Ovvero, quando la violenza carnale è usata come strumento bellico. Un fenomeno poco indagato sul quale fa nuova luce un recente lavoro di Michele Strazza
Stupri di guerra
di MICHELE STRAZZA
La violenza carnale è diventata in epoca contemporanea parte della strategia offensiva degli eserciti, una vera e propria arma per colpire la popolazione civile. Per lungo tempo sottovalutata, la violenza sulle donne ha rappresentato uno dei prezzi più alti che un popolo ha dovuto pagare per la sconfitta e l'occupazione militare. E il trauma delle vittime non sempre è stato superato, anche a causa della congiura del silenzio praticata da famigliari e comunità. Michele Strazza, studioso di storia e collaboratore della nostra rivista ha recentemente dato alle stampe un volume che indaga le violenze praticate sulle donne nella prima e nella seconda guerra mondiale (Senza via di scampo. Gli stupri nelle guerre mondiali, di Michele Strazza - Consiglio Regionale della Basilicata 2010, pp. 200), dagli stupri in Belgio e Francia nel 1914 alle violenze imposte dalle truppe alleate sulle donne italiane e su quelle tedesche negli ultimi scorci del secondo conflitto mondiale. Per gentile concessione dell'autore e dell'editore pubblichiamo un estratto del capitolo dedicato agli stupri nei territori occupati dall'esercito austroungarico dopo Caporetto.


Il clima di "guerra totale" del primo conflitto mondiale portò come conseguenza, nelle zone coinvolte dalle operazioni militari, anche l'annullamento delle differenze fra militari e civili.
Alla fine di ottobre del 1917, a seguito della rotta di Caporetto (24-25 ottobre), le zone di confino tra il Regno d'Italia e l'allora Impero austro-ungarico come il Friuli e parte del Veneto vennero invase dall'esercito asburgico.
Ben 250.000 civili furono costretti a fuggire mentre 900.000 rimasero confinati in un regime di occupazione militare che durò un anno intero e fu caratterizzato da saccheggi e stupri in quasi tutti i territori.
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Truppe italiane in ritirata dopo Caporetto
Dopo la guerra in Italia si formò una prima Commissione d'inchiesta organizzata dall'Ufficio Tecnico di Propaganda Nazionale che, in poco tempo (4-14 novembre), concluse i propri lavori dando alle stampe "Il martirio delle terre invase" nel quale vennero evidenziate le aggressioni sessuali delle donne italiane.
Ben più cospicua la documentazione raccolta dalla successiva "Reale Commissione d'Inchiesta" contenuta nei sette volumi pubblicati tra il 1920 e il 1921 (Relazioni della Reale Commissione d'inchiesta sulle violazioni dei diritti delle genti commesse dal nemico), in particolare nel IV volume (L'occupazione delle provincie invase, capitolo "Delitti contro l'onore femminile") e nel VI (Documenti raccolti nelle provincie invase).
Il lavoro di quest'ultima commissione, istituita nel novembre 1918, che peraltro doveva servire solo a sostenere la richiesta di danni dell'Italia alla Conferenza di pace, attribuiva, nel IV volume, agli stupri la qualificazione giuridica di "delitti contro l'onore femminile".
E ciò non poteva essere diversamente, sia per le convinzioni dell'epoca che per l'inquadramento giuridico che il Codice Zanardelli dava alla violenza sessuale, classificandola tra "i delitti contro il buon costume e l'ordine delle famiglie" e richiedendo, ai fini della realizzazione della fattispecie, la violenza o la minaccia, non bastando la mancanza di volontà della vittima.

L'attenzione della Commissione d'inchiesta naturalmente non era rivolta alla situazione "di genere" delle vittime ma al significato che la violenza sessuale aveva nella graduatoria valoriale della Patria.
In questa, pur occupando un posto minore rispetto a quello dell'eroismo maschile e del sacrificio della vita in guerra, il tema dello stupro solleticava analogie ed implicava significati simbolici non irrilevanti visto che, come già detto, "il corpo delle donne violate si configurava come un simbolo del corpo della nazione vinta ed umiliata".
Il VI volume pubblicato dalla Commissione si occupava della documentazione, delle deposizioni e delle testimonianze.
