Lo stato nazionale è soltanto in crisi o non è mai esistito realmente? Il punto su Risorgimento e controrisorgimento nel dibattito storiografico e politico italiano negli ultimi due decenni.
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Morte e nascita della nazione
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Da anni Ernesto Galli della Loggia, distinguendo il generico sentimento patriottico dalla ricostruzione storico-ideologica del concetto di appartenenza nazionale come operante matrice di valori collettivi, lancia la provocazione storiografica che identifica una delle cause della morte della nostra Patria con la disfatta dell'8 settembre 1943 (Galli Della Loggia 1996). Con la caduta del muro di Berlino del 1989 è cominciato il processo che porta all'indebolimento della versione storiografica che, fino ad allora, aveva tentato di identificare il risorgere della Patria con la crociata della Resistenza contro il fascismo (Pavone 1991), con l'accreditamento alla Resistenza di una supposta e per molti aspetti più che dubbia devozione agli interessi nazionali (De Felice 1995, 1996 e 1997).
Successivamente Renzo De Felice (1995), condividendo la tesi del Galli della Loggia, prosegue nella sua opera di revisione storica affermando non solo che con l'8 settembre si assiste al crollo dell'identità nazionale, mai più ricostruita nel secondo dopoguerra, ma interpreta la scelta di Mussolini di porsi alla guida della RSI come un consapevole sacrificio patriottico sia in difesa da una possibile invasione tedesca sia nella consapevolezza che per una nazione e per la sua storia ed identità è preferibile una sconfitta nel rispetto delle alleanze che una vittoria fasulla e macchiata dal tradimento (De Felice 1997).
Secondo i due storici l'8 settembre segna la morte della Patria soprattutto in virtù del fatto che con esso si evidenziano le "carenze morali" degli italiani e una debolezza etico-politica collettiva che vede la maggior parte dei nostri connazionali assumere un atteggiamento disinteressato sia nei confronti della RSI sia della Resistenza al fine di perseguire, come uomini guicciardiniani, il proprio "particulare" (De Felice 1997). La tematica della morte della Patria non manca di suscitare polemiche tra gli stessi storici e tra storici e politici; tra queste la più nota è quella tra Galli della Loggia (2001) e il Presidente Ciampi (2001), che dichiara di «non comprendere cosa intendano i teorici della morte della Patria» e identifica, in dissonanza con il processo di revisione storiografica, la Resistenza come un secondo Risorgimento.
A seguito della caduta del muro di Berlino il dibattito sulla morte della nazione si arricchisce di nuove considerazioni e prospettive, non solo italiane, che rimandano alla crisi dello Stato nazionale europeo di tipo ottocentesco e della sua sovranità: non appare un caso che i vincitori della seconda guerra mondiale - Usa, Inghilterra e Unione Sovietica - e artefici del mondo postbellico fossero, più che stati nazionali, tre aggregati imperiali poggianti su valori ideologici prevalentemente materialistici ed universalistici (Galli della Loggia 2003). Recentemente anche Giulio Tremonti, con La paura e la speranza (2008), pone in evidenza come gli stati nazionali siano orami succubi del mercatismo globale, siano pressoché immobili davanti alla globalizzazione, preparata da illuminati e messa in atto da fanatici, che ha annichilito il senso di nazione per sostituirlo con una fede teologica nella ricerca del paradiso terrestre dei consumi.
Se è pressoché impossibile non tener conto delle analisi di Galli della Loggia, De Felice e Tremonti, occorre però notare che esse considerano prevalentemente l'aspetto della morte della nazione, mentre i tempi sono ormai maturi per affrontare un ragionamento storiografico più schietto e radicale. Per parlare di morte di una nazione occorre che essa sia nata e pertanto diventa interessante porci la domanda: è mai nata la nazione italiana? (Miglio e Veneziani 1997). Il Risorgimento è realmente identificabile con la nascita della nazione?
La storiografia risorgimentale evita da sempre l'interrogativo e sia Croce, che asserisce che la fusione di rivoluzione liberale e nazionale crea la nazione, sia Gramsci, che descrive il Risorgimento come una rivoluzione mancata nella quale i rivoluzionari accettano o subiscono il patto col diavolo, rappresentato dalla monarchia sabauda dotata di un esercito da contrapporre all'Austria, non pongono comunque in discussione l'equazione Risorgimento-nascita della nazione. L'interpretazione più critica sul Risorgimento come creatore della nazione non proviene da uno storico, è, infatti, quella di Evola (1967) che asserisce essere l'Italia divenuta nazione per accidente, ossia perché il fronte liberaldemocratico massonico aveva bisogno di adoperare il mito nazionale contro l'idea imperiale.
