Il carcere di Pitesti fu un inferno creato per la gloria della Romania socialista: tra le sue mura la morte diventava quasi una speranza. A differenza di quanto avvenuto con i criminali nazisti, non uno dei responsabili di questo "laboratorio dell'orrore" è mai stato punito.
|
|
L'esperimento carcerario di Pitesti:
quando si voleva rieducare anche l'anima
|
|
|
Pitesti è una cittadina romena situata un centinaio di chilometri a nord-ovest di Bucarest e che nasconde la memoria dell'orrore compiuto nel suo carcere.
Proprio a Pitesti, sorgeva un tempo un carcere speciale per la "rieducazione" dei prigionieri politici: qui, tra il 1949 e il 1952, furono infatti commesse atrocità tali da costringere persino il non tenero regime di allora a intervenire, eliminando fisicamente i responsabili di esse.
Fu proprio la Romania, assieme alla Cecoslovacchia, a dare un contributo originale alla storia della repressione politica nell'Europa centrale e sud-orientale, introducendo nel continente europeo i metodi di "rieducazione politica".
Finita la Seconda Guerra Mondiale, la Romania era rimasta l'unica monarchia del Blocco Orientale.
Nel corso del 1947 i comunisti, saldamente al governo dal 1945, imposero la "dittatura del proletariato" e il 31 dicembre di quell'anno costrinsero re Mihai (Michele) ad abdicare. Nacque in questo modo la Repubblica Popolare Romena, formalizzata con la Costituzione del 13 aprile 1948 e in stretta sudditanza nei confronti di Mosca.
L'asservimento all'URSS divenne ancor più palese, quando tutti i ministeri del Paese furono "occupati" da consiglieri sovietici. Questi, ufficialmente, "consigliavano" i ministri romeni, tuttavia detenevano di fatto tutti i reali poteri decisionali.
La nazionalizzazione delle terre, delle banche e delle maggiori imprese del Paese, messa in atto dall'11 giugno del 1948, fu lo strumento che completò il processo di sovietizzazione del Paese.
Con la conquista definitiva del potere, il Partidul Comunist Roman (Partito Comunista Romeno) scatenò un terrore sistematico contro gli oppositori politici, fossero essi reali o immaginari. Il braccio repressivo dei nuovi governanti romeni fu creato il 30 agosto del 1948, mediante la trasformazione della "Direzione Generale della Sicurezza dello Stato" (Siguranta Statului) nella "Direzione Generale della Sicurezza del Popolo" (Departamentul Securitatii Statului, più comunemente chiamata Securitate). Questo organismo fu creato con l'aiuto dello SMERSH (il dipartimento di controspionaggio dell'Armata Rossa) che operava in Romania e che si chiamava Brigada Mobila (Brigata Mobile).
La Securitate era subordinata direttamente al Ministero degli Affari Interni e i suoi primi tre dirigenti (il generale Gheorghe Pintilie, Direttore Generale, e Alexandru Nicolschi e Vladimir Mazuru, suoi vice) furono probabilmente, anche se mai provato, agenti dei servizi russi che agivano sotto falso nome romeno.
La costituzione di un'estesa rete di informatori, che operava tra la popolazione e all'interno delle carceri, completò il controllo del governo sulla società romena.
Le due grandi categorie sociali più controllate furono le cosiddette "elite" (politiche, intellettuali, religiose) e la generazione-ponte tra la vecchia società e la nuova (gli studenti).
Il terrore per "convertire" il popolo al comunismo fu giustificato attraverso le disposizioni della nuova Carta costituzionale, che prevedeva, tra l'altro, il divieto assoluto di critica al governo per i singoli e per tutte le associazione che avessero "natura fascista o anti-democratica", in pratica anticomunista, garantendo la libertà di stampa, di parola e di assemblea solo per "coloro autorizzati a farlo".
Il dissenso fu soffocato soprattutto usando metodi di repressione violenta: arresti, inchieste, torture, lavori forzati, imprigionamento con sottoalimentazione prolungata, pressioni morali.
Il governo di Petru Groza e Ana Pauker aveva dato mandato per la rieducazione dei giovani dissidenti romeni al Ministro dell'Interno Teohari Georgescu, che a sua volta aveva trasmesso l'ordine al dirigente della Securitate, il generale Alexandru Nikolski.
Lo strumento più attivo per la rieducazione forzata della popolazione romena divenne, dal 1949 al 1952, il carcere di Pitesti, situato a circa un centinaio di chilometri a nord-ovest di Bucarest. Qui fu sperimentata una terribile forma di tortura che neppure i gulag sovietici avevano e avrebbero mai conosciuto.