In tale volume, tra gli "Allegati", venivano anche raccolti i "Rapporti delle autorità locali" sollecitati dalla Commissione con la spedizione, il 27 novembre 1918, di un questionario ai Comuni nel quale, tra le altre cose, si chiedeva di accertare "se nelle terre invase la soldatesca nemica" si fosse abbandonata "a violenze contro le persone con uccisioni e ferimenti di cittadini inermi e con stupri di ragazze e di donne maritate, specificando i fatti e le singole responsabilità".
Naturalmente la reticenza a parlare di tali esperienze traumatiche da parte delle donne, accompagnata dal quella della comunità locale, preoccupata di attirare troppo l'attenzione su di sé per eventi di tale specie, rese meno attendibile il quadro finale.
Lo stesso Sindaco di Belluno ammise che a giudicare dallo spavento generale
"in cui per tanti mesi si trovavano le nostre donne, convien credere che i casi di violenza carnale e le minaccie insidiose siano state più frequenti di quel che noi sappiamo. E' naturale che per un senso innato e profondo di pudore le nostre donne tacciano certe onte. Così io so che nelle frazioni, a S.Gervasio per esempio, una donna violentata ha taciuto l'offesa subita."
Dello stesso tenore la deposizione del dott. Agosti Francesco, direttore dell'Ospedale Civile della città, il quale ricordò di aver medicato, per ferite e contusioni di vario grado, almeno una ventina di donne, "così conciate per essersi opposte a soldati austriaci che volevano violentarle". Egli riferì alla Commissione la sua convinzione secondo cui le violenze carnali in massima parte erano rimaste nascoste in quanto, nelle campagne, "il pudore" inibiva alle vittime di denunciare "l'onta patita". [...]

Si tenga, inoltre, presente che si commise il grande errore di fare svolgere a uomini l'interrogatorio delle vittime, provocando una comprensibile reticenza per pudore e vergogna e favorendo il processo d'occultamento.
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Tutto questo, naturalmente, non fece altro che inficiare le risultanze del lavoro della Commissione. Del resto, spesso anche quando lo stupro era avvenuto, secondo le dichiarazioni iniziali poi cambiate, si preferì registrare il solo "tentativo" per tutelare il "decoro della famiglia". Questa la deposizione di Molaro Innocente, Sindaco di Treppogrande (Distretto di Tarcento):
Nella casa di E.A. in Treppogrande tre soldati bosniaci tirando colpi di rivoltella (si vedono tuttora i buchi nel muro) hanno tentato di violentare due ragazze; anzi si dice (ed anche il padre in principio lo diceva) che fossero state realmente violentate, ma che pel decoro della famiglia si preferisce limitare la cosa al solo tentativo.
E, comunque, il numero delle violenze indicate risulta tutt'altro che irrilevante: 165 quelle in cui compaiono le generalità delle vittime e si conoscono le circostanze e ben 570 quelle senza l'indicazione dell'identità delle donne ma accertate. Il mancato approfondimento delle indagini sui singoli episodi ed un conteggio più preciso degli eventi non furono affatto casuali. Le omissioni della Commissione - come giustamente precisa Daniele Ceschin - sono riconducibili "alla volontà di non dare troppo rilievo ad uno degli aspetti dell'occupazione che avrebbe potuto avere delle ripercussioni anche sul dopoguerra e minare dall'interno le singole comunità locali". Una "conferma indiretta" a tale tesi - sostiene lo studioso - viene dalla mancata presenza, tra i documenti della Commissione pubblicati, dei verbali e delle relazioni che si occupavano di rilevanti episodi: "una scelta che non può essere giustificata solamente con il proposito di non rendere pubbliche situazioni e descrizioni scabrose".

La maggior parte delle violenze furono registrate nella prima fase dell'invasione, in particolare nella prima metà del novembre 1917 quando, cioè, gli eserciti nemici "erano ancora impegnati nell'azione di sfondamento delle linee italiane e di riposizionamento dopo l'arresto al Piave". Solo dopo il passaggio del controllo sulle zone occupate dal comando militare tedesco a quello austro-ungarico le violenze "diminuirono considerevolmente". Comparirono così anche gli inviti ai comandanti ad intervenire con maggiore severità nei confronti dei soldati colpevoli di simili crimini.
Ordini che, tuttavia, non ebbero grande impatto visti gli episodi di stupro, seppur diminuiti, che continuarono a verificarsi.
