone: 42 civili, 5 militari dell'esercito (un ufficiale e 4 soldati) 81 militi dell'Arma (3 ufficiali, 24 sottufficiali e 54 carabinieri), 21 poliziotti (3 funzionari, 3 sottufficiali, 15 agenti). Tra i reati contestati alla banda, oltre agli omicidi e a tre stragi, ci sono 172 tentati omicidi (142 di militari e 30 di civili), 46 sequestri di persone. Giuliano tenta persino di sequestrare un uomo di Stato: il democristiano Bernardo Mattarella, allora sottosegretario ai Trasporti della neonata Repubblica italiana.
Soprattutto Giuliano entra a far parte di quelle pagine oscure che hanno indebolito e logorato la democrazia in Italia.

Salvatore Giuliano nasce il 16 o il 20 novembre 1922 in una piccola casa di via Castrense Di Bella a Montelepre, un paesino in
Clicca sulla immagine per ingrandire
Castelvetrano 5.7.1950
cadavere di Salvatore Giuliano
provincia di Palermo, situato in vetta a un colle che domina la valle del Nocella nella Sicilia nordoccidentale.
Il giovane "Turiddu" trascorre la sua infanzia come tutti i bambini del suo tempo: porta a termine le elementari, gioca con gli amici per strada, aiuta il padre, frequenta la chiesa del paese. Abbandonata la scuola, lavora con il padre nel piccolo appezzamento di terra acquistato con i sacrifici del lavoro in America. Ma al ragazzino non piace la vita in campagna, vuole fare altro. Salvatore va a fare l'operaio alle dipendenze di una ditta che installa cavi per l'energia elettrica. Qualche tempo dopo (ha già quattordici anni) trova un'altra occupazione presso la Società Elettrica Siciliana: si occupa della lettura dei contatori che registrano il consumo della corrente. Da questo mo¬mento è un alternarsi di mestieri.

La Seconda Guerra Mondiale lascia l'Italia in una condizione di desolazione economica e sociale. In Sicilia, poi, dove la miseria è tanta, le alternative alla sopravvivenza sono tre: la mafia, il banditismo e il contrabbando. La prima è vista come una sorta di potere parallelo allo Stato, le altre come una forma alternativa di sopravvivenza. Per questo Salvatore si dà al contrabbando di generi alimentari, ma lo fa solo per sfamare la famiglia. Questa attività, però, contribuisce a creare la storia del "bandito Giuliano".
A ventuno anni, infatti, il 2 settembre 1943, arriva un evento che cambia radicalmente la vita del giovane Salvatore: mentre trasportava con un mulo un carico di un'ottantina di chili di grano non in regola con le norme annonarie, in contrada Quarto Mulino di San Giuseppe Jato è fermato da una pattuglia di carabinieri e guardie campestri. Giuliano si vede puntare un fucile dal carabiniere Antonio Mancino. Al gesto del milite, Salvatore lo strattona e fugge verso un boschetto, ma è colpito da un proiettile al fianco sinistro. A questo punto, il futuro "bandito di Montelepre", estrae la pistola che ha nascosto è colpisce al cuore il carabiniere. Subito dopo riesce a fuggire e a nascondersi. Aiutato da qualcuno - del quale Salvatore non farà mai il nome con nessuno, neppure con i genitori - riesce a sottrarsi definitivamente all'arresto.
Turiddu da questo momento percorrerà la strada del banditismo.
Già in quell'anno compie attività criminose degne di un bandito competente: il 10 novembre prende d'assalto la polveriera di San Nicola a Montelepre, provocando diciotto morti.

Salvatore è braccato e un intero paese, Montelepre, è sotto assedio dalle Forze dell'Ordine. Rastrellamenti e perquisizioni sono all'ordine del giorno. Quasi quotidianamente, i carabinieri e la polizia fanno irruzione nella casa dei genitori di Giuliano o dei parenti. La vigilia del Natale del 1943 portano via suo padre che, rifiutatosi di collaborare, è rinchiuso in carcere per circa un mese, in isolamento, senza notizie da casa, preda degli "sbirri", che lo torchiano giorno e notte per tirargli fuori qualche indicazione, qualcosa che potesse mettere i carabinieri sulle tracce del figlio.
