Il 17 dicembre un commando terrorista palestinese fa una strage nello scalo romano e dirotta un aereo della Lufthansa. La vicenda presenta ancora oggi numerosi punti oscuri, a partire dai colpevoli, che non furono mai assicurati alla giustizia. Un recente volume ricostruisce la cronaca di quei drammatici eventi.
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Fiumicino 1973,
il massacro rimosso
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Dopo la stazione di Bologna, l'aeroporto di Fiumicino è il luogo in cui si sono consumate le stragi più efferate in territorio italiano. Sono 47 le vittime causate dal terrorismo arabo-palestinese nel corso di due diversi attentati: 33 il 17 dicembre 1973 (gran parte arse vive nel rogo di un boeing Pan Am), e 14 il 27 dicembre 1985 (nel corso di una sparatoria davanti ai banchi Twa ed El Al). Ed entrambi gli attentati sono modelli esemplari di rimozione storica: una lapide nella sala transiti dello scalo romano si limita a ricordare il sacrificio del finanziere Antonio Zara; ma, soprattutto, nessuno dei nomi di quelle oltre quaranta vittime compare negli elenchi, periodicamente aggiornati da istituzioni o associazioni di familiari, dei caduti per mano terroristica. Una rimozione dovuta in parte a disinformazione, ma indotta anche dalle esigenze della politica filoaraba dei governi italiani di allora e dalla necessità di occultare la tolleranza accordata ai gruppi terroristici palestinesi (il cosiddetto "lodo Moro", dal nome del suo principale artefice) al fine di evitare nuovi lutti.
Su quei due attentati calò quasi subito il silenzio, che ora viene finalmente rotto da un volume di Salvatore Lordi e Annalisa Giuseppetti dedicato alla prima strage, quella del 1973 (Fiumicino 17 dicembre 1973. La strage di Settembre Nero, Rubbettino, 2010, pp. 182, euro 13,00). Gli autori hanno ricostruito minuziosamente la vicenda dando voce anche ai testimoni diretti e ai parenti delle vittime, componendo un puzzle che, pur in assenza di alcuni tasselli (il ruolo dei nostri servizi segreti, la passività del ministero degli interni, la presenza di un misterioso jet che seguì il jumbo dirottato), stabilisce finalmente alcuni punti fermi su tutta la vicenda.
Ma cosa accade quel giorno a Fiumicino? Proviamo a ricostruire le fasi iniziali dell'attacco sulla base del volume di Lordi e Giuseppetti e di alcune indagini fatte tempo addietro da chi scrive. Il 17 dicembre 1973 è un tranquillo lunedì di frenesia. Viaggiatori indaffarati con le valige, piloti, steward e hostess che rimbalzano da un aereo all'altro, qualche poliziotto in servizio di routine, duty-free affollati. E decine di persone in coda davanti alle porte per il rilevamento al metal detector. A una settimana da Natale l'aeroporto internazionale "Leonardo Da Vinci" vive il normale stress di inizio settimana, aggravato però dal concomitante avvicinarsi delle festività di fine anno. Le quarantamila persone che quotidianamente, tra lavoratori e passeggeri, convergono su quei cinquanta chilometri quadrati di superficie in prossimità della costa tirrenica, probabilmente sono destinate ad aumentare. Lo scalo è sorvegliato da 117 uomini, di cui 109 impegnati in operazioni di frontiera. Ma la squadra antisabotaggio è formata da soli otto uomini della Polizia di Stato.
L'atrio e la sala partenze hanno iniziato a riempirsi già di prima mattina. Decolli e atterraggi sembrano non riuscire a smaltire la grande quantità di viaggiatori in partenza, in arrivo o semplicemente in transito. Neanche l'avvicinarsi dell'ora di pranzo interrompe i ritmi frenetici. I passeggeri che devono imbarcarsi con i voli nelle prime ore del pomeriggio sono già sul posto. Diversi voli in partenza attorno a mezzogiorno hanno accumulato il ritardo tipico delle ore di massima congestione.
Alcuni giorni prima cinque terroristi di Settembre Nero sono partiti da Tripoli - dove il colonnello Gheddafi, da quattro anni al potere, si atteggia a difensore dei più disparati "movimenti di liberazione" dell'area africana e mediorientale - con un volo per Madrid. Qui hanno atteso probabilmente le istruzioni definitive e le armi da una cellula locale. Il 17 dicembre, di prima mattina, si imbarcano su un volo Iberia per Roma-Fiumicino. Sanno che i controlli all'aeroporto spagnolo sono inesistenti. Un viaggiatore che si trova seduto di fianco a uno dei cinque nota qualcosa di strano: l'abito elegante del suo vicino contrasta con la rozza e grossa valigia del bagaglio a mano, ingombrante e decisamente pesante. Ma è solo un attimo. Il volo prosegue regolarmente e regolarmente atterra a Fiumicino. Sono le 11 e 30.
