Le prime ipotesi per rafforzare l'esecutivo risalgono a due comitati parlamentari istituiti nei primi anni '80, cui seguì la stagione delle commissioni bicamerali: Bozzi nel 1983, De Mita-Iotti nel 1993 e D'Alema nel 1997. Dopo il fallimento di quest'ultima, preso atto dell'incapacità di condurre riforme "per blocchi", si optò per la tecnica dei "piccoli passi". Fino all'ultimo progetto bocciato dal referendum del 2006.
Riforme costituzionali,
30 anni di dibattito
(Prima Parte)
di BARBARA MILANI
Il tema delle riforme costituzionali, che tanto accende gli animi e le pagine della stampa in questo periodo, non è figlio dei nostri giorni, come si potrebbe pensare, ma è in realtà il prodotto di interrogativi e discussioni che trovano il loro inizio già prima degli anni '80. Molte furono le vicissitudini e gli strappi che portarono la classe politica ad immaginare un "processo costituente" in grado di modificare le regole di un sistema politico ormai saturo. Ma i problemi di quel periodo erano soprattutto legati a strategie politiche che poco hanno a che fare con le motivazioni addotte oggi a sostegno delle istanze di riforma: mi riferisco al carattere compromissorio (in senso alto e nobile) della Carta costituzionale; alla c.d. conventio ad excludendum che inevitabilmente bloccava il sistema politico e quindi all'impraticabilità dell'alternanza di governo e alla centralità irrinunciabile della "Balena Bianca".
Come sostiene il sociologo Giuseppe Cotturri, fu proprio con l'assassinio di Moro che il Psi di Craxi, in quegli anni "ago della bilancia" di un sistema per molti versi già in crisi, lanciò l'idea che bisognasse cambiare la Costituzione con l'obiettivo di rafforzare l'Esecutivo (messo sistematicamente in discussione dalle coalizioni di governo costituite da una pluralità di partiti e di correnti), nel segno dell'efficienza e della trasparenza nei confronti dell'elettorato. Da questo momento ebbe inizio il lavorìo del Parlamento volto a sbloccare lo stato di empasse in cui le componenti istituzionali erano finite. Infatti nel 1982 vennero istituiti due Comitati (in seno alle Commissioni Affari Costituzionali di Camera e Senato) presieduti dall'on. Ritz e dal senatore Bonifacio.

Come ricorda il costituzionalista Paolo Caretti, una volta accantonata l'ipotesi
Clicca sulla immagine per ingrandire
Aldo Bozzi
presidenzialista, entrambi i Comitati si espressero per il mantenimento della forma di governo parlamentare, che valorizzasse maggiormente, però, la figura del Presidente del Consiglio distinguendo più nettamente le sue funzioni da quelle del Parlamento. L'obiettivo dei due Comitati non era certo quello di avviare ex abrupto una rivoluzione costituzionale, ma il solo scopo di redigere una relazione che contenesse "mali e rimedi" della Repubblica.
La semplice esperienza dei Comitati parlamentari, però, aveva fatto ben intendere le difficoltà che un sistema parlamentare, così concepito, avrebbe riscontrato nell'autoriformarsi secondo i princìpi dell'art. 138 Cost.; prese avvio dunque l'ampia parentesi delle Commissioni bicamerali.
Venivano ipotizzati, cioè, procedimenti alternativi di revisione, che assegnavano l'arduo compito di trovare l'accordo sulle riforme ad un organo costituito ad hoc (la commissione per l'appunto). La tendenza prese avvio nel 1983 con la Commissione Bozzi a cui venne richiesto uno sforzo in più rispetto ai Comitati; doveva, cioè, formulare concrete proposte di riforma. L'azione si concentrò soprattutto sui cinque articoli della Costituzione "cuore" della nostra forma di governo: gli artt. 92, 93, 94, 95, 96. Il progetto consisteva, in estrema sintesi, nell'accordare al solo Presidente del Consiglio la fiducia preventiva (al momento della formazione della compagine governativa), consentendo allo stesso la facoltà di proporre al Capo dello Stato tanto la nomina quanto la revoca dei ministri (nella Costituzione l'art. 92 fa menzione del solo potere di nomina). Inoltre il Parlamento avrebbe accordato (e revocato) la fiducia al Governo sempre a Camere riunite. Le proposte così formulate dai 40 commissari non raggiunsero mai l'aula, non riuscendo nemmeno a raccogliere il consenso della maggioranza che le aveva promosse.
Preso atto dell'incapacità delle forze politiche di superare "il blocco delle riforme", la prima vera svolta della storia politica di allora avvenne grazie all'effetto propulsivo del corpo elettorale che, legittimato dallo strumento del referendum, si tolse il bavaglio e mostrò tutto il proprio disagio nei confronti della classe politica di allora.