Quello che appare è una sostanziale impunità per le violazioni commesse, considerate dalle autorità d'occupazione "reati minori"nel clima generale di guerra. [...]
Secondo le testimonianze raccolte, dunque, furono innanzitutto i militari tedeschi ed ungheresi, seguiti da bosniaci e croati, a rendersi responsabili delle violenze carnali, lasciandosi andare anche ad omicidi e torture.
I casi, per quanto qualcuno possa essere stato raccontato in maniera enfatica, sono numerosi. A Soffratta di Vazzola, in provincia di Treviso, "due soldati ungheresi per violentare più tranquillamente una giovinetta, che vegliava il padre infermo a letto, uccisero con i calci dei fucili quest'ultimo". A Rasai, nel feltrino, un uomo venne legato da quattro soldati austro-ungarici ad un palo "ed obbligato ad assistere in quella posizione allo stupro della moglie". Alla fine fu torturato ed ucciso. A Feltre (provincia di Belluno) una donna e la figlia di quattro anni vennero violentate ed assassinate da soldati austriaci nel loro negozio. In un paese vicino "alcuni soldati, per violentare una madre, che stringeva al seno una bimba di 8 anni, le strapparono la bimba dalle braccia e gliela gettarono fuori della stanza, uccidendola". [...]

Ad esser stuprate furono innanzitutto le donne trovate nei casolari isolati che, per ordini militari, non dovevano tenere le porte chiuse. In generale furono le campagne a subire maggiormente le aggressioni.
Dalla deposizione, già citata, del direttore dell'Ospedale di Belluno si apprende che la notte del 19 dicembre 1917, presso la frazione di S. Gervasio, soldati austriaci erano entrati nell'abitazione di un contadino, tramortendo "a furia di pugni e di bastonate" il vecchio padre e l'unica figlia, trascinandoli nei campi e violentando la ragazza. Il 29 gennaio 1918 al nosocomio cittadino venne accompagnata una donna della frazione di Bes, con varie abrasioni al viso e alle mani. Alcuni soldati bosniaci erano penetrati nella sua casa e, con minacce a mano armata, l'avevano "imbavagliata, trascinata nella stalla e violentata".
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Donne e bambini in fuga dopo lo sfondamento
Sempre nelle frazioni di Belluno, i medici condotti e i parroci segnalarono altri casi di violenza carnale. A Faverga, nei primi giorni dell'occupazione, un maggiore austriaco introdottosi nella stanza da letto di B.L. cercò di indurla "a cedere alle sue voglie" ma la donna si buttò dalla finestra. A Modolo, nella casa di un vecchio contadino che viveva con la figlia, alcuni soldati armati, introdottisi nottetempo, tramortirono il padre con il calcio del fucile e violentarono la ragazza.
Nel distretto di Feltre, quattro soldati irruppero, nel dicembre 1917, in una "casa isolata in aperta campagna" di un sessantenne, mendicante e privo del braccio sinistro. Rinchiusero l'uomo e la figlia in una stanza e "sfogarono tutta la loro libidine" sulla moglie M.T. "d'anni 50 malaticcia". La violenza venne ripetuta la sera successiva per cui la donna venne ricoverata nell'ospedale di Feltre "perché contagiata".
Ad essere oggetto di violenza erano anche le donne che lasciavano la montagna per scendere a valle per procurarsi il cibo o andare a lavorare. Queste ultime spessissimo incontravano pattuglie militari che, con la scusa di controllare i documenti, approfittavano di loro. [...]
A Sofratto di Mareno (provincia di Treviso) una donna venne legata e violentata da tre militari germanici in presenza del marito "che per sommo scherno fu costretto a illuminare la scena con la candela accesa".
A Zuccola, presso Cividale del Friuli (provincia di Udine), il primo novembre 1917, il padre inutilmente supplicò tre soldati ungheresi del 19° Reggimento che violentarono lo stesso la figlia diciassettenne Z.M. La violenza venne ripetuta la sera successiva da soldati della stessa unità "che, strappando la ragazza da sotto il letto, la trasportarono fuori della casa per abusarne in 7". Nella vicina S. Guarzo, nei primi giorni dell'invasione, tre soldati penetrarono nella casa di B.P., "cacciarono dal letto il marito e l'uno dopo l'altro abusarono della moglie, mentre altri due custodivano colla baionetta in canna il marito". Nel Comune di Trichiana (provincia di Belluno), il 15 dicembre 1917, C.N. fu violentata, alla presenza della vecchia suocera, da soldati germanici entrati in casa col pretesto di ricercare soldati austriaci sbandati.