«Alle 12,45 sento alle mie spalle dei colpi di pistola. Mi giro. Estraggo la mia arma dalla fondina e mi getto dietro una colonna. Da qui vedo la scena, impressionante, terribile, che mi rimarrà per sempre impressa a fuoco nella memoria». A parlare è il brigadiere Bruno Mercurio, in un'intervista raccolta da Marzio Bellacci su "Epoca" (30 dicembre 1973). Il brigadiere distingue «otto uomini, arabi dalla faccia, armati di mitra e di pistola, un vero commando di banditi, [che] corrono per la sala d'aspetto con le armi spianate. Il mio cane Marty, un segugio addestrato a fiutare la droga, abbaia furiosamente. Non è un cane d'attacco, ma l'istinto lo fa agire così. Io, schiacciato contro la colonna, tengo la pistola puntata e grido, ma non sparo, perché ho paura di colpire i miei commilitoni e la gente che vi è attorno».
Il commando dei terroristi arabi si è materializzato improvvisamente nella sala transiti, in quella zona in cui i passeggeri in arrivo sostano nell'attesa di imbarcarsi su un altro volo. I terroristi si sono uniti a una comitiva di pellegrini arabi in partenza per la Mecca. Si sono messi tranquillamente in fila per i controlli alle porte del metal detector, ognuna delle quali è presidiata da un agente di polizia. Sono in cinque, probabilmente. Giunti davanti a una porta, uno di loro estrae una pistola e la punta alla gola del poliziotto che ha di fronte.
L'accompagnatrice del gruppo di pellegrini, Hanya Beydoun, è in fila proprio dietro a quel terrorista: «Mi stavo dirigendo verso gli agenti di pubblica sicurezza di servizio al posto di controllo. Davanti a me c'era un giovane alto e ben vestito. Giunto vicino alla guardia di finanza, ha messo le mani in tasca, ha estratto una pistola. Era un segnale. Nello stesso istante dal gruppo dei pellegrini sono usciti, con i mitra in pugno, i terroristi. Non so quanti fossero, credo una decina. Hanno incominciato a sparare. Alcuni proiettili hanno bucato le tubature dell'acqua che è cominciata a cadere sui passeggeri pronti a partire. Sono fuggita». Così nell'intervista rilasciata a caldo al "Corriere della sera".
Il gruppo che ha scatenato l'azione riesce a disarmare i sei agenti di pubblica sicurezza in servizio per il controllo dei bagagli che si trovano davanti a loro. Uno di questi, Ciro Strino, cerca di reagire estraendo la pistola ma un proiettile lo colpisce al polmone. Ferito, seguirà poi anche lui il destino degli altri ostaggi. La sparatoria continua, confusa. Alle detonazioni secche dei mitra si sovrappongono le urla dei passeggeri nella sala transiti.
Ricorderà anni dopo uno di quegli agenti: «In quel periodo l'allarme terrorismo scattava almeno una volta al mese. Non era la prima volta. Qualche mese prima erano stati trovati i razzi a Ostia per un attacco a un aereo israeliano. E solo poche settimane prima di questa storia furono rinvenuti nella sala transiti dei bagagli abbandonati pieni di armi. Erano situazioni all'ordine del giorno». Un copione già visto quindi, al quale le autorità sembrano non aver destinato le opportune attenzioni.
Ora però è questione di pochi istanti concitati. Gente che si getta a terra, schegge di vetro scagliate in ogni direzione, odore di polvere da sparo. Gli agenti sono sotto la minaccia delle armi.
Continua la testimonianza del brigadiere Mercurio: «Gli arabi si dividono: quattro con i mitra puntati spingono sei agenti verso l'uscita 14. Altri quattro corrono verso la 10, abbattono la vetrata a raffiche di mitra, scendono in pista e si lanciano verso l'aereo americano. Dall'alto cadono pezzi di vetro, lampade al neon e la gente attorno urla impazzita di terrore». Un dipendente delle linee aeree etiopiche, Lemma Makonen, che per caso si trova sulla strada di questo secondo gruppo, viene preso e scaraventato dalla palazzina sulla pista. Se la caverà con un grande spavento e la rottura del bacino.
Nello spiazzo antistante le partenze internazionali del molo ovest sono fermi a poca distanza tra loro tre velivoli, un Jumbo dell'Air France per Beirut e Damasco, un aereo della Lufthansa con destinazione Monaco e il Jumbo "Clipper Celestial" della compagnia Pan American, diretto a Beirut e Teheran. E' questo il vero obiettivo della missione.
