Osteggiato dal Vaticano e dal Governo, il viaggio in Urss del presidente Gronchi nel febbraio del 1960 si risolse in un vivace scontro verbale nei locali della nostra ambasciata a Mosca. Ad accendere le polveri l'irruento capo del Cremlino, il cui atteggiamento provocatorio mise fine all'ambiziosa politica estera "parallela" del Quirinale.
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Una baruffa a scena aperta di fronte a centinaia di invitati - corpo diplomatico al completo, le più alte cariche del governo sovietico e corrispondenti stranieri - nei locali dell'ambasciata italiana a Mosca. Così è passato alla storia il momento clou della visita di Giovanni Gronchi in Urss mezzo secolo fa. Una visita che suscitò aspre polemiche per la sua opportunità politica, per come fu gestita l'iniziativa ma soprattutto perché mise in luce il doppio registro della politica estera italiana: da un lato le scelte rigorosamente atlantiste dell'esecutivo, caratterizzate da un atteggiamento di basso profilo rispetto ai grandi temi del disarmo e della distensione, dall'altro l'interventismo di Gronchi, che dal Quirinale si faceva portavoce di una sorta di diplomazia parallela, spesso in competizione, se non in contrasto, con gli atteggiamenti del Ministero degli Esteri. Il risultato fu un battibecco tra Gronchi, Pella e l'irruento Kruscev che poco mancò di trasformarsi in un incidente diplomatico. E che costò il pensionamento anticipato del nostro ambasciatore a Mosca, venutosi a trovare al centro di questo bisticcio di poteri.
Ma è tutta la vicenda ad essere a suo modo esemplare. Quel viaggio fu infatti un vero e proprio caso da manuale nella difficile arte della gestione delle relazioni diplomatiche, caratterizzato come fu da pesanti condizionamenti interni imposti dal Governo e dal Vaticano, dall'ampiezza degli scenari di crisi internazionale sul tappeto ma, soprattutto, dalla velleitaria ambizione di fare del nostro Paese un mediatore autorevole rispetto a quegli stessi scenari.
Il 1959 si era chiuso senza mettere fine allo stato di tensione mondiale inaugurato l'anno precedente. Con Eisenhower gli Usa avevano scelto una linea interventista in Medio Oriente, suscitando i malumori di Mosca, che a sua volta doveva difendersi da un competitore ideologico come la Cina maoista. Certo, l'Urss poteva vantare il recente successo dello Sputnik e Kruscev stava rilanciando al mondo intero la parola d'ordine del superamento dell'Occidente nel giro di un lustro. Ma per fare ciò doveva sottrarre risorse alle spese militari convenzionali. Da qui l'altra parola d'ordine, "disarmo", con cui blandire l'Occidente appoggiandosi alle campagne di stampa organizzate dai partiti comunisti amici. Prima però occorreva rimarginare la ferita tedesca: la divisione tra i due Paesi, infatti, non era stata sancita da un definitivo accordo di pace. Le voci di una militarizzazione della Repubblica federale avevano quindi indotto Kruscev a provocare una crisi, minacciando il riconoscimento di quello status quo che Adenauer e tutto l'Occidente speravano ancora di impedire.
In questa delicata vertenza Gronchi decise di giocare un ruolo attivo, praticando una personale ostpolitik di apertura verso il gigante sovietico. Ma la cosa prese fin da subito una piega inaspettata.
A mettere i bastoni tra le ruote a Gronchi ci pensò il sanguigno cardinale Alfonso Ottaviani, segretario della Congregazione del Sant' Uffizio. Già un paio d'anni prima del viaggio a Mosca, il cardinale aveva accusato di "tradimento" tutti gli esponenti della Democrazia Cristiana che «osano prendere le parti di chi, non solo offende, ma addirittura massacra la Chiesa». L'ammonimento, in forma velata, pare fosse rivolto al ministro per i rapporti con il parlamento Rinaldo Del Bo, che aveva auspicato un dialogo aperto con l'Urss. Dialogo che veniva invece interpretato dalla Santa Sede, così come da ampi settori della Dc e dal Pli, come un cedimento al Pci in vista di un coinvolgimento delle sinistre al governo. L'avvertimento era quindi già stato lanciato.