L'evento scatena in Turiddu un'ira incontrollabile che lo spinge alla vendetta: Salvatore si apposta in una strada da cui passano le camionette con gli arrestati e non appena arrivano a tiro scarica come un indiavolato il suo fucile, uccidendo il tenente Aristide Gualtiero e ferendo un altro carabiniere che gli stava accanto.
Su questo episodio abbiamo la testimonianza del cognato Sciortino, anche lui fermato dai carabinieri, il quale racconta: «Quando Giuliano seppe che un militare aveva preso a calci e pugni il padre per sapere dov'era il figlio, andò su tutte le furie e andò ad aspettare i carabinieri dove passavano i convogli e quando li vide arrivare aprì il fuoco: un carabiniere cadde e un altro rimase ferito».
Questo
Clicca sulla immagine per ingrandire
Gaspare Pisciotta parla col suo avvocato
omicidio, porta ancor più l'intero centro abitato di Montelepre ad essere stretto da una morsa opprimente e insopportabile: si moltiplicarono i posti di blocco e i rastrellamenti e tutti gli abitanti divennero prigionieri nel loro stesso paese.
La rabbia di Turiddu, consapevole di aver creato lui quella situazione insostenibile, lo porta a compiere raid contro le forze dell'ordine, anche per intimidire i singoli militari: compariva all'improvviso e sparava verso camionette e carabinieri in perlustrazione.
La rabbia di Turiddu contro chiunque collabora con i carabinieri, spesso si trasforma in vendetta mortale. Basta anche il semplice sospetto per essere condannati alla "pena di morte" da parte di Giuliano. E' il caso di Francesco Palazzolo, un ragazzo di diciassette anni accusato di aver sgarrato perché ritenuto una spia. Si racconta che Salvatore Giuliano, dopo aver avvertito il padre del comportamento del figlio, lo aspetta in pieno giorno nella piazza del paese e, senza compassione, lo uccide.
Brutta fine fanno, a Partinico, anche cinque picciotti, "colpe¬voli", secondo Giuliano, di aver fatto arrestare due dei suoi uomini. La sentenza è di morte: li fa prelevare in paese e portare in cam¬pagna, in contrada Ragoli; li fa legare e poi spara un colpo in testa ciascuno ai fratelli Giorgio e Paolo Perrotta, a Gaspare Mercadante, Pietro Sollina e Nino Di Franco.
La sua carriera, anche se agli esordi, è ormai collaudata e il timore suscitato dal suo nome è già degno di un capo mafia di lunga data.

Il primo nucleo della "banda Giuliano" è formato da persone scampate alla giustizia, piccoli delinquenti per lo più implicati nel contrabbando, ma anche da persone aiutate dallo stesso Salvatore. Infatti, si racconta ancora, che Turiddu, travestito da contadino, riesce a infiltrarsi nel carcere di Monreale (dove erano stati condotti gli arrestati della vigilia di Natale di cui abbiamo parlato) e a passare alcune lime e quindi a permettere l'evasione in massa di dodici persone: gli evasi costituiranno il primo vero nucleo della banda.
La combriccola di Giuliano dedica le sue attenzioni verso le persone benestanti e i proprietari terrieri, con ricatti, rapine, estorsioni e rapimenti per ottenere riscatti. Una parte dei proventi di queste attività, sono destinati da Turiddu ai monteleprini più bisognosi, anche per accaparrarsi la simpatia della popolazione del paese.
Le gesta del bandito non sfuggono alla mafia che decide di stringere un patto di alleanza. Si narra di un incontro tenutosi in un piccolo casolare tra un emissario di don Calogero Vizzini di Villalba, l'unico vero potere mafioso e politico in Sicilia, e Salvatore. Il bandito non vuole allearsi con i mafiosi, ma acconsente a versare una piccolissima parte dei riscatti pagati per i sequestri di persona.