Un operaio addetto al rifornimento sulla pista, Franco Antonelli, si trova a una ventina di metri dall'aereo americano. «Ero sotto la pancia dell'aereo dell'Air France, a una ventina di metri dal 707 americano. Stavo rifornendo l'aereo di benzina quando ho sentito un'esplosione e ho visto, letteralmente, volare a terra un uomo dalla palazzina della aerostazione, attraverso i vetri infranti di un passaggio» ("Il Tempo", 18 dicembre 1973). Antonelli cerca di soccorrere l'uomo, ma attorno a lui sibilano le pallottole e deve buttarsi a terra. La gente urla e fugge da tutte le parti abbandonando borse e valige.
Il secondo gruppo del commando si dirige verso le due scalette di accesso del jumbo Pan American, a prua e a poppa. Tra i componenti qualcuno riconosce una donna bionda con un giubbotto nero, ma nelle testimonianza rese in seguito non ci sarà accordo sulla sua effettiva presenza.
I portelloni sono ancora aperti. Il "Clipper Celestial" doveva essere in volo da una manciata di minuti, ma un banale ritardo ha costretto a prolungare le operazioni imbarco. A bordo ci sono sessanta passeggeri di tutte le nazionalità, marocchini, italiani, tedeschi. Ma soprattutto americani, dipendenti di una compagnia petrolifera che con le loro famiglie rientrano in Iran.
Nella cabina di pilotaggio il comandante impiega pochi istanti a realizzare quanto sta accadendo. «Volevano ucciderci tutti. Non ci hanno dato la possibilità di metterci in salvo. Trenta secondi. Poi è finita per quelli rimasti nell'aereo», racconterà Robert Davidson, il primo ufficiale.
Appena completati gli ultimi controlli prima del decollo Davidson vede un movimento insolito nella palazzina. «Si sono uditi degli spari e si sono visti andare in frantumi i vetri. Con l'altoparlante ho detto ai passeggeri che qualcosa stava succedendo, di slacciare le cinture e di mettersi a terra. Poi ho aggiunto che uomini armati erano sul piazzale». Ma ormai è troppo tardi. I portelli sono aperti, le scalette di accesso ancora saldamente posizionate. «Sono uscito dalla cabina e mi sono avvicinato al portello aperto. Stava arrivando un uomo. In mano aveva una bomba, come quelle tedesche, con il lungo bastone e il contenitore in cima. Ho capito che voleva farci saltare in aria. Ad una delle hostess e a un tecnico ho gridato di aprire i portelli delle uscite di emergenza. Poi una fiammata e l'esplosione» ("Corriere della sera", 18 dicembre 1973).
Un altro terrorista si è affacciato contemporaneamente al portello posteriore e ha lanciato un altro ordigno, forse due. E' una strage. L'aereo viene squarciato in due punti, nella zona centrale e verso la coda. Fiamme e schegge fanno strazio dei passeggeri. Gran parte di loro verranno estratti dai rottami della carlinga completamente carbonizzati, irriconoscibili. Il fumo e il panico mettono a repentaglio la vita anche dei passeggeri più lontani dalle deflagrazioni. Non tutti sono riusciti a sganciare le cinture di sicurezza. Circa trenta passeggeri si accalcano verso le uscite di sicurezza e i due portelloni, cadendo gli uni sugli altri sul cemento della pista.
George Fraser, scampato miracolosamente al rogo con la moglie e la figlia, spiega la drammatica sequenza degli eventi: «Abbiamo sentito l'appello del comandante, ci siamo abbassati per non esporci, ma subito dopo la prima fiammata il fumo ci ha impedito di vedere. Prima siamo andati avanti, poi indietro. Qualcuno ha aperto un portello e siamo scesi a terra dall'ala. Un uomo era già a terra, ferito. Insieme con un amico lo abbiamo raccolto e portato a una macchina. Poi non ce la facevo più. Avevo le mani a pezzi» ("Il Messaggero", 18 dicembre 1973). In ospedale gli riscontreranno profonde ustioni alle mani e a un braccio.
Un altro passeggero, Ramino Penaherrera, riesce a sfuggire all'aereo in fiamme direttamente dalla scaletta di poppa ma sulla pista si imbatte in uno dei terroristi. L'arabo ha il viso insanguinato, cerca di bloccarlo, ma lui riesce a divincolarsi e a fuggire. Un ostaggio in meno per il successivo dirottamento.