Il primo colpo venne inflitto con il referendum del 1991 che abolì il meccanismo delle preferenze multiple (degenerato nel sistema delle cordate), per arrivare poi alla stoccata finale, il 18 aprile del 1993, che consentì la trasformazione del sistema elettorale del Senato da sostanzialmente proporzionale a prevalentemente maggioritario, con ciò imponendo la complessiva revisione della materia elettorale anche per la Camera (leggi nn. 276 e 277 del 1993).
Nutro dei dubbi sulla consapevolezza degli elettori di allora in merito alle tecniche manipolative consentite dalla giurisprudenza costituzionale, e non credo altresì che fossero consci delle conseguenze che i cambiamenti (da essi stessi voluti) avrebbero generato. Penso invece che si trattasse di una ribellione, fino a quel momento silenziosa, alla "partitocrazia" imperante che aveva logorato tanto gli spiriti quanto i portafogli.
Due parole vanno però spese per questo cambiamento epocale: uno dei risultati più evidenti della consultazione popolare fu proprio quello di smentire una credenza fino ad allora inviolata: l'idea, cioè, che la Costituzione avesse un senso solo se gemellata con il sistema elettorale proporzionale. In realtà, la Costituzione non si occupa affatto dei sistemi elettorali, se non per specificare che Camera e Senato sono eletti a suffragio universale e diretto, e che il Senato è eletto su base regionale. Tesi, quella del gemellaggio, ancor più fragile dopo le elezioni politiche del 2008 che, nonostante la presenza di un sistema "sostanzialmente" maggioritario (grazie al premio di maggioranza previsto nella legge Calderoli) hanno dato vita ad una coalizione di maggioranza immediatamente definita e identificabile con una leadership forte.

Dopo la spinta innovatrice offerta dall'ondata referendaria, il Parlamento (in pieno
Clicca sulla immagine per ingrandire
Nilde Iotti
ciclone "Tangentopoli") approvò la legge costituzionale istitutiva della Commissione per le riforme costituzionali, la c.d. Commissione De Mita-Iotti, con il mandato di predisporre un progetto organico di revisione della seconda parte della Costituzione, con particolare riferimento alle materie della forma di Stato, della forma di Governo e bicameralismo, e del sistema delle garanzie. Per quanto riguarda la forma di Governo, la Commissione approvò dei punti sicuramente più innovativi rispetto alla Commissione Bozzi, pur rimanendo sempre nell'alveo delle forma di Governo parlamentare. Ecco i principali cambiamenti (ispirati al modello del Cancellierato tedesco): per la formazione del Governo il Parlamento, riunito in seduta Comune, avrebbe eletto, a maggioranza assoluta, il Presidente del Consiglio sulla base di candidature sottoscritte da almeno un terzo dei parlamentari; se entro un mese non si fosse arrivati all'elezione di un candidato, il Presidente del Consiglio sarebbe stato designato dal Presidente della Repubblica. Nel caso in cui nemmeno questo nome avesse ottenuto il placet parlamentare allora le Camere sarebbero state sciolte. Si optò inoltre per l'introduzione della fiducia costruttiva (il Parlamento può esprimere la sfiducia al Presidente del Consiglio solo dopo l'approvazione a maggioranza dei componenti di una mozione contenente anche l'indicazione del successore) e al Presidente del Consiglio, infine, sarebbe stato attribuito il potere di nomina e revoca e dei ministri.
Come suggerisce il costituzionalista Gaetano Azzariti, si può effettuare una valutazione dei princìpi costituzionali coinvolti nella proposta: per quanto riguarda la forma di Stato, in particolare, si apre l'attualissimo tema del "federalismo", che avrebbe come conseguenza quella di sostituire il bicameralismo perfetto di oggi (entrambe la Camere svolgono le stesse identiche funzioni) con una diversificazione di ambiti e materie tra i due rami del Parlamento, ovvero l'introduzione di un Senato delle regioni (che trova il vero limite costituzionale all'interno dell'art. 5 Cost, che ammetterebbe il solo federalismo solidale e non competitivo). Da ultimo, l'esigenza di rivedere il rapporto intercorrente tra forma di Governo e Parlamento, insita nelle varie proposte di riforma costituzionale, nasceva dalla necessità di garantire Governi più stabili, in grado di portare a compimento il quinquennato della legislatura, garantendo rappresentatività ed efficienza ai vari indirizzi politici che componevano la maggioranza: in quest'ottica un rafforzamento dell'Esecutivo si mostrava non solo comprensibile, ma forse addirittura doveroso. Il risultato finale della Commissione fu però una seconda volta deludente, dal momento che diede vita ad un "nulla di fatto".