Attraverso Experimentul Pitesti la rivoluzione in Romania diventò crimine totale e, inferendo sul corpo di chi contestava il vangelo comunista, tentò di rieducare anche l'anima degli oppositori annullando la loro autonoma capacità razionale.
Partendo dalle teorie del pedagogo sovietico Anton Semenovyc Makarenko (1888-1939), esperto di delinquenza giovanile e sostenitore della tesi in base alla quale il miglior rieducatore di un delinquente giovanile è un ex delinquente della stessa età, a Pitesti si lavorò per annientare ogni eresia al credo comunista e "riprogrammare" i giovani nella nuova società romena.
Scopo dell'esperimento, dunque, fu quello del rinnegamento delle convinzioni e delle idee politico-religiose dei detenuti, per terminare con l'alterazione della personalità.
Apostolo di questo esperimento fu Eugen Turcanu, inizialmente discepolo della "Guardia di ferro", movimento nazionalista, anticapitalista, antibolscevico e antiebraico, in pratica nazista-fascista.
Imprigionato nell'estate del 1949 nel carcere della città di Suceava, cittadina della regione storica della Bucovina, al nord del Paese, Turcanu si convertì al credo comunista e fondò, assieme ad un altro prigioniero convertito, Alexandru Bogdanovici, la Cu Convingeri Comuniste di Organizatia Detinutilor (ODCC - Organizzazione dei detenuti di convinzioni comuniste).
Convertito al comunismo, Turcanu presentò il suo progetto di rieducazione al generale Alexandru Nikolski, allora capo della Securitate, e ne ottenne l'approvazione. Il generale incaricò dell'esecuzione del progetto il colonnello Zeller.
Per la particolarità del luogo, inaccessibile a testimoni esterni e lontano da qualunque grande centro abitato, e la qualità dei detenuti, quasi tutti giovani - la maggior parte dei quali studenti cristiani - condannati per motivi di dissidenza politica al regime, al carcere di Pitesti fu assegnato il compito di sperimentare il nuovo metodo rieducativo. Il direttore della prigione fu dunque informato dal colonnello Zeller di attuare il progetto "ospitando" nel suo istituto di pena Turcanu e i suoi accoliti, perché agissero per il bene del Partito Comunista Romeno.
Nel dicembre 1949 la congrega dei comunisti riconvertiti guidata da Turcanu si trasferì in questo carcere.
Per tre anni il carcere di Pitesti, sotto la regia di Turcanu, divenne per oltre mille detenuti politici l'anticamera terrena dell'inferno.
Non si uccideva a Pitesti, se non per errore, e si verificò un solo suicidio, quello dello studente Serban Gheorghe, ma subito furono adottate opportune contromisure.
Il progetto di rieducazione del detenuto si svolgeva attraverso un programma di depersonalizzazione che comprendeva torture e supplizi fisici e psicologici tanto fantasiosi quanto crudeli.
Pitesti, infatti, presenta due caratteristiche che la distinguono da analoghe esperienze: a parte il terribile "menù" di atrocità compiute, torturatori e torturati condividevano la stessa cella, il che impediva, sia di potere allentare il terrore sia di poter godere della solidarietà degli altri compagni di sventura; da vittime, poi, si diveniva carnefici.
Il processo di rieducazione comprendeva cinque fasi.
La prima fase era quella dell' "indebolimento della persona": restrizioni molte severe erano attuate all'ingresso della prigione (razioni di cibo molto contenute e privazione del sonno e della parola). Queste portavano al deperimento fisico e psichico. I nuovi arrivati, inoltre, venivano rinchiusi in celle con persone già rieducate, che ovviamente non rivelavano nulla, ai quali confidavano i propri pensieri e i sentimenti più intimi.
La seconda fase era quella dello "smascheramento interiore": attraverso la tortura e i supplizi, il prigioniero denunciava le proprie convinzioni religiose e ideologiche.
La terza fase era quella dello "smascheramento esteriore": il prigioniero era costretto, sempre attraverso tortura e supplizi, a rivelare i nomi dei complici (reali o supposti) ancora in libertà, specie se si trattava di parenti o amici. I nomi, poi, erano trasmessi alla Securitate che procedeva all'arresto.
La quarta fase era quella dello "smascheramento morale pubblico": il detenuto doveva, davanti ai suoi compagni, abiurare i suoi ideali politici e religiosi attraverso la blasfemia, spesso orgiastica, e distruggere la reputazione dei propri parenti più stretti e amici più cari.