Mentre il Boeing americano brucia come una torcia la sparatoria continua. I terroristi indirizzano raffiche di mitra verso la palazzina dell'aerostazione per scoraggiare l'intervento delle forze dell'ordine. A terra la confusione è indescrivibile. I voli in arrivo vengono deviati su Ciampino. I mezzi antincendio si precipitano sul velivolo in fiamme, lo ricoprono con getti di schiuma bianca. Dopo alcuni minuti un pompiere riesce a penetrare all'interno. Vede i corpi. Sembrano statue di gesso, racconta inorridito, alcuni sono ancora seduti sulle poltroncine. Trentuno le vittime del rogo, tra loro anche quattro italiani, Raffaele Narciso, dipendente Eni, e la famiglia De Angelis, Giuliano, Emma e la piccola Monica.
Intanto il commando di Settembre Nero ha condotto i sei poliziotti presi in ostaggio sull'aereo della Lufthansa. A loro viene aggiunto anche un dipendente dei servizi a terra, Domenico Ippoliti. Un agente della guardia di finanza, Antonio Zara, già immobilizzato e disarmato, viene ucciso sulla pista con una raffica alla schiena.
L'aereo con i terroristi e i gli ostaggi ottiene subito il via libera. Le autorità aeroportuali, che si muovono su indicazione del Ministero dell'Interno, non temporeggiano, non pongono ostacoli all'immediata volontà dei terroristi di decollare e procedere di fatto al dirottamento. Non viene intavolata alcuna trattativa, non vengono posti mezzi di servizio per impedire, almeno temporaneamente, l'allineamento sulla pista di rullaggio del velivolo. Che deve sì manovrare con una certa difficoltà tra gli aerei a terra, le autobotti e i mezzi di servizio per raggiungere la zona di decollo, ma che in pochi minuti dà la massima potenza ai motori e scompare in cielo. Sono le 13 e 15. Dall'inizio dell'attacco sono passati poco più di venti minuti.
Intanto polizia e carabinieri riescono a fatica a creare un cordone di sicurezza attorno allo scalo. L'ufficio di PS all'aeroporto aveva chiesto immediatamente rinforzi, ma l'azione si è svolta con una fulmineità tale da vanificare l'intervento dei tiratori scelti. Che giungono sul posto quando il jet si è appena staccato da terra alla volta di Atene. Vengono comunque istituiti due posti di blocco in autostrada, all'altezza del bivio per Civitavecchia. Lo scalo è messo in stato d'assedio da centinaia di agenti, che impediscono a chiunque di entrare o di uscire. E si perlustrano le zone attorno all'aeroporto. Nella parte settentrionale una pattuglia dei carabinieri scopre un buco nella recinzione. Nei punti in cui la rete è stata tagliata il metallo è ancora lucido, del tutto privo di ossidazione. E' da lì che si sono introdotti alcuni dei terroristi che hanno attaccato il "Clipper Celestial"? E' da quello squarcio che alcuni di loro sono fuggiti? Un testimone racconta di aver visto una Citroen ferma in prossimità della rete e di averla osservata partire a tutta velocità qualche minuto prima che si udissero le detonazioni. Alla guida c'era un uomo di carnagione scura. Era un palo? Aveva appena scaricato qualcuno? L'indagine si dimostrerà estremamente lacunosa nello stabilire le modalità dell'attacco. E nonostante le numerose testimonianze, della ipotesi di un secondo commando responsabile della strage sul jet Pan non si parlerà più. Uno dei tanti buchi neri di questa vicenda.
Una vicenda che nel volume di Lordi e Giuseppetti viene seguita minuziosamente anche nei suoi successivi sviluppi, dallo scalo ad Atene (dove i terroristi uccideranno Ippoliti, senza riuscire a farsi consegnare alcuni prigionieri palestinesi), al vagabondare del velivolo nei cieli del Medio Oriente in un'odissea che terminerà dopo circa trenta ore a Kuwait City, con la resa del commando e la consegna degli ostaggi. I terroristi, presi in carico dalla polizia kuwaitiana, non verranno mai estradati. Le autorità locali non solo rifiuteranno la consegna dei colpevoli all'Italia ma non ne forniranno nemmeno i nominativi. Mesi dopo il Kuwait decise un loro "affidamento" all'OLP, che di fatto si risolse in una liberazione. Di loro non si seppe più nulla.
«37 anni dopo - concludono gli autori - è ancora la cronaca a parlare e a registrare la rabbia e il rammarico dei cittadini nei confronti di un Paese che non è riuscito ad assicurare alla giustizia i colpevoli della mattanza e a mettere la parola fine a una ferita che resta ancora aperta, soprattutto per i familiari delle vittime».
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BIBLIOGRAFIA
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Fiumicino 17 dicembre 1973. La strage di Settembre Nero, di S. Lori e A. Giuseppetti - Rubbettino, 2010
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Intrigo internazionale. Perché la guerra in Italia. Le verità che non si sono mai potute dire, di G. Fasanella e R. Priore - Chiarelettere, 2010
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