Parenti, dunque, messi in condizioni di non nuocere o costretti a guardare. Anche i bambini subirono lo stesso destino. [...]

Le donne molte volte si rifugiavano negli edifici pubblici e religiosi, dal municipio alla chiesa e alla casa canonica. Altre volte, avvisate del passaggio della soldataglia, si nascondevano nei campi, nei fienili o nei boschi.
Non sempre questi luoghi misero le donne al sicuro. A Belluno, ad esempio, occupata il 10 novembre 1917 dalle truppe della 94° Divisione germanica, una vedova, non più giovane, venne assalita da tre soldati tedeschi che "le usarono violenze carnali alla presenza dei figli". Impaurita, si rifugiò nella casa municipale dove avevano trovato asilo un'altra ventina di donne. Ma un ufficiale germanico, "presentatosi una sera al municipio e trovata chiusa la porta vi sparò contro alcuni colpi di rivoltella, intimando al sindaco Mandruzzato di tenere la porta aperta a qualunque ora". Lo stesso ordine di tenere le porte aperte venne impartito a tutta la cittadinanza.
Minorenni, bambine, vecchie e inferme, nessuna sfuggì alle aggressioni. A Torreano nel novembre del 1917 quattro graduati ungheresi bloccarono A.M., una ragazza di 15 anni, "spianando le rivoltelle contro la madre accorsa e la trascinarono nella cucina di una casa vicina", violentandola a turno. A Conegliano e a Farra d'Alpago (provincia di Belluno) vennero violentate due vecchie di 80 anni. A Fiume Veneto, in provincia di Treviso,
"in una delle prime notti dell'invasione, alcuni soldati ungheresi armati di baionetta si introdussero nella casa isolata di certo M., un povero sciancato, il quale aveva la moglie a letto per recente aborto, assistita dalla sorella: salirono nella stanza dell'ammalata, fecero discendere al piano terreno il marito e la cognata e mentre alcuni di essi li trattenevano impedendo loro di gridare, gli altri rimasti in camera violentarono la puerpera. Poi gli altri ne imitarono l'esempio sulla ragazza."
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Case distrutte nella zona del Piave
Stupri di bambine e ragazze, spesso "compiuti sotto gli occhi piangenti delle madri", furono denunciati a Remanzacco (Cividale), Campeglio di Soffumbergo, Caorle, Torreano di Cividale, S. Maria la Longa, Cassacco, Rivolto di Codroipo, Montanez di Vittorio. In una frazione del Comune di Ovaro, in provincia di Treviso, una ragazza di 14 anni venne stuprata da soldati austriaci penetrati in casa. Alla fine venne soffocata. A Riva Zoncana (Mareno) fu violentata una tredicenne insieme alla madre. A Tovena (Cison di Valmarino) toccò ad una bambina di nove anni, mentre a Pordenone fu consumata violenza sessuale ai danni di una piccola di sette anni. Questa l'annotazione della Commissione: "Molte di queste sventurate fanciulle, rilasciate con il corpo straziato e con la coscienza perduta, restarono contagiate da insanabili malattie, che dovranno trascinare per tutta la vita".
Un'altra quattordicenne "fu deflorata violentemente" da soldati austro-ungarici a Zuccola, presso Cividale del Friuli. Nella vicina Zenola militari "per due notti di seguito" abusarono di una ragazza di 15 anni. In una casa di Polcenigo (provincia di Udine) "le donne maritate, per risparmiare le ragazze, dovettero andare a dormire con gli ufficiali germanici". Il 10 novembre 1917, a San Donà di Piave (provincia di Venezia), due ragazze tra i 12 e i 13 anni vennero "prese e violentate". Lo stesso accadde in altre località vicine. [...]

Le profughe furono tra coloro che dovettero subire maggiormente ogni tipo di violenza durante le proprie peregrinazioni.
Per disposizione del locale comando austriaco, a Oderzo (provincia di Treviso) 200 ragazze profughe di Ormelle furono rinchiuse con violenza in una camera del "Feld-Ospital" e "sottoposte a visite ignominiose dal direttore di detto ospedale" per otto giorni consecutivi "col pretesto che dette donne erano sifilitiche".