Infine c'era la cosiddetta "metamorfosi": per dimostrare di essere veramente convinto di quanto dichiarato, il prigioniero era reclutato nel gruppo dei torturatori e doveva dar prova della sua riconversione torturando un suo parente, amico o compagno di cella.
I prigionieri che rinnegavano tutto il loro passato, tradivano e denunciavano gli affetti più cari, insudiciavano ciò che avevano ritenuto più sacro prima di entrare lì dentro, e soprattutto mostravano particolare malvagità ai danni degli altri internati, erano considerati "redenti" e diventavano membri dell'Organizzazione dei detenuti di convinzioni comuniste e, quindi, scagnozzi di Turcanu. Potevano anche aspirare all'uscita dal carcere, al ritorno fra la gente normale, nelle vesti di agente della Securitate, ma questa è stata più una eventualità promessa che praticata.
Il catalogo delle torture e dei supplizi prevedeva tecniche sia classiche sia fantasiose: lesioni con corpi contundenti, marchiature e bruciature sul corpo, perforazione delle piante dei piedi per mezzo di aghi, privazione del sonno o costrizione a dormire in posizioni fisse (ad esempio immobili con le braccia rigidamente incrociate sul petto), mancanza della luce per lunghi periodi o esposizione prolungata a luce intensa, divieto di parlare, sospensioni dal soffitto per ascelle con pesi sulle spalle, schiacciamento sotto il peso di altri corpi, strappo dei capelli alla radice, rottura delle dita di mani e piedi, obbligo di inghiottire sale senza poter bere, tortura con il metodo della goccia cinese (metodo di tortura che consiste nell'immobilizzare il malcapitato e fargli cadere sulla fronte, sempre nello stesso punto, una goccia d'acqua ad intervalli regolari, che alla lunga portano alla follia e a serie lesioni al cranio), obbligo a mangiare direttamente dalle gavette cibo bollente, costrizione ad urinare nelle bocche dei compagni, immersioni prolungate della testa in secchi colmi di urina e feci, costretti a mettersi nudi e a carponi in cerchio per baciare il sedere di chi stava avanti, coprofagia forzata, atti sessuali contro natura.
La lunga lista degli orrori prevedeva anche atti sacrileghi, specie quando si avvicinavano le feste della religione cristiana. Così si doveva partecipare a processioni e messe blasfeme, o a parodie sessuali della vita del Cristo: alla fantasia perversa degli aguzzini non c'erano limiti.
Tra le parodie sacrileghe c'erano processioni completamente nudi con in testa un detenuto vestito con abiti sacerdotali e con in mano un fallo di sapone che rappresentava la croce che tutti erano costretti a baciare. I partecipanti erano costretti a cantare canti religiosi con i testi cambiati e con delle parole offensive contro Gesù e la Madonna. Oppure scenette che riprendevano il tema del Natale: dopo aver assegnato un ruolo ad ogni detenuto (Giuseppe, Maria, l'asinello e così via), si passava alla rappresentazione con l'asino che palpava Maria Maddalena, "Giuseppe" sodomizzava l'asino che stava con la testa poggiata nelle braccia della "puttana Maria" che a sua volta era sodomizzata da "Gesù". Oppure ancora, si obbligava un detenuto a sedersi sul water in presenza di tutti e dopo aver defecato tutti dovevano farsi il segno della croce perché, si diceva, era appena nato Gesù.
C'erano anche lezioni teoriche, dove si diceva che il Cristo era un impostore, che non era figlio di Giuseppe e, quindi, era un bastardo, che Maria Maddalena era l'amante di Gesù, che Giuseppe era stato incornato da Maria. A proposito del Cristo, Turcanu amava ripetere durante le sedute di rieducazione: "Se mi fossi occupato di Gesù, lui non sarebbe mai diventato Cristo".
Spesso si ricorreva anche alla simulazione del battesimo: i detenuti dovevano immergere la testa in una tinozza piena d'urina e di materia fecale, mentre gli altri detenuti attorno salmodiavano la formula del battesimo. Molti dei detenuti che avevano subito sistematicamente questa tortura, acquistarono un automatismo che durò circa due mesi: tutte le mattine alla sola presenza degli educatori immergevano da soli la testa nella tinozza.
Ovviamente tutto questo aveva un impatto devastante sui giovani detenuti, specie per gli studenti di teologia.