Si arrivò così alla terza Commissione parlamentare per le riforme costituzionali (denominate in quei tempi riforme "istituzionali" quasi a voler garantire l'indiscussa integrità della Carta Costituzionale): la Commissione D'Alema che operò dal 1997 al 1998.
Il progetto portato a termine (che non ebbe comunque un seguito, perché bocciato poi in Assemblea) si differenziava alquanto dalle precedenti proposte di riforma e i motivi erano assolutamente comprensibili: il sistema dei partiti era uscito malconcio dal ciclone Tangentopoli che, incurante dei diversi colori politici, aveva portato via con sé alcuni di quei partiti storici che avevano preso parte alla stesura della Costituzione, contribuendo, ovviamente, a farne nascere di nuovi. Il sistema elettorale, come ricordato sopra, aveva subìto il passaggio da proporzionale a maggioritario; elemento questo non da poco perché capace di rendere il Governo più efficiente filtrando il sistema partitico da tutti quei "partitini" che nel gioco politico avanzavano pretese grazie a un potere di ricatto del tutto legittimo. Ecco i punti: elezione diretta del Presidente della Repubblica (con poteri di sola garanzia) il quale avrebbe potuto però vantare il potere di nomina e di revoca dei ministri (su proposta del Primo Ministro, nome assegnato al capo dell'Esecutivo nel sistema semipresidenziale). Veniva eliminata la fiducia preventiva e allo stesso tempo veniva rafforzata la figura del Primo Ministro, non soltanto perché sarebbe stato il solo a poter presentare disegni di leggi alla Camera, ma altresì perché avrebbe potuto inserire determinati argomenti nell'ordine del giorno, chiedendo tempi certi di approvazione.
Ecco che dal sistema tedesco a cui si era ispirata la Commissione del 1993 si passò al sistema semipresidenziale (che Enzo Cheli definirà temperato) alla francese, che però, prevedendo in questa versione l'elezione diretta tanto del Presidente quanto del primo Ministro, avrebbe in linea di principio potuto creare conflitti tra le due teste dell'esecutivo.

In realtà, con l'istituzione della Commissione D'Alema, erano in molti a sollevare dubbi
Clicca sulla immagine per ingrandire
Ciriaco De Mita
di legittimità sul procedimento previsto per l'approvazione dell'eventuale progetto di riforma partorito: la legge costituzionale n. 1 del 1997 istitutiva della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali (la commissione D'Alema per l'appunto) prevedeva che "il progetto o i progetti di legge costituzionali fossero adottati da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi e che fossero approvati articolo per articolo dalle Camere senza voto finale su ciascun progetto, ma con un voto unico sul complesso degli articoli di tutti i progetti. Nella seconda deliberazione per il voto unico finale veniva infine richiesta la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera (art. 3.4).
A prima lettura il procedimento ivi delineato sembrerebbe piuttosto conforme al dettato dell'art. 138 Cost. (che disciplina il procedimento di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali) ma analizzando la norma più nel dettaglio alcuni nodi vennero necessariamente al pettine: la lungimiranza del Costituente aveva stabilito che per procedere ad una revisione dell'impianto della nostra Carta costituzionale fosse necessaria l'approvazione di entrambe le Camere separatamente (art. 138 e 72 Cost.). Orbene, tale momento riguardava non solo il momento assembleare ma anche, ovviamente, il procedimento in Commissione; la legge istitutiva, invece, prevedendo un'unica Commissione bicamerale facente le veci di entrambe le Camere, finiva per produrre un netto "alleggerimento" del principio bicamerale. Istituendo inoltre un voto unico sull'insieme degli articoli costituenti la riforma, i parlamentari (e anche il corpo elettorale dato che a completamento del procedimento costituzionale la norma istitutiva prevedeva un referendum obbligatorio) si sarebbero trovati di fronte ad un'alternativa secca: approvare in toto il progetto così delineato o bocciarlo en bloc? Era chiaro l'intento di aggirare l'architettura rigida della nostra Costituzione per arrivare ad un risultato più immediato, anche se incurante delle ponderazioni costituzionali e, di conseguenza, probabilmente illegale.