Una cosa simile accadde, il 3 novembre 1917, in una località del Comune di Forgaria (provincia di Udine) dove
"si trovavano rifugiate in una sola stanza circa una cinquantina di persone per la maggior parte donne e ragazze. Un capitano bosniaco seguito da soldati armati, impose loro di recarsi in una vicina stalla. Là fu scelta tal A.L. di fungere da interprete sotto pena di morte; i soldati sceglievano le ragazze, l'A. in lingua nostra doveva comunicare loro l'ordine.Esse trascinate al posto del Comando, subivano una specie di esame genecologico praticato dagli ufficiali non medici, e quindi le misere venivano date in pasto a quelle belve.in quella sera altre sventurate ebbero tale martirio."
Anche gli ospedali non erano più luoghi sicuri. In quello di Oderzo subirono violenze le stesse suore infermiere le quali poi confessarono alla Commissione che, per non avere noie, "bisognava accontentare gli ufficiali nemici in tutto".
Neanche l'epidemia di "Spagnola" bloccò le violenze. Questo fu quello che accadde, secondo il rapporto del Sindaco, in provincia di Belluno, a Sopracordevole, nel Comune di Rocca Pietore:
"L'epidemia di influenza era in quei giorni ad una fase culminante. Nelle stanze giacevano bambini e donne ammalate. I saccheggiatori vi entravano come belve, cercavano con ogni mezzo di recare oltraggio alle infelici, minacciandole con l'arma e abusando della altrui impotenza. Più di un centinaio di questi casi è stato constatato. Molte ragazze e donne ammalate, quasi incapaci di muoversi, per evitare il pericolo e l'onta, fuggivano dalle loro case, passando dei giorni e delle notti disagiatamente all'aperto o in paeselli remoti, mentre il freddo autunnale e rigido della montagna incalzava. E qualcuna di esse a causa di questo si aggravò e morì dopo pochi giorni."
[...] In qualche caso si presero dei provvedimenti come l'allontanamento dalla zona dell'ufficiale responsabile delle violenze. In una frazione di Conegliano, ad esempio, fu trasferito un maggiore ungherese che faceva denudare le ragazze, mettendole poi "su di un tavolato per abusarne". Solo pochissime volte i colpevoli vennero arrestati ma, come già detto, non abbiamo notizie sulla loro punizione. Il comandante dei carabinieri di Valdobbiadene (provincia di Treviso) riferì alla Commissione della violenza subita, il 17 novembre 1917, da parte della diciottenne F.P., violentata da cinque soldati tedeschi d'artiglieria. Alle grida d'aiuto della vittima e dei genitori erano intervenuti gli ufficiali del reparto i quali avevano arrestato tre dei cinque. A volte, infine, si ebbe paura anche di denunciare il fatto per timore di ritorsioni. Sempre a Valdobbiadene, T.D., di anni 63, fu ucciso con un colpo di fucile per aver riferito al comando militare "la violenza carnale commessa da 3 militari contro 2 sue nuore in sua presenza".

Gli stupri di gruppo furono la maggioranza. Dai casi esaminati si evince che la maggior parte vennero eseguiti da 3-6 militari. Ma a volte si ebbero violenze praticate anche da 10 soldati. Così, secondo un rapporto dei carabinieri di Udine, il 30 ottobre 1917, N.G. "venne obbligata da 10 soldati Ungheresi a soggiacere alle loro brutali voglie, dopo essere stata imbavagliata e percossa".
Nel Comune di Valdobbiadene due sorelle furono addirittura stuprate da 20 militari, mentre il 7 novembre 1917 in quello di Faedis (provincia di Udine) T.E. "fu violentata nella propria casa da una quindicina di soldati austriaci penetrativi a mano armata".
Come abbiamo già accennato, tra i danni riportati dalle donne furono numerosissimi i casi di malattie veneree contratte
Come abbiamo già accennato, tra i danni riportati dalle donne furono numerosissimi i casi di malattie veneree contratte. Così G.L., violentata il 2 novembre 1917 a Magnacco, nel distretto di Tarcento. Dopo l'abuso sessuale commesso da ben sei soldati tedeschi contrasse una malattia da cui, alla fine della guerra, non risultava ancora guarita. A Cassacco, nello stesso distretto, "una fanciulla dodicenne fu vittima di un bruto bosniaco, che le comunicò la sifilide". Infettata fu anche G.L., violentata da cinque soldati germanici nel Comune di Magnano in Riviera (provincia di Udine).