Se prendiamo in esame cosa sia la nazione, ossia l'unione di un popolo, di un territorio e di componenti immateriali come tradizioni e visione del mondo, allora assume ancora maggior senso chiederci se col Risorgimento la nazione sia nata davvero o si sia limitata alla realizzazione del solo elemento territoriale. Nel recente studio, Controrisorgimento. Il movimento filoestense apuano e lunigianese (2009), che si basa su fonti di archivio inedite ed analizza gli eventi inerenti la seconda guerra d'indipendenza in un territorio che Cavour reputava favorevole per dar fuoco alle polveri della guerra all'Austria (Riall 2007), emerge una realtà ben diversa. Molti cittadini della attuale provincia di Massa e Carrara si opposero strenuamente al progetto unitario arruolandosi nella Brigata Estense, fedele agli Asburgo-d'Este, iniziando un movimento di resistenza in loco o fuggendo nel Veneto austriaco. Aldilà della vulgata che vorrebbe narrare una sollevazione popolare filo unitaria emerge che le autorità sabaude, per ottenere il controllo del territorio, attuarono politiche restrittive della libertà di espressione, incarcerazioni di massa, negazione di opportunità occupazionali e falsificazioni elettorali (Guerra 2009). Un regime illiberale, autoritario e persecutorio contro gli oppositori della causa nazionale, contro quell'insieme interclassista di classi basse, alte e clero che sposò la causa degli Asburgo-d'Este sintetizzando la propria fedeltà nel motto "Principini, palazzi e giardini; Principoni, fortezze e cannoni" (Difesa del Duca di Modena MDCCCLXII).
Dunque se unità si raggiunse fu con la forza, non solo nel Sud del Paese, fatto oramai accettato dalla cultura nazionale (Bouchard 2005), ma anche nel Centro Nord, e in conseguenza di una vera e propria guerra civile (Guerra 2009). E' dunque plausibile affermare, certamente in questa area del Nord Toscana, che, mancando una comune visione del futuro e un comune desiderio di autodeterminazione, la nazione non sia realmente nata col Risorgimento o sia nata monca dei suoi basilari elementi spirituali.
Spetta alla storiografia, liberata dalla agiografia risorgimentale, analizzare le varie storie locali, troppo a lungo relegate tra i documenti di archivio non consultati, per comprendere meglio le ragioni di questa mancata nascita o nascita monca prima ancora di considerare la sua morte a causa delle vicende del 1943 e dell'attacco corrosivo del mercatismo globale. Spetta invece agli uomini della politica e delle istituzioni valutare quale sia il percorso metapolitico che essi intendono intraprendere se mirano a far nascere la nazione. E spetta sempre a chi rappresenta le attuali istituzioni valutare se oggi la nazione, purtroppo ancora troppo spesso concepita come Stato nazionale ottocentesco, sia il soggetto politico in grado di unire la popolazione nella sfida all'internazionalismo economicistico guidato da multinazionali che hanno spesso dimensione economica e forza maggiore degli stati (Hertz 2001 e Aijaz 2000) . Potremmo provocatoriamente chiederci se non sia più opportuno contrapporre a questo internazionalismo economicistico il concetto di Patria come superamento della nazione; per linee teoriche potremmo parlare di un patriottismo aperto nel quale la Patria si sganci integralmente dall'elemento territoriale per poggiare sulle componenti spirituali e sulla visione comune del futuro, una patria dello Spirito che abbia respiro ultranazionale e possa fronteggiare così il mercatismo sul medesimo terreno globale. Ma quali dovrebbero essere le linee guida di tale Patria dello Spirito?
Per linee più pratiche, che già animano il dibattito culturale, politico e istituzionale (Prati e Lorenzoni 2008; Miglio e Veneziani 1997; Bracalente 2001; del Carria 2001; Apolloni 1998; Mazzerelli 1998) , potremmo pensare a un concetto di Patria che si sganci in parte dall'elemento territoriale, ossia lo faccia in senso di ridimensionamento, e sia cioè pronto a ridurre la dimensione geografica a vantaggio sia della visione spirituale e del futuro sia dei diversi principi identitari locali, oggi mal amalgamati in una unità teorica (Miglio e Veneziani 1997). In quest'ultimo caso rinunciare a parti di territorio, per far spazio a stati comunitari e identitari di minor dimensione, ma dotati di più forte DNA spirituale, è un passo doloroso per una cultura nazionalista ancora ferma a concetti ottocenteschi (basti pensare alla questione sudtirolese e a come essa sia ancora sentita da certo nazionalismo italiano che concepisce la nazione come spazio delimitato da confini), ma è altrettanto vero che è impossibile costruire il futuro tenendo lo sguardo rivolto al passato e che, nello scenario attuale, appare sempre più importante la nascita di soggetti istituzionali portatori di visioni metapolitiche condivise, le piccole patrie, che sappiano contrapporre alla forza del mercatismo quella della comune visione spirituale e del futuro.
Piccole patrie che sfruttando la forza centripeta dell'identità comune, della visione spirituale del mondo e della visione condivisa del futuro potrebbero muoversi rapide, compatte e coese nelle scenario globale che potrebbe risultare, con i suoi processi elefantiaci, più fragile rispetto a tali soggetti che a stati nazionali mai nati e già morti.
Importante è dunque che di pari passo avanzino sia la ricerca storica sulla nostra nazione sia il dibattito politico istituzionale sul suo riassetto all'interno dell'attuale scenario globale e non si continui a rifarsi a miti che hanno fatto il loro tempo.
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