SOSTENEVA ANDRÉ MAUROIS: "La diplomazia è l'arte di esporre
l'ostilità con cortesia, l'indifferenza con interesse e l'amicizia con prudenza.
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"AMBASCIATOR NON PORTA PENA":
PICCOLA STORIA DELLA DIPLOMAZIA
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"Ambasciator non porta pena" è il detto che rispecchia i privilegi e le immunità conquistate dal Corpo diplomatico nel corso della storia.
Diplomazia è un termine che deriva dal verbo greco diploun (piegare in due). Ai tempi dell'impero romano i documenti imperiali, come lasciapassare, permessi di transito, eccetera, erano applicati su piastre metalliche doppie, piegate e cucite. Questi documenti venivano chiamati "diplomas". Successivamente tutti i documenti ufficiali, che conferivano privilegi o statuivano accordi e così via, non necessariamente applicati su metallo, furono chiamati "diplomas". L'enorme produzione di "diplomas" fece nascere la figura dell'archivista e decifratore di questi documenti. L'aggettivo "diplomatica", in origine si riferiva esclusivamente alla scienza che studia i documenti ufficiali: la res diplomatica, gli "affari diplomatici", appunto. L'utilizzo dei termini "diplomazia" e "diplomatico" risale a non prima del 1796, quando in Inghilterra Edmund Burke iniziò a utilizzarli designando "l'insieme delle procedure politicoistituzionali mediante le quali gli Stati intrattengono relazioni reciproche". A partire dal 1815, dopo il Congresso di Vienna, il servizio diplomatico divenne una vera e propria professione distinta da quella del politico, acquistando così valore giuridico con norme e prescrizioni.
E' probabile che anche nella preistoria, sin dal primo organizzarsi di gruppi di uomini separati da altri, si sentì l'esigenza di inviare emissari per proporre delle tregue ai combattimenti che si registravano in quel periodo. E' sicuro, comunque, che l'attività diplomatica era ampiamente praticata nell'antichità, dalle polis greche a Roma, da Bisanzio alla Cina imperiale. Tuttavia, in nessuno Stato antico vi fu mai un'organizzazione permanente preposta all'espletamento delle attività diplomatiche.
Nel mondo greco i rapporti diplomatici erano essenziali, dato il frazionamento delle cittàStato. Per questo si andò elaborando una prima embrionale forma di diplomazia organizzata, anche se siamo ancora lontanissimi dalla vera e propria attività diplomatica permanente. Dal diritto privato, così, si sviluppò il concetto di immunità diplomatica che, sebbene non codificato esplicitamente, costituì una regola costante che col passare del tempo diverrà prassi formalizzata. In pratica si capì subito che, in caso di guerra o di ostilità non guerreggiata tra Stati, se l'emissario di una delle parti fosse stato ucciso, senza aver esaurito il suo compito, i negoziati per una probabile pace o per una eventuale alleanza sarebbero sfumati.
A partire dal VI secolo a.C., i greci svilupparono anche la pratica di scegliere i loro ambasciatori tra i più abili oratori o tra i più preparati avvocati del foro. Questo sta a significare che già allora si capì l'efficacia per uno Stato di dotarsi di uomini capaci di portare ambascerie e convincere le autorità degli altri Stati.
A Roma la diplomazia si sviluppò ampiamente solo nel tardo periodo repubblicano e durante l'impero. La necessità principale fu quella di mantenere i contatti con un gran numero di Stati sovrani, alleati a Roma o soggetti.
I bizantini, receperirono l'utilità delle ambasciate e, oltre a stabilire uno specifico cerimoniale per il ricevimento degli ambasciatori, istituzionalizzarono la pratica della consegna di credenziali e della ratifica dei trattati. L'inviolabilità degli ambasciatori, oltre al rispetto della vita, era estesa anche alla loro immunità personale e alla inviolabilità del palazzo in cui risiedeva. Ovviamente tutti questi privilegi furono condizionati alla reciprocità.
Gli imperatori bizantini perfezionarono i compiti dell'inviato, chiedendo loro di spedire periodicamente rapporti dettagliati sulla situazione interna dei Paesi stranieri in cui risiedevano, oltre ovviamente al compito di rappresentare ufficialmente gli interessi dell'impero presso le corti assegnate. L'inviato dove essere quindi, oltre ad un bravo oratore, anche un affidabile osservatore con un' adeguata capacità di giudizio: inizia così a delinearsi meglio la figura del diplomatico di professione.