Anche il movimento separatista è smanioso di ottenere l'aiuto di Giuliano e della sua banda. A quel tempo esistevano già movimenti separatisti, molti dei quali appoggiati dalla mafia, ma l'idea di avere l'aiuto militare della banda Giuliano rinfrancava i dirigenti del più grande movimento siciliano.
A fare da tramite tra Giuliano e i capi del Separatismo siciliano è Pasquale Sciortino (che sposerà Mariannina, sorella di Turiddu). Il futuro cognato di Turiddu, inviato dal barone Stefano La Motta, raggiunge Giuliano mentre si trova sulle montagne di San Giusep¬pe Jato, da dove controlla i movimenti di un centinaio di soldati che rastrellano la zona. Egli ha il compito di sondare il terreno per capire se Giuliano e la sua banda sono interessati a prendere parte alla lotta per l'in¬dipendenza della Sicilia. In un secondo tempo Sciortino porta sulle montagne l'avvocato Attilio Castrogiovanni, dirigente separatista, incaricato ufficialmente di stringere un patto d'al¬leanza con il "re di Montelepre": i capi del Mis (Movimento Indipendentista Siciliano) sono disposti a offrire a Giuliano il grado di colonnello e il comando di un contingente dell'esercito separa¬tista. Giu¬liano in un primo momento resta impietrito dinanzi alla proposta, ma poi accetta a una determinata condizione: ottenere la riabilitazione e la cancellazione di tutti i reati per sé e per tutti gli uomini della sua banda una volta ottenuta la separazione.
Salvatore Giuliano cede all'ideale separatista e giura di appoggiare la lotta dinanzi al simbolo del indipendentismo siciliano, la bandiera giallo-rossa. Pochi giorni dopo quel
Salvatore Giuliano cede all'ideale separatista e giura di appoggiare la lotta dinanzi al simbolo del indipendentismo siciliano, la bandiera giallo-rossa
giuramento solenne un manifesto con la firma di Giuliano è affisso sui muri di decine di paesi della pro¬vincia di Palermo, compreso Montelepre:
"Popolo, centomila lire al mese a chi vuole arruolarsi nella mia banda. Nel nuovo esercito di liberazione che si costituirà al solo scopo di lottare contro i nemici della libertà dei siciliani. In tale lotta possono partecipare anche le donne. Io non vi prometto niente, né vi faccio dei castelli in aria, solo in caso di vittoria vi saranno riconosciuti i sacri diritti umanitari, sociali e morali dell'uomo. State attenti e bocca chiusa, poiché molte spie possono insinuarsi per scoprirmi. Il modo di venire a me è quello di cercare la via fra amici che si riconoscono degni di appartenere a me".
La risposta alla "chiamata" è immediata ma certamente non è la massa che Turiddu si aspettava. Comun¬que, sono almeno duecento i giovani neo indipendentisti che scel¬gono la via tracciata da Giuliano. Contemporaneamente arriva la nomina a colonnello dell'Evis (il braccio armato del Movimento Indipendentista Siciliano), che gli è assegnata da uno dei capi del separatismo, il duca Franz di Cardaci. Il piccolo esercito entra subito in azione. La prima "fortezza" presa di mira è quella di Bellolampo. Poi è il turno della caserma di Pioppo, di Borgetto, di Grisi e di Montelepre.
L'adozione dell'idea separatista complica ancor più la latitanza del bandito-guerrigliero: ora è davvero in pericolo, egli non si sente più sicuro neppure sulle sue montagne e teme che qualche traditore lo possa con¬segnare alle forze dell'ordine.