Nel gennaio del 1960, a viaggio di Gronchi programmato, il cardinale tornò sul tema in modo ancora più esplicito. Rivolgendosi ad alcuni dissidenti dell'est durante un'allocuzione nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma disse: «Finché sarà possibile a Caino massacrare Abele, senza che nessuno se ne risenta; finché sarà possibile tenere in schiavitù nazioni intere, senza che vi sia chi prenda le difese degli oppressi; finché sarà possibile, pur dopo tre anni dall'insurrezione ungherese, vedere continuare lo stillicidio di condanne a morte di studenti, contadini, operai, rei di avere amato la libertà, soffocata dai carri armati stranieri, senza che il mondo inorridisca a tanto delitto, non si può parlare di vera pace, ma solo di acquiescenza e di coesistenza con l'indisturbato massacratore». E ancora: «Sono decenni che, in nome di presunte teorie umanitarie e sociali, si è inaugurata nel mondo una sfacciata tecnica di governo da parte di chi, impadronitosi del potere - e non sto a dirvi con quali metodi - e, avute in mano le leve del comando, deporta, imprigiona, massacra. [...] In pieno secolo Ventesimo, si sono dovuti deplorare genocidi, deportazioni di massa, stragi come quelle delle fosse di Katyn, massacri come quelli di Budapest».
La stampa di sinistra tuonò all'illegittima ingerenza della Chiesa negli affari politici del Paese, contestando non solo la ricostruzione storica diffusa dal pulpito ma criticando aspramente il passaggio in cui il cardinale paragonava il leader del Cremlino a Hitler. «Quando Hitler venne a Roma il papa lasciò la città», aveva infatti aggiunto Ottaviano. Con ciò lasciando intendere che se Kruscev fosse stato invitato nella città eterna il Santo padre si sarebbe comportato analogamente. Ma anche, ed era una lettura più sottile, che una eventuale partecipazione del Pci al governo avrebbe indotto i vertici della Chiesa a rivedere le loro posizioni rispetto alla Dc.
Nulla di nuovo sotto il sole. Perché a ben vedere il discorso di Ottaviani era stato anticipato dallo stesso pontefice durante il messaggio natalizio al Sacro Collegio. Sfumature lessicali a parte, la posizione di Giovanni XXIII, pontefice al quale non può certo imputarsi un particolare accanimento anticomunista, era del tutto simile. «La pacificazione, che la Chiesa auspica - aveva spiegato -, non può essere in alcun modo confusa con un cedimento o un rilassamento della sua fermezza nei confronti di ideologie e sistemi di vita, che sono in opposizione conclamata e irriducibile colla dottrina cattolica; né significa indifferenza di fronte al gemito, che arriva ancora fino a noi, dalle regioni infelici, dove i diritti dell'uomo sono ignorati, la menzogna è adottata per sistema. Né tanto meno si può dimenticare il doloroso Calvario della Chiesa del Silenzio, la dove i confessori della fede, emuli dei primi martiri cristiani, sono sottoposti a sofferenze e a tormenti senza fine per la causa di Cristo. Queste constatazioni mettono in guardia da un eccessivo ottimismo: ma rendono tanto più fervida la nostra preghiera per un ritorno veramente universale al rispetto della umana e cristiana libertà».