I sovrani barbarici, come quelli degli Stati arabi, seguirono l'esempio di Costantinopoli, adottando il protocollo bizantino. Anticipando la prassi moderna, tutti i trattati stipulati in questa epoca (ad esempio quello di Verdun dell'843 o quello di Meersen dell'870) venivano preparati con l'aiuto di esperti.
Nella tarda antichità comparve anche la diplomazia pontificia. L'editto di Milano, emanato nel 313 da Costantino il Grande, garantì la libertà religiosa per tutti i culti, tuttavia l'imperatore diede maggior peso al cristianesimo sostenendolo, poiché ritenuto fattore di unità per il suo impero. Così il potere primaziale ottenuto dai pontefici contribuì alla nascita e allo sviluppo della diplomazia pontificia. Infatti, il pontefice, in seguito alle dispute interne alla cristianità, dovette mandare propri inviati, non solo per consolidare tale superiorità all'interno del cristianesimo, ma per far sentire l'opinione del pontefice alle riunioni conciliari. Il primo inviato pontificio comparve al sinodo di Arles nel 314, sotto il pontificato di Silvestro I (314337). L'utilizzo dei nunzi risale invece all'impero di Bisanzio, presso il quale il pontefice romano delegava un suo "apocrisario" (il portavoce). Il primo apocrisario fu comunque Giuliano di Coo, inviato da papa Leone I (440461) presso la coppia imperiale Marciano e Pulcheria per intercedere a favore degli interessi della Sede apostolica. A partire dal pontificato di Agapito I (535536) gli apocrisari divennero un'istituzione stabile. Fra i più noti apocrisari pontifici alla corte imperiale di Bisanzio, ricordiamo i futuri pontefici Virgilio I (537555), Pelagio I (556560) e Gregorio Magno (590604).
Sotto papa Innocenzo I (402417) la Chiesa cattolica conobbe un alto diritto di rappresentanza: il cosiddetto "vicariato apostolico". In pratica il pontefice, attraverso una bolla, concedeva ad un vescovo Nostra vece (al suo posto) di occuparsi di un vescovado, oppure del controllo di tutte le ordinazioni vescovili in un determinato territorio.
La moderna diplomazia nacque nell'Italia del Rinascimento. Nel Medio Evo, il sistema diplomatico restò sostanzialmente immutato. In questo periodo della storia operarono comunque i legati, i commissari, i nunzi, gli ambasciatori, ma nessuno di questi però raggiunse lo status di diplomatico permanente.
I Principati italiani del Quattrocento e del Cinquecento, con i loro mille intrighi, contribuirono a far nascere la moderna diplomazia, con un nuovo tipo di diplomatico, colto ma allo stesso tempo astuto e spregiudicato. Furono così le signorie italiane a introdurre un sistema di missioni diplomatiche permanenti che avevano il compito di rappresentare gli interessi dei loro Stati, di negoziare e di "riferire".
Con la "pace di Lodi" del 1454 e la costituzione della Lega italica, la diplomazia servì a mantenere faticosamente l'equilibrio politico raggiunto nella penisola. Infatti, ognuna delle signorie italiane, non avendo tuttavia la forza per signoreggiare sulle altre, si preoccupava di salvaguardare gli equilibri di potere.
In questa politica si distinse la Firenze di Lorenzo il Magnifico, ma soprattutto Venezia. La diplomazia veneta, infatti, fu famosa per l'acume e il coltivato senso politico dei suoi diplomatici residenti. Le "Relazioni" che questi inviavano al Gran Consiglio costituiscono ancora oggi una preziosissima fonte storica. Il Senato veneziano stabilì la precisa struttura formale della diplomazia, fissando le modalità comportamentali, la periodicità dei rapporti da inviare, la loro parziale cifratura.
La prima missione permanente accertata dagli storici fu quella di Francesco Sforza, duca di Milano, a Genova nel 1455. Cinque anni più tardi anche il duca di Savoia inviò il suo primo ambasciatore permanente, l'arcidiacono di Vercelli Eusebio Margaria, a Roma dal pontefice.
Possiamo tranquillamente affermare che l'Italia della seconda metà del 1400, oltre ad essere la culla dell'arte e della cultura europea, fu anche genitrice di un istituto giuridico che segnerà la futura vita politica mondiale. Una delle caratteristiche della "diplomazia all'italiana", fu l'autorevolezza di alcuni personaggi d'eccezione incaricati di svolgere delicate azioni diplomatiche: in questo periodo ritroviamo così ambasciatori e rappresentanti di Stato della statura di Dante, Petrarca, Boccaccio e, più tardi, di Machiavelli e Guicciardini, tutti influenzati dall'aspro contesto storicopolitico dell'Italia dell'epoca.