Sulla natura delle violenze condividiamo la tesi di Ceschin secondo cui essa non fu il risultato di "un piano preordinato" dei comandi nemici, né ebbe quei significati di "arma sessuale" richiamati per la Francia e il Belgio. Certo, il livello raggiunto, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, fu "impressionante", ma ciò fu innanzitutto dovuto "alla scarsa efficacia della giustizia militare" ed "alla sostanziale impunità" di cui godettero soldati e ufficiali colpevoli. Del resto, la stessa tipologia della violenza carnale, pur avendo "tutte le caratteristiche della serialità", deve essere considerata "episodica": "gli stupri commessi furono molto numerosi, ma i singoli casi non erano collegati fra loro". La violenza, in definitiva, risultava "seriale e continua, ma isolata", assomigliando "maggiormente ad una violenza privata che ad una violenza sistematica di tipo militare".
Un'ultima riflessione va fatto sulle modalità interpretative dei racconti delle donne. Come già accennato furono uomini a prendere le deposizioni e uomini a valutarle. Anche la maggior parte delle fonti (sindaci, medici e parroci) erano maschili. Pertanto una certa inclinazione maschilista e moralista fu ben presente nella registrazione degli episodi.
Tale impostazione è evidente in due situazioni. Innanzitutto nel tentativo di "limitare" l'entità del fenomeno nella propria comunità, quasi a voler "esorcizzare" il richiamo ad una propria responsabilità di maschi che non erano riusciti a proteggere le proprie donne. E qui ritorna, almeno come paura, il richiamo ai significati simbolici della violenza, già visti, intesi come dimostrazione dell'impotenza di difendere la popolazione femminile.
In questo senso devono essere viste le dichiarazioni di alcuni parroci tese ad affermare la mancanza o la rarità degli stupri a causa della reazione delle comunità e delle donne che, con "unghie e denti", avevano saputo difendere la propria onorabilità. O le deposizioni che, pur in presenza di alcuni stupri, mettevano in evidenza il fallimento di altri per la resistenza delle vittime. [...]

Non mancarono episodi di interventi maschili tesi a scongiurare la violenza, opportunamente messi in evidenza per sfatare la tesi dell'impotenza maschile. Così lo stesso parroco di Ponte di Piave, in provincia di Treviso, una sera verso la metà di novembre 1917, al grido disperato di una ragazza aggradita da due soldati, si precipitò nella casa di lei, riuscendo "a fare allontanare quei due selvaggi dalla casa". A Nimis, in provincia di Udine, tre soldati bosniaci aggredirono la quattordicenne M.E. ma mentre "stavano per sfogare le loro voglie" sopraggiunsero due uomini del posto che "misero in fuga i soldati". Sempre nella stessa provincia, nella frazione di Ovasta del Comune di Ovaro, il pronto intervento del padre impedì ad una ragazza di essere stuprata da quattro soldati austriaci.
Alcune volte, però, le vittime vennero guardate con sospetto. Innanzitutto gli stupri raccontati dalle sposate non ebbero la stessa considerazione di quelli subiti dalla ragazze nubili e dalle fanciulle, finendo, in tal modo, per replicare l'atteggiamento avuto dai comandi militari accupanti nei confronti delle donne coniugate stuprate.
Spesso, poi, si volle ampliare lo spazio della colpa delle donne. Quasi che queste avessero talvolta accettato le lusinghe di soldati e ufficiali concretizzatesi in doni di cibarie. Anche qui la maggior parte dei riferimenti sono contenuti nei rapporti provenienti dai parroci.
Comunque, in conclusione, appare chiaro che le vicende delle donne vennero tenute in considerazione solo ai fini della quantificazione dei danni arrecati dalle truppe di occupazione, per sottolineare la violenza subita dalle comunità e non per documentare "i danni di genere", cioè le conseguenze fisiche e psichiche delle vittime cui si rivolse un'attenzione subordinata.
BIBLIOGRAFIA
  • Senza via di scampo. Gli stupri nelle guerre mondiali, di M. Strazza - Consiglio Regionale della Basilicata 2010, pp.