Ciò nonostante, alle irruente considerazioni cardinalizie gli ambienti cattolici risposero con una buona dose di indifferenza. Nel nome di un quieto vivere che prefigurava la fine del centrismo, Ottaviani non fu difeso né dall'organo ufficiale del Vaticano né da quello della Dc: l'Osservatore Romano non ne pubblicò il discorso mentre il Popolo scelse di nasconderlo in quarta pagina, evitando commenti. La cosa non passò inosservata alla penna sarcastica di Ricciardetto, al secolo Augusto Guerriero, che su Epoca commentò: «molti cattolici hanno l'occhio o il cuore fisso a manovre o "aperture" politiche o parlamentari. E si comportano come quel tal contadino meridionale [...] che, davanti all'immagine di San Michele nell'atto di trafiggere il dragone, usava accendere due candele, una più grossa e l'altra più piccola: e, interrogato perché facesse così, rispondeva: "Signore mio, nun si sà mai. Pò succede ca vence o dragone". Così pensano o sentono molti dei nostri cattolici. E, in una parola, il coraggio non è la principale delle loro virtù».
Dal suo osservatorio privilegiato Gronchi osservò con apprensione l'inasprirsi del clima politico proprio a ridosso del viaggio, inizialmente programmato per l'8 gennaio 1960. Non era bastato a prevenire i malumori della Santa Sede fare in modo che l'invito giungesse dal maresciallo Voroscilov, presidente del Presidium dell'Urss; una cautela che avrebbe consentito all'Italia di ricambiare la visita evitando l'arrivo a Roma del ben più esuberante Kruscev. Ma le polemiche appena viste - legate a filo doppio alla notizia di nuove condanne a morte eseguite a Budapest contro gli insorti del 1956 - indussero il Quirinale a interporre un ulteriore mese di decantazione, escogitando per Gronchi quella che a molti parve un'influenza "diplomatica". Tanto più che, sempre a gennaio, il settimanale sovietico "Vita Internazionale" - facendo sue le informative dell'ambasciatore sovietico a Roma, secondo il quale l'atlantismo di Gronchi si era molto raffreddato - aveva invitato l'Italia ad abbandonare la Nato e a seguire una politica neutrale. Accorrere al Cremlino in quel clima sarebbe apparso diplomaticamente sconveniente. Fu scelto quindi di posticipare la visita al 6 febbraio, confidando in un naturale abbassamento della temperatura politica.
A febbraio Gronchi si predispose quindi al viaggio con animo aperto, deciso a mettere in pratica i principi di una distensione internazionale che l'ascesa di Kruscev sembrava rendere praticabile. E che a suo modo di vedere non era stata colta appieno dagli altri leader occidentali.
Forte di questa alta considerazione del proprio ruolo, nei mesi precedenti Gronchi aveva organizzato l'incontro fuori dai tradizionali canali istituzionali, scavalcando il Ministero degli Esteri e contattando direttamente l'ambasciatore a Mosca, Luca Pietromarchi, del quale apprezzava la sintonia rispetto a una partecipazione più attiva dell'Italia alle grandi scelte internazionali. L'irritualità di tali contatti e lo stabilirsi di un canale diretto tra Quirinale e Cremlino avevano però suscitato il disappunto del Presidente del Consiglio, Antonio Segni, e del Ministro degli Esteri, Giuseppe Pella. Entrambi sentivano di essere stati scavalcati nelle loro prerogative istituzionali e intravedevano nell'attivismo presidenziale il rischio di nuovi attriti, non solo tra il Colle e l'esecutivo, ma anche rispetto alla chiarezza delle posizioni di politica estera italiane.
Del resto Gronchi non era nuovo a una interpretazione estensiva - potremmo dire quasi "presidenzialista" - del suo mandato. Primo presidente cattolico dopo i laici Enrico De Nicola e Luigi Einaudi, Gronchi era stato uno dei fondatori del Partito popolare. Volontario nella Prima guerra mondiale era entrato in Parlamento nel 1919 fino ad ottenere la carica di sottosegretario all'industria nel primo governo Mussolini, per poi abbandonare l'ufficio in seguito al delitto Matteotti. Appartenente alla corrente di sinistra Dc, dopo l'avvento della Repubblica aveva contestato la scelta atlantista di De Gasperi. Una scelta che rispettò sempre, ma alla quale rimase intimamente avverso, auspicando in cuor suo una collocazione meno vincolata a Washington e più aperta a scelte contingenti. Non a caso, il giorno del suo insediamento al Quirinale gli applausi più appassionati - e interessati - erano giunti proprio dai banchi delle sinistre, che ne avevano apprezzato il discorso tutto incentrato sulla distensione, la pace e il disarmo.
Gronchi reinterpretò quindi la carica di Capo dello Stato con ampio margine di discrezionalità, ricavando per sé larghi spazi di manovra, lavorando attivamente per dare vita al centrosinistra e svolgendo un ruolo guida durante le crisi di governo. Ma era la politica estera, dove però scontava una minore preparazione e capacità di analisi, a suscitare in lui l'attrazione più forte. Hanno osservato Indro Montanelli e Mario Cervi ne L'Italia dei due Giovanni: «Gronchi aveva molte ambizioni: una delle quali era la realizzazione d'una politica estera del Quirinale, parallela alla politica estera governativa. Prima che Moro inventasse le convergenze parallele, Gronchi aveva inventato le divergenze parallele». E dietro al suo atteggiamento disinvolto e pratico si nascondeva una buona dose di velleitarismo. Continuano Montanelli-Cervi: «Gli alti personaggi che sostavano al Quirinale s'accorsero che sotto l'eloquio nitido e forbito di Gronchi non c'era la concretezza d'un disegno preciso, e soprattutto la possibilità di attuarlo, ma solo un'approssimativa e confusa voglia d'inserimento nel grande scacchiere internazionale. Le mosse che Gronchi suggeriva erano il più delle volte intempestive, o tali da insospettire gli alleati senza veramente interessare gli avversari». I suoi rapporti con l'ambasciatore americano a Roma furono sempre molto difficili. E poco mancò che si guastassero anche quelli con gli Stati Uniti dopo una serie di incontri al Quirinale con l'ambasciatore sovietico per studiare una proposta di disarmo e di unificazione delle due Germanie in uno stato neutrale. Proposta che mandò su tutte le furie Segni e l'allora Ministro degli Esteri Gaetano Martino, tenuti all'oscuro di tutto. Messi sull'avviso, i due non si faranno trovare impreparati di fronte all'attivismo presidenziale in occasione della crisi di Suez: saranno infatti Segni e Martino a bloccare l'invio di una missiva di Gronchi al presidente americano Eisenhower in cui si auspicava un asse Roma-Washington per risolvere i problemi del Medio Oriente, scavalcando così la posizione anglo-francese dell'esecutivo e della Farnesina.
Il viaggio a Mosca si inserì in questo clima. Visti i precedenti, tutto lasciava pensare che anche questa volta attriti e imbarazzi avrebbero fatto da cornice alla missione. Alcuni commentatori osservarono che il viaggio di Gronchi poteva avere una valenza "interna": indurre l'Urss a fare pressioni sul Pci affinché concedesse al Psi, allora legato a filo doppio a Botteghe Oscure, una maggiore libertà di manovra in vista di un'apertura a sinistra della Dc. Ma non solo. Nei giorni immediatamente precedenti l'arrivo di Gronchi il nostro ambasciatore a Mosca faticò a spegnere le eccessive aspettative di alcuni esponenti sovietici: l'Italia, spiegò al Cremlino, non aveva alcuna intenzione di abbandonare l'Alleanza atlantica né tanto meno di indebolirla. Tuttavia, proprio il fatto che il funzionario dovesse ribadire il concetto dimostra quanto confuso fosse il motivo della missione e quanto sfuggente risultasse agli osservatori esterni la nostra collocazione internazionale.
L'aereo presidenziale giunse a Mosca nel primo pomeriggio del 6 febbraio. Inizialmente la visita si incanalò sui binari del più stretto formalismo, con pacate dichiarazioni di intenti da parte di entrambe le delegazioni. Durante il primo breve discorso seguito al pranzo al Cremlino Gronchi spiegò che «pur partendo da concezioni così profondamente diverse dello Stato e della vita individuale e sociale, e da posizioni internazionali, cui, da una parte e dall'altra, intendiamo restare fedeli, possiamo parlare, io credo, con animo aperto delle gravi questioni che preoccupano tutti gli uomini di Stato, noi compresi, e che ci fanno tutti corresponsabili dei singoli popoli per l'adempimento del compito più alto, che ci preme in questo momento: vincere la tentazione della violenza e allontanare così il pericolo di insanabili contrasti, apportatori di guerra». Da parte sua Voroscilov spiegò che in agenda avrebbero messo questioni bilaterali di ordine economico, senza tuttavia trascurare gli aspetti di politica estera: «Durante il suo soggiorno a Mosca noi discuteremo questioni internazionali inerenti all'ulteriore sviluppo delle relazioni italo-sovietiche e anche problemi internazionali interessanti entrambi i Paesi».
Ma fu Kruscev a conquistare subito la scena con il suo fare istrionico e informale. Nei colloqui a porte chiuse - raccontati da Pietromarchi nei suoi Diari - si esercitò infatti nell'arte della provocazione, punzecchiando alternativamente Gronchi e il ministro Pella. Prima lamentandosi in modo esplicito del precedente ambasciatore italiano a Mosca, Mario Di Stefano. Poi invitando gli ospiti italiani a riporre maggior fiducia nel comunismo, perché la sua dottrina, spiegò, si sarebbe imposta naturalmente alle coscienze di tutti gli uomini del mondo nel giro di pochi anni, senza bisogno della forza.
Ma il grande problema, aggiunse, sono i missili Nato che l'Italia è disposta ad accettare sul suo territorio. «La vera via è il comunismo. Ci dispiace che non ci crediate. Costruiremo il comunismo e abbiamo nei nostri programmi la lotta ideologica. Perché fare le rampe dei missili? Che ne pensa ministro Pella?». «Ne ho fatte poche [di rampe missilistiche]», rispose Pella. «Per bruciare una città basta un fiammifero», incalzo Kruscev. «Ma quel fiammifero non si accenderà», tagliò corto Pella. All'ulteriore replica di Kruscev - «Ma quel fiammifero è là e non vi appartiene» - rispose Gronchi: «Siamo pienamente padroni in casa nostra. L'Italia ha solo 250.000 uomini sotto le armi. Meno di così non si può andare né vedo quale riduzione di forze sia ancora possibile». Al siparietto pose fine il leader sovietico: «lasciamo parlare i nostri due ministri altrimenti non avranno nulla da fare. A che serve la loro testa? A portare il cappello?». Il giorno successivo ci fu una replica nella dacia di Kruscev, con un imbarazzato Pella preso di petto dal padrone di casa («Come mai voi che avete una faccia così pacifica siete capace di tante cattiverie? Ho letto i vostri discorsi...») e poi costretto a una gara di bevuta di vodka che si concluse senza vincitori né vinti.
Qualche giorno prima Kruscev aveva incontrato in forma privata Henry Cabot Lodge, capo della delegazione statunitense all'Onu, in visita con la moglie a Mosca. Sul tavolo delle trattative c'era la nuova crisi a Berlino, aperta ufficialmente nel 1958. All'epoca lo status delle due Germanie non era ancora stato definito, pur essendo ormai evidente la loro appartenenza ai rispettivi blocchi. I sovietici, temendo l'installazione di missili nucleari nella Germania occidentale, decisero di giocare la carta di Berlino: minacciarono di farne una città libera e smilitarizzata e di procedere autonomamente nella firma dell'accordo di pace con la Repubblica Democratica Tedesca (Rdt). Ciò avrebbe significato trasferire alla Rdt i diritti detenuti dall'Urss come potenza occupante e obbligare Stati Uniti, Inghilterra e Francia a negoziare con Pankow le modalità di accesso alla parte occidentale della città, di fatto riconoscendone ufficialmente il governo. Va osservato, per inciso, che il cancelliere della Germania Federale (Rft), Adenauer, d'accordo con gli Stati Uniti, non riconosceva la Rdt e si atteneva alla cosiddetta "dottrina Hallstein": cioè interruzione immediata delle relazioni diplomatiche con qualsiasi stato avesse riconosciuto il governo tedesco-comunista. A complicare la situazione si aggiungeva il problema del flusso ininterrotto di tedeschi dell'est che attraverso Berlino fuggivano in occidente (sarebbero stati oltre 150.000 nel 1960), creando malumori a Mosca e rovinando l'immagine della Rdt.
Con Cabot Lodge il leader sovietico fece fuoco e fiamme, accusando gli Stati Uniti di ordire intrighi contro di lui, di manifestare un falso spirito distensivo ma di imporre ai propri alleati atteggiamenti intransigenti. Lodge non era d'accordo e ribattè rimproverandogli gli intrighi con la Cina e con i Paesi del Medio Oriente. I due si lasciarono di malo modo. Ma la sanguigna esuberanza di Kruscev invece di sbollire subì un crescendo nei giorni successivi. Per esplodere durante il ricevimento nella nostra ambasciata.
La mattina del giorno 8, durante le conversazioni ufficiali al Cremlino Gronchi avrebbe voluto introdurre subito il tema generale della distensione e del disarmo, un disarmo, spiegò al suo interlocutore, che «si operi, prima che nelle armi e negli eserciti, negli spiriti». Insomma, esplorare l'interlocutore sui grandi temi generali per valutarne la disponibilità al dialogo in vista di successivi incontri internazionali Ma senza troppi preamboli Kruscev portò la questione sul tema che in quel momento più gli stava cuore: Berlino. I Diari di Pietromarchi rendono quasi palpabile il clima di tensione in cui si svolsero i colloqui, con un Kruscev sempre all'attacco, capace di rovesciare sulla coppia Gronchi-Pella un fiume in piena di parole e di accuse contro la Nato e l'occidente. «Vorrei sapere - intimò il leader sovietico - per quali ragioni esiste ancora uno stato di guerra fra gli ex alleati e la Germania. Quali motivi esistono? Ditemeli se li conoscete». E ancora: «Perché volete mantenere una situazione di guerra in Berlino e nella Germania Orientale quando la guerra non c'é?». Gronchi, che a una minuziosa discussione sullo stato di crisi nell'ex capitale tedesca probabilmente non era preparato, riuscì tuttavia a difendersi con ardore, rintuzzando gli attacchi dell'avversario, proponendo la tesi dell'unificazione della Germania in un'unica entità statale e ribadendo con forza l'importanza dell'autodeterminazione dei popoli nel scegliere il proprio destino. Ma Kruscev fu irremovibile: «Il mondo è diviso in due campi, il capitalista e il comunista. Vogliamo riconoscere e delimitare questo stato di fatto? Modificare la frontiera tra questi due mondi senza una guerra è impossibile. La frontiera del mondo capitalista passa al di là dell'Elba».
Qualche ora dopo, il ricevimento nella nostra ambasciata avrebbe potuto costituire un piacevole intermezzo distensivo. Ma il clima, pesantemente condizionato da un Kruscev più irrequieto del solito, era ormai compromesso. Il leader sovietico giunse all'appuntamento verso le 18, in anticipo di pochi istanti rispetto a Gronchi. Dovette perciò attendere il nostro presidente e la cosa, probabilmente, contribuì ad acuirne il malumore. Dopo i convenevoli di rito Gronchi lesse il suo intervento (la cronaca che segue è attinta dal resoconto di Maurizio Ferrara su "l'Unità"), ancora una volta ispirato ai canoni dell'amicizia e della distensione. «Secondo le intenzioni del Governo e mie, questa nostra presenza qui vuole significare che l'Italia è persuasa della utilità di sviluppare nuovi e più fecondi rapporti con l'Urss ed è disposta a favorire sinceramente tale sviluppo», al fine di giungere anche «al miglioramento delle relazioni tra l'Urss e l'Occidente in generale».
Il protocollo prevedeva una replica di Voroscilov, ma ad avvicinarsi al microfono fu un Kruscev estremamente risentito e deciso a ribadire che l'Urss non era disposta a sacrificare nulla di quanto ottenuto sul campo dall'Armata rossa nel maggio del 1945. Da improvvisato ma astuto conoscitore delle regole della comunicazione, sfruttò la presenza di tutta la stampa internazionale per lanciare un messaggio alla Nato, parlando a nuora perché suocera intendesse. Per una vera distensione internazionale, replicò nel suo discorso a braccio, «è essenziale liquidare i residui della seconda guerra mondiale: e perciò innanzitutto firmare il trattato di pace con la Germania, e in particolare liquidare il regime di occupazione in Berlino Ovest». Non bastano i buoni auspici o le intenzioni pacifiche, ribattè al suo interlocutore, «noi diciamo che quello che è stato modificato con la guerra non può essere modificato senza la guerra». Le due Germanie restino quindi separate e a Berlino ovest si assicuri libertà di transito, aggiunse. Seguì quindi un vero e proprio show sui successi del comunismo sovietico («il regime più democratico di tutti i regimi democratici»), abilmente inframmezzato da battute e facezie: «Nel regime capitalista è più intelligente chi ha più dollari. Nel regime socialista è più intelligente chi ha più intelligenza. Rifletteteci e dopo mature riflessioni diventerete comunisti. Non perdete il vostro tempo, non tornate indietro». Analogo invito ad abbracciare il comunismo Cruscev rivolse anche a Pella, in un informale botta e risposta (Gronchi, da parte sua, ribattè auspicando che la grazia divina scendesse sul Cremlino inducendo il leader sovietico a iscriversi alla Dc).
Al momento del brindisi Kruscev fece seguire un brusco cambio di registro che spiazzò ulteriormente la nostra delegazione. «Chi ha fatto di più: da voi la Dc o da noi in soli 40 anni il Partito comunista?». E incalzando subito dopo Pella: «Chi è che non vuole la pace? Voi, signor ministro, per esempio, siete contro la pace?». All'imbarazzato «no» di Pella, che non sia aspettava un approccio così diretto, replicò: «e allora perché non volete il trattato di pace con la Germania?». Pare che a togliere le castagne dal fuoco sia giunto il provvidenziale invito a levare i calici da parte di un esponente della delegazione italiana. Al quale Kruscev non evitò un ulteriore commento sarcastico: «I diplomatici non vogliono che noi discutiamo troppo; ma l'argomento scelto per farci smettere è buono. Beviamo per la pace».
La notizia del clamoroso bisticcio pubblico, che i giornalisti, ignari delle premesse mattutine, accolsero come un fulmine a ciel sereno, fece il giro del mondo. Certo, alle uscite irrituali di Kruscev la diplomazia internazionale era ormai abituata. Il primo ministro francese Guy Mollet aveva definito i colloqui avuti con lui nel 1956 come i più brutalmente franchi di tutta la sua carriera. Analogamente accadde a Nixon, che battibeccò a lungo con Kruscev durante la visita agli stand dell'esposizione americana a Mosca del 1959. Ma Gronchi aveva sperato fino all'ultimo di sfuggire al trattamento riservato ai precedenti ospiti, se non altro in nome della fama terzista che lo aveva preceduto nella capitale sovietica.
La stampa vicina alle posizioni del governo commentò aspramente i risultati della missione, conclusa un paio di giorni dopo con la firma di alcuni accordi a carattere economico e culturale. «Quello che è accaduto stasera all'ambasciata d'Italia [...] è stato un episodio mortificante che ha castigato come merita quella nostra nazionale leggerezza, quel nostro inconsulto desiderio di nobiltà, quel costume di imposizione e di azzardo di cui non riusciamo a guarirci», scrisse l'inviato del "Messaggero". «Da quando siamo arrivati a Mosca non abbiamo fatto altro che lustrare le scarpe ai padroni del Cremlino», rincarò la dose Enrico Mattei su "Nazione Sera". Alfio Russo, su la "Nazione", sostenne che «non c'era bisogno che Gronchi andasse a Mosca per ascoltare il discorso che Togliatti ripete in Italia da quindici anni». Secondo Luigi Barzini junior ("Corriere della Sera") l'esito disastroso del ricevimento sarebbe stato istruttivo «per quelle migliaia di illusi che, nel nostro paese, credono che stia scendendo dal cielo sovietico la manna della distensione». Sul "Tempo" D'Andrea scrisse che «mai i paesi occidentali avrebbero dovuto adottare il sistema delle trattative con Mosca in ordine sparso, che indebolisce tutti e soprattutto la Germania». Il Partito liberale, in un comunicato stampa, contestò le ambizioni presidenziali: «Chi va riempiendosi la bocca di una politica di prestigio, da perseguirsi attraverso mediazioni, attive presenze, inserimenti audaci e simili, è largamente servito. Speriamo almeno che la lezione non vada perduta».
Toni moderati invece sulla "Stampa": «Si voleva esplorare lo stato d'animo sovietico e ciò si è fatto con risultati chiarissimi». In difesa si schierò invece Giovanni Ansaldo, dalle colonne del "Mattino", ricordando che era inutile recitare un mea culpa quando il fallimento era da imputare a Kruscev. Per bocca di Luigi Pintor, "l'Unità" si esercitò invece in una netta separazione tra meriti e colpe. I primi a carico di Gronchi, che ha così avuto modo di «riconoscere la grandezza della realtà socialista, gli indirizzi pacifici della politica sovietica, la necessità di un confronto e di un incontro sul terreno della coesistenza e della collaborazione internazionale». Le seconde da imputarsi a Pella: «È quando Kruscev ha posto sul tappeto la questione tedesca, con la chiarezza e l'energia necessarie, che Pella e il suo seguito hanno reagito come emissari del cancelliere tedesco. Ed è in difesa dei revanchisti tedeschi che la stampa italiana è scesa in campo...».
Pietromarchi fu accusato di non aver gestito nel migliore dei modi la fase preparatoria del viaggio (probabilmente pesò nella cattiva disposizione sovietica anche il recente rifiuto italiano a pagare un'ultima tranche di riparazioni di guerra) e fu messo a riposo qualche mese dopo, con il pretesto dei raggiunti limiti d'età. In realtà nei suoi confronti la Farnesina consumò una vendetta per interposta persona. Ha scritto Bruna Bagnato: «era del tutto evidente che, non potendo colpire Gronchi, - il vero bersaglio, perché colpevole di proporre il Quirinale come centro emanatore di direttive di politica estera eccentriche, se non proprio alternative, a quelle indicate dalla Farnesina, e di riflesso, di interferire pesantemente nella delicata dialettica che si svolgeva sul piano interno - si colpiva lui, che a Gronchi era legato sul piano umano e professionale, e che soprattutto ne condivideva l'intenzione di fare della Presidenza della Repubblica un attore di primo piano nella elaborazione della strategia internazionale del Paese».
Il fallimento della missione lasciò un segno anche in Gronchi, che nel discorso di fine anno vi accennò, quasi a scusarsi dell'eccesso di aspettative suscitate dodici mesi prima. La querelle su Berlino, invece, si sarebbe "risolta" nell'agosto 1961 con la costruzione del muro.
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BIBLIOGRAFIA
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I Diari di Luca Pietromarchi, ambasciatore italiano a Mosca (1958-1961), a cura di B. Bagnato - Leo S. Olschki, Firenze 2002
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"Giovanni Gronchi: il Presidente del miracolo economico", di A. Marucci, in I Presidenti. Da Enrico De Nicola a Carlo Azeglio Ciampi - Istituto Geografico De Agostini, Novara 2006
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L'Italia dei due Giovanni, di I. Montanelli e M. Cervi - Rizzoli, Milano 1989
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"Epoca", n. 489 e n. 490, febbraio 1960
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"l'Unità", 9, 10 e 11 febbraio 1960
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