In ogni caso, però, dopo il fallimento della Commissione d'Alema, alla fine del 1998, preso atto dell'incapacità di condurre riforme "per blocchi", si optò per la tecnica del "procedere a piccoli passi" seguendo quanto stabilito dai padri costituenti nell'art. 138 Cost.
Si riuscì, infatti, a ridisegnare gli assetti delle autonomie territoriali. Dapprima, con la riforma del sistema elettorale di Comuni e Province, si giunse all'elezione diretta dei rispettivi organi di vertice (Sindaci e Presidenti delle Province) con conseguente mutamento della forma di Governo, all'insegna del simul stabunt, simul cadent e successivamente, con la legge costituzionale n. 1 del 1999, si riconobbe una più ampia autonomia statutaria alle Regioni (scelta della forma di governo, elezione diretta del Presidente della Giunta ed estensione anche a livello regionale della regola sopra indicata).
A tale intervento legislativo, sempre sotto la spinta federalista, seguì nel 2001 la legge costituzionale n.3, che completò quanto lasciato in sospeso: essa agì soprattutto sull'art. 117 della nostra Costituzione, ridefinendo e ripartendo la potestà legislativa tra Stato, Regione, Province e Comuni secondo il criterio di sussidiarietà. Vennero definite ed enucleate le materie di competenza Statale, mentre alle Regioni vennero affidate tutte quelle discipline non ricompresse all'interno dell'elenco regionale (la c.d. competenza residuale). Venne inoltre lasciata una "terra di mezzo" chiamata competenza concorrente all'interno della quale lo Stato aveva (ed ha) il compito di definire una "legge cornice", demandando alle singole Regioni il compito di dispiegarne i contenuti secondo la propria autonomia decisionale.

Ed eccoci giunti al progetto di riforma costituzionale più recente, ovvero quello del 2005, poi bocciato dal corpo elettorale al referendum confermativo del 2006. Ecco i punti
Clicca sulla immagine per ingrandire
Massimo D'Alema
principali: il primo elemento era rappresentato dall'elezione del Primo Ministro mediante collegamento a liste di candidati al Parlamento, nel quadro di un sistema elettorale che aveva il chiaro proposito di favorire il formarsi di una solida maggioranza collegata al Primo Ministro (una sorta di elezione diretta di secondo grado), che di conseguenza, vincolava il potere di nomina da parte del Presidente della Repubblica ai risultati elettorali. Proseguendo nell'analisi, scompariva l'elemento della fiducia preventiva (la sola Camera dei deputati avrebbe votato il programma di Governo e solo dopo la comunicazione dei nomi dei Ministri; il Senato, invece, avrebbe ricoperto il ruolo di Camera federale). Il Primo Ministro, oltre ad essere il detentore della determinazione della politica generale del Governo, avrebbe avuto inoltre il potere di nominare e revocare i Ministri, senza più l'obbligo di proporre la nomina al Presidente della Repubblica. Il solo capo dell'Esecutivo (senza il coinvolgimento del Consiglio dei ministri) avrebbe inoltre potuto apporre la questione di fiducia a propria discrezione, con due uniche eccezioni inerenti le leggi costituzionali e quelle di revisione della Costituzione. Per quanto riguarda, infine, il potere di scioglimento delle Camere, questo sarebbe rimasto in mano al presidente della Repubblica ma vincolato ad una serie di ipotesi ben definite: su richiesta del Primo Ministro, in caso di dimissioni o morte dello stesso e in caso approvazione di una mozione di sfiducia da parte del Parlamento. Era prevista inoltre una sorte di sfiducia costruttiva che vedeva l'approvazione da parte della maggioranza (uscita dalle elezioni), con il voto favorevole di almeno il 50% più uno dei componenti dell'assemblea, di una mozione indicante la volontà di proseguire nell'attuazione del programma di Governo sotto la guida di un nuovo Primo Ministro, anch'esso indicato nella mozione (vista la soglia richiesta per l'approvazione era facilmente intuibile come l'applicazione dell'istituto fosse giocata tutta internamente alla maggioranza).
Era un progetto evidentemente distinto da tutti quelli finora esaminati, dal momento che spariva la matrice parlamentarista della forma di governo, mai del tutto abbandonata (nemmeno nel quadro innovativo proposto dalla Commissione D'Alema).
(1 - Continua)
 
>>
BIBLIOGRAFIA
  • Considerazioni inattuali sui modi e sui limiti della riforma costituzionale, di G. Azzariti, in "Politica del diritto", fasc. 1 del 1998;
  • Il 'mito' delle riforme costituzionali, di V. Onida, in "Osservatorio italiano", n.1 2004
  • La forma di governo, di P. Caretti, in "Rassegna Parlamentare", fasc. 3 del 2005;
  • Incontro alla Costituzione, di G. Cotturri, in "Democrazia e diritto", fasc. 1 del 1995;
  • Il problema costituzionale delle riforme. Rapporto sulle questioni istituzionali, di A. Maccanico, in "Il diritto della Regione, fasc. 3-4 del 2001