Il decreto di amnistia per i reati politici firmato dal ministro di Grazia e Giustizia Palmiro Togliatti complica la lotta separatista, poiché quasi tutti gli indipendentisti siciliani si sono defilati dalla lotta e gli emissari dell'Evis non si fanno più sentire. A Giuliano, ormai solo sulle montagne, non resta che cedere ad una proposta portata da un giovane di poco più di vent'anni da parte della mafia: trasferirsi in un rifugio, una villa al mare, dove avrebbe dovuto trascorrere un periodo insieme con una donna, lontano dai pericoli della mon¬tagna.
Giuliano parte, si affida al piano dei boss di Cosa nostra e alla gentilezza della signora, istruita per far dimenticare al bandito le pene delle ultime settimane. Lì, nella villa, i giorni trascorrono sereni. Di ritorno sulle montagne Giuliano deve fare i conti con la realtà: egli è stato abbandonato dai suoi alleati dell'Evis ed ora deve contare solo sulle proprie forze.
Già deluso dalla fallimentare esperienza dei separatisti siciliani, si lascia convincere a guidare una sorta di "armata antibolscevica", sempre con la promessa dell'immunità per sé e i suoi uomini.
Dalle centinaia di documenti rinvenuti nel 1997 dallo storico Aldo Sabino Giannuli presso l'archivio dell'Ufficio Affari Riservati (noto anche come "Archivio Sis", ossia del Servizio Informazioni e Sicurezza), si apprende, infatti, che negli anni 1944-1947 Salvatore Giuliano e la sua banda sono direttamente collegati a gruppi eversivi neofascisti, monarchici e antibolscevichi, tra cui la Decima Mas, il Macri (Movimento Anticomunista Repubblicano Italiano), il Pnm (Partito Nazionale Monarchico), i Far (Fasci di Azione Rivoluzionaria), la Sam (Squadre Azione Mussolini).
Turiddu ha anche collegamenti con il servizio segreto statunitense attraverso il giornalista Michael Stern. E' proprio il giornalista a recapitare una lettera di Giuliano al presidente degli Stati Uniti Truman, nella quale il bandito chiedeva soldi e armi per combattere la "canea rossa".
Pare anche che a Giuliano sia stata "appaltata" la liberazione, mai attuata, del principe nero Junio Valerio Borghese confinato nell'isola di Procida.
In molte carte dell'Oss (Office of Strategic Services, l'allora spionaggio statunitense), si parla di Giuliano oppure di Giuliani, come «head of a fascist band in the Palermo province».
L'affiliazione con il neofascismo spiega perché Giuliano compie nel 1947 la prima grande strage dell'Italia Repubblicana, la strage di Portella della Ginestra, eccidio che segnerà definitivamente la vita di Turiddu di Montelepre.

Nel 1947, il 20 aprile, la Sicilia per la prima volta andò alle urne per eleggere l'assemblea Regionale. Il verdetto elettorale fu di 590.882 voti al Blocco del Popolo (social-comunisti), 329.182 alla Dc, 287.588 all'Uomo qualunque, 194.844 ai monarchici e 170.789 ai separatisti.
La vittoria delle sinistre caricava di particolare significato la celebrazione del Primo Maggio che, interrotta durante il fascismo, da alcuni anni era tornata a rivestire un ruolo importante per i lavoratori siciliani. L'appuntamento si ripeteva ogni anno a Portella della Ginestra, una vallata percorsa dal fiume Jato. Era un appuntamento importante quell'anno, visto la vittoria regionale del blocco social-comunista.
Clicca sulla immagine per ingrandire
Giuliano in posa col capomafia italo-americano Vito Genovese
Quel giorno avrebbe dovuto tenere il comizio un politico di rango, Girolamo Li Causi, che durante il fascismo aveva provato carcere e confino. Impegnato però in un'altra manifestazione, gli organizzatori avevano ripiegato sul giovane sindacalista Francesco Renda che, a sua volta trattenuto da un imprevisto alla sua motocicletta, sarebbe stato sostituito dal calzolaio Giacomo Schirò, segretario della sezione socialista di San Giuseppe Jato. Fu in quest'atmosfera di tensione sociale e ideologica che maturò la strage.
Giuliano, nel frattempo, si è rifugiato nella masseria dei fratelli Genovese. Qui è raggiunto da cognato Pasquale Sciortino, neomarito di sua sorella Mariannina, con una lettera inviatagli da sua madre Maria Lombardo. Letta la missiva, Giuliano la brucia e annuncia ai suoi fedelissimi "l'ora della liberazione". Chiamati i suoi uomini, li divide in due gruppi: il primo, al suo comando, avrebbe raggiunto la Pizzuta (una delle due alture che si trovano nella piana di Portella delle Ginestre); il secondo, al comando di Antonino Terranova, sarebbe arrivato sulla Cumeta (l'altra altura della Piana).
La mattina del 1° maggio del 1947, nella piana di Portella della Ginestra molta gente è giunta da San Giuseppe Jato, Altofonte, Piana degli Albanesi. Poco dopo le 9.30, quando il sindacalista Giacomo Schirò inizia a parlare, cade sulla folla una pioggia di proiettili: un quarto d'ora dopo si contano undici morti (ci sono pure due bambini) e ventisette feriti. Salvatore Giuliano è subito indicato come l'unico responsabile della mattanza. Ma Turiddu, pur ammettendo la presenza a Portella della Ginestra, rifiuta la responsabilità della strage, dichiarando di non aver mai dato l'ordine di sparare sui civili. Lo stesso fa in una lettera, inviata nell'aprile del 1950 ai giudici della Corte d'Assise di Viterbo, che lo processano per la strage in contumacia: quella doveva essere solo una sparatoria dimostrativa, "ma a qualcuno è tremata la mano", scrive Giuliano. Dobbiamo credere a Giuliano? Oppure quella strage fu voluta e pianificata da qualcuno per bloccare la pericolosa canea rossa siciliana?

Tra le tante strane coincidenze che ritroviamo nel periodo in cui Giuliano diventa il braccio armato dell'anticomunismo violento italiano, ci sono le armi utilizzate nella strage. Secondo i giudici del processo di Viterbo, tra le armi utilizzate dalla banda vi sono un fucile mitragliatore Breda mod. 30, calibro 6,5; un moschetto mod. 1891/38, calibro 6,5; un mitra automatico Beretta mod. 38, calibro 9. Ora si è scoperto che tra le armi in dotazione alla Decima Mas nel periodo 1943-1945, figurano un fucile mitragliatore Breda mod. 30, calibro 6,5; un mitra automatico Beretta mod. 38, calibro 9; un moschetto mod. 1891/38, calibro 6,5. Anche le bombe a mano Srcm (modello 35), utilizzate dalla banda Giuliano negli assalti ad alcune Camere di Lavoro nella provincia di Palermo, sono in dotazione alla Decima Mas. Gli assalti a colpi di mitra e bombe a mano, del 22 e 23 giugno dello stesso anno, alle sezioni comuniste di Partinico, Carini, Cinisi, Borgetto, Monreale, San Giuseppe Jato, vedono la presenza delle stesse armi in dotazione alla Decima Mas.
Altro particolare inquietante: la presenza di un certo Salvatore Ferreri (alias Fra Diavolo, alias lo "scugnizzo di Palermo", alias "Totò il palermitano", alias "Il vendicatore") alla strage di Portella della Ginestra. Fra Diavolo, si è scoperto, sarebbe stato a Milano agli ordini di Del Massa (uno dei capi dei servizi segreti di Salò), da cui riceve "Lire 500.000 per i servizi resi al Sud"; mentre nel 1946 è indicato da un documento Sis come "l'aiutante di Giuliano" in rapporto alle Sam (Squadre Azione Mussolini) di Milano, Venezia e della Calabria. Ferreri, inoltre, sarebbe stato un confidente dell'ispettore generale di Pubblica Sicurezza Ettore Messana, oltre ad essere in stretto contatto con la mafia della zona. Nella strage di Portella della Ginestra, Fra Diavolo utilizza, assieme ai fratelli Giuseppe e Fedele Pianelli (confidenti della Polizia), mitra automatici Beretta modello 38, calibro 9, gli stessi in dotazione alla Decima Mas.
Ferreri, unitamente a suo padre Vito, a suo zio Vito Corace e ai fratelli Pianelli (confidenti delle Forze dell'Ordine), morirà ucciso in un agguato teso da parte del colonnello Roberto Giallombardo la notte del 26 giugno 1947. Con la morte di Ferreri e dei fratelli Pianelli sparirono scomodi testimoni di un probabile patto scellerato tra pezzi di Stato, Mafia e banditismo.

All'indomani della strage di Portella tutti si rivoltano contro Salvatore Giuliano. Per questo motivo Giuliano si rifugia in montagna, cambiando continuamente rifugio. Ormai braccato e isolato da tutti si dà alla guerriglia con decine di attacchi a convogli militari e caserme dei carabinieri. La strage dei carabinieri di Passo di Rigano a Bellolampo, in provincia di Palermo, del 19 agosto 1949, da il via alla nascita del "Comando Forze
Il colonnello Luca è anche l'autore del progetto dell'assassinio di Giuliano
Repressione Banditismo", diretto dal colonnello dei carabinieri Ugo Luca, proveniente dal servizio segreto militare.
Il colonnello Luca non solo riesce subito a creare il vuoto attorno al bandito, con decine di uomini della banda che finiscono in manette, ma è anche l'autore - come vedremo - del progetto dell'assassinio di Giuliano.
Durante il processo per la strage, il luogotenente della banda Gaspare Pisciotta, detto "Aspanu", fa rivelazioni inquietanti: «Coloro che ci avevano fatto promesse di liberazione qualora avessimo fatto la strage si chiamano così: il deputato DC Bernardo Mattarella, il principe Gianfranco Alliata di Monreale, l'onorevole Leone Marchesano e il signor Scelba. [...] Furono Marchesano, il principe Alliata e l'onorevole Mattarella a ordinare la strage». Un giorno Aspanu, durante un'udienza, riesce persino ad urlare: «Banditi, mafia e carabinieri eravamo tutti una cosa come la Santissima Trinità: il padre, il figlio e lo spirito santo».
Il processo per la strage di Portella della Ginestra si conclude dopo duecento udienze, il 3 maggio 1952: la pena inflitta è di dodici ergastoli agli esecutori materiali, ma i nomi dei mandanti non vengono fuori. Nonostante processi, fiumi d'inchiostro, dibattiti politici, libri e film, il mistero giudiziario su quel giorno di sangue rimane. A Portella si compie la prima grande strage dalle trame oscure e dai contorni politici. Cui segue un misterioso avvelenamento in carcere. Gaspare Pisciotta promette nuove rivelazioni, ancor più scottanti di quelle già raccontate, ma qualcuno gli chiude definitivamente la bocca la mattina del 9 feb¬braio del 1954, ufficialmente con un caffè alla stricnina, ma probabilmente con una medicina "corretta" con veleno, mentre si trova rinchiuso in una cella del carcere palermitano dell'Ucciardone. Mi chiedo: perché eliminare Pisciotta, visto che ormai aveva ben poco da rivelare dopo quanto fece al processo di Viterbo? Un altro mi-stero. Già, ci sono tanti misteri legati a Turiddu di Montelepre. Sono davvero tanti, come la morte dello stesso Giuliano.

Sulla morte di Giuliano ci sono sedici versioni diverse. Ufficialmente Giuliano è ucciso il 5 luglio 1950 nel corso di un conflitto a fuoco con i carabinieri a Castelvetrano, nel cortile dell'avvocato De Maria. Ma da subito la verità appare un'altra, visto come fu ritrovato il corpo di Giuliano: petto in giù con la canottiera sporca di sangue fuoriuscito da due ferite provocate dai proiettili che erano però al di sotto della macchia. Insomma, pare che il sangue sia colato su, anziché farlo secondo la logica della fisica verso il basso. Anche alcune escoriazioni sospette sul braccio portano alcuni giornalisti ad avanzare l'ipotesi che Turiddu sia stato ucciso altrove. La "fantasia" dei carabinieri inizia a cozzare con quella dei giornalisti e della gente comune.
Nell'aprile del 1951 arriva un'altra versione: è quella di Gaspare Pisciotta. Rivela Aspanu nell'aula di Corte d'Assise, durante il processo per la Strage di Portella della Ginestra: «Avendo concordato col ministro Scelba, Giuliano è stato ucciso da me. Di tale uccisio¬ne mi riserbo di parlare». Pisciotta dice di aver ucciso Giuliano con due colpi di pistola: «L'ho fatto dopo un accordo con i carabinieri». In cambio, Aspanu avrebbe ottenuto la cancellazione di tutti i reati e una grossa somma di denaro.
Secondo il racconto dell'ex luogotenente di Giuliano, Pisciotta, d'accordo con il colonnello Luca avrebbe dovuto attirare Giuliano in un'imboscata per permettere ai carabinieri di arrestarlo. Tuttavia, temendo che il suo capo potesse sospettare il doppiogioco, lo uccide con due colpi di pistola mentre Giuliano è disteso sul letto nella casa di De Maria. Poi fugge. A questo punto il capitano Perenze, che si trova a poca distanza, in attesa di un segnale di Pisciotta, sale nel piccolo appartamento e trova Giuliano morto sul letto e così decide di trascinare il corpo del bandito nel cortile per la messinscena.
Secondo la verità di Giuseppe Sciortino, figlio di Mariannina Giuliano e di Paquale Sciortino, Pisciotta avrebbe fatto addormentare Giuliano con un sonnifero che lui stesso a messo nel vino, mentre Nunzio Badalamenti, un altro della banda, avrebbe sparato al bandito disteso sul letto.
Queste sono solo alcune tesi sulla morte del bandito Giuliano. Un'ultima sostiene finanche che al posto di Turiddu era morto un povero disgraziato, portato già cadavere nel cortile di Castelvetrano, mentre Giuliano sarebbe fuggito con una nave verso la Tunisia e da qui si sarebbe spostato prima in Algeria e quindi in Spagna, dove si sarebbero per sempre perse le sue tracce.
La verità è ancora lontana da appurare, visto che sui fatti si è deciso di imporre il "Segreto di Stato" fino al 2016.
BIBLIOGRAFIA
  • Storia di Salvatore Giuliano, di Galluzzo L. - Edizioni Flaccovio, Palermo, 1997
  • La guerra dei sette anni. Dossier sul bandito Giuliano, di Barrese O. e D'Agostino G. - Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 1997
  • Il carabiniere e il bandito. Resoconto inedito della fine di Salvatore Giuliano, di Lo Bianco G. - Mursia, Milano, 1999
  • Salvatore Giuliano. Morte di un capobanda e dei suoi luogotenenti, di Casarrubea G. - Franco Angeli, Milano, 2001
  • Salvatore Giuliano: il re di Montelepre, di Vecchio A. - Antares, Palermo, 2001
  • Salvatore Giuliano. Una biografia storica, di Renda F. - Sellerio, Palermo, 2002
  • Salvatore Giuliano, un bandito fascista, di Giannuli A. S. - rivista Libertaria, anno 5, n. 4, ottobre - dicembre 2003.
  • Salvatore Giuliano bandito a stelle e strisce, di Vasile V. - Baldini Castoldi, Milano, 2004
  • Turiddu Giuliano, il bandito che sapeva troppo, di Vasile V. - l'Unità, Roma 2005
  • Lupara Nera. La guerra segreta alla democrazia in Italia 1943-1947, di Casarrubea G. e Cereghino M. J. - Bompiani, Milano, 2009
  • Bandito Giuliano la prima storia di criminalità politica e terrorismo, di Lomartire C. M. - Mondadori, Milano, 2009.