Gli ambasciatori avevano dunque l'autorità di entrare nelle città, un tempo ostili, e di monitorare tutti i movimenti politici del Paese ospite; essi fungevano da tramite con la loro patria, ma ricoprivano spesso la figura di vere e proprie spie in territorio straniero. Infatti, tra i compiti occulti, gli ambasciatori organizzavano reti di spionaggio, intercettavano i dispacci degli altri diplomatici, distribuivano materiale di propaganda.
Ecco presentarsi così l'eterno dilemma legato alla diplomazia: è lecito per un ambasciatore mentire o comportarsi slealmente nel Paese di cui è ospite? La logica del tempo, anche riprendendo intuizioni di due grandi del periodo, Machiavelli e Guicciardini, reputava lecito a un diplomatico operare anche con la menzogna e l'inganno senza che questi venisse perseguitato dall'autorità di cui era ospite. Il diplomatico in missione non era al disopra della legge, ma era semplicemente sottoposto a una legge diversa. In pratica gli ambasciatori dovevano considerarsi immuni dal reato di tradimento poiché soggetti, nel corso del loro mandato all'estero, alla giurisdizione del sovrano di cui erano legali rappresentanti.
Il fiorentino Niccolò Machiavelli (14691527), oltre ad essere considerato uno dei padri della moderna scienza politica, è anche stato un superbo conoscitore dell'arte della diplomazia. Egli sviluppò una concezione del diplomatico profondamente condizionato dal clima politico del suo tempo. Secondo la sua opinione l'operato degli ambasciatori era indissolubile dalla volontà del principe e dagli interessi del suo Stato, i quali permettevano di scavalcare la morale individuale. La diplomazia, secondo Machiavelli si configurava soprattutto come un potente strumento d'inganno.
Anche Francesco Guicciardini (14831540), ambasciatore nel 1512 presso la corte di Ferdinando il Cattolico in Spagna, assoggettò l'azione degli ambasciatori alla ragion di Stato, sostenendo anche la necessità che il diplomatico potesse godere di una certa autonomia. La sua visione spregiudicata lo portò ad adoperarsi per un'infelice azione diplomatica nella complessa situazione italiana, ormai investita dalle lotte per l'egemonia europea. Egli, infatti, si adoperò per creare una lega tra Papato, Stati italiani e Francesco I di Francia contro il concreto pericolo costituito da Carlo V, che tendeva a un'assoluta supremazia imperiale sull'Italia. Ma, come la storia racconta, la lega fu sconfitta e l'esercito di Carlo V entrò in Roma saccheggiandola (1527). I Medici, invece, furono brevemente esiliati da Firenze.
Il sistema della diplomazia italiana si estese gradualmente anche al resto dell'Europa. I primi furono i britannici nel 1519, con due ambasciatori permanenti - sir Thomas Boleyn e il dottor West - accreditati come diplomatici a Parigi. Con l'affermarsi degli StatiNazione, nel XVII secolo l'attività diplomatica venne finalizzata all'interesse degli Stati piuttosto che guidata dall'arbitrio del signore. Ovviamente l'obiettivo principale della politica estera divenne l'equilibrio tra le Nazioni più potenti. Una curiosità: un "mezzo diplomatico" molto utilizzato nella storia fu il ricorso al "matrimonio" come misura politica per appianare tensioni delicatissime e rinforzare alleanze. Tale metodo rese, ma è solo un esempio fra i molti, regina di Francia Maria Antonietta, la figlia di Maria Teresa d'Austria.
L'arte dell'inganno e della dissimulazione, che aveva dominato nella diplomazia rinascimentale, fu rimpiazzata da un codice di comportamento formale e corretto, reciprocamente accettato. In questo periodo, e precisamente nel 1625, Huigh de Groot (conosciuto meglio in italiano come Ugo Grozio, 15831645) pubblicò il suo capolavoro De jure belli ac pacis (Sul diritto di guerra e di pace). Il giurista e filosofo olandese riteneva che tutti gli aspetti delle relazioni fra Stati dovessero essere soggetti ad una legge internazionale. Grozio, sconvolto dal conflitto che si stava combattendo (la Guerra dei Trent'anni), si dedicò allo studio e all'elaborazione delle norme che dovevano in qualche modo regolare la condotta degli Stati nei loro rapporti: nasce così il diritto internazionale. Tale disciplina, oltre a disciplinare l'attività del diplomatico e della diplomazia, sarà materia indispensabile per lo stesso lavoro del diplomatico.
Nel pensiero del giurista olandese ritroviamo sempre il concetto di "guerra