L'esperienza di Pitesti fu estesa anche ad altre prigioni (Gherla, Tirgu Ocna e Ocnele Maru), ma poi fermata di colpo nell'estate del 1952: cominciarono a circolare voci sulle nefandezze che si compivano in quel carcere, inoltre la presenza in Romania di tecnici stranieri che lavoravano per aziende estere preoccupava il governo della diffusione delle notizie in Occidente.
Non fu difficile per il governo scaricare le colpe per non compromettere troppo la propria immagine con gli alleati. Ci pensò il generale Alexandru Petrescu a indirizzare verso i plotoni d'esecuzione quelli che dovevano essere ufficialmente i soli responsabili.
Turcanu e ventidue "operai" della sua equipe furono accusati di aver ricorso alla tortura dei detenuti per screditare il regime comunista e, in seguito a un processo farsa, tutti furono condannati alla pena di morte.
Il teorema processuale che portò alle condanne a morte fu rivolto tutto a riabilitare il Partito Comunista Romeno e il governo: Turcanu, che era stato un legionario della Guardia di ferro, sarebbe stato ispirato dal suo leader in esilio Horia Sima, con l'appoggio americano, per screditare ed infamare lo Stato socialista che il proletariato romeno stava edificando; i suoi "esperimenti" sarebbero stati messi in scena con l'imperdonabile leggerezza nella sorveglianza delle autorità carcerarie, a loro volta elogiate poiché proprio loro avrebbero denunciato al Partito i fatti.
Nessun responsabile politico e morale dell'esperimento fu punito: non Ana Pauker e non il generale Alexandru Nicolschi e neppure si riuscì ad incriminare il colonnello Zeller, che si suicidò per la vergogna. Fu solo condannata la manovalanza, mentre i mandanti ne uscirono illesi.
Turcanu, assieme alla sua banda, fu fucilato in gran segreto nel 1954. Tutta la documentazione riguardante Pitesti fu manipolata o parzialmente distrutta. Il carcere in seguito fu abbandonato e poi raso al suolo. Oggi un monumento sul posto ricorda all'umanità quelle barbarie.
Non è nota la cifra esatta degli sfortunati che transitarono per Pitesti. Si calcola che i "dannati di Pitesti" furono tra mille e cinquemila, per fortuna una minoranza dei detenuti politici del regime romeno (550mila circa fra il 1949 ed il 1960).
Le prime notizie su Pitesti arrivarono in Occidente solo pochi anni dopo la "caduta" dell'URSS. Maggiori dettagli si ebbero a partire dal 1996 quando giornalisti scrupolosi e coraggiosi indagarono su quell'inferno.
La causa della mancanza di informazioni precise è dovuta a una serie di circostanze: lo sterminio fisico sistematico di coloro che ne sono stati le vittime; l'alterazione o la distruzione dei documenti ufficiali, compresi quelli dello stesso processo-farsa a Turcanu; il rifiuto a testimoniare da parte dei pochissimi prigionieri sopravvissuti.
Questo rifiuto degli scampati di Pitesti è comprensibile analizzando il tipo di trattamento al quale i detenuti erano sottoposti: la vergogna, il dolore fin dentro l'anima ha costretto al silenzio. Ha detto un sopravvissuto: a Pitesti «eravamo tutti dannati e tutti innocenti»; perché «oltre certi limiti di sofferenza non si può continuare a essere uomini». Questi uomini potevano essere salvati solo dalla morte, ma a Pitesti questa non era concessa.
|
|
BIBLIOGRAFIA
-
Pitesti, laboratoire concentrationnaire (1949-1952)
, di Ierunca V. - Michalon, Parigi, 1996-
Il libro nero del comunismo, di Courtois S., Werth N., Panné J. L., Paczkowski A., Bartosek K., Margolin J. L. - Mondadori, Milano, 1997
-
Memorialul Durerii, di Longin H. L. - Humanitas, Bucarest, 2007
-
Pitesti. "Cronica unei sinucideri asistate", di Muresan A. - Editura Polirom, Iasi, 2007
-
Musica per lupi. Il racconto del più terribile atto carcerario nella Romania del dopoguerra, di Fertilio D. - Marsilio,Milano, 2010
-
Intervista a Aristide Ionescu per la realizzazione del film documentario "Il genocidio delle anime. L'esperimento Pitesti - la rieducazione attraverso la tortura", di Sorin Iliesiu, in http://www.thegenocideofthesouls.org/public/italiano/testimonianze-dei-sopravvissuti/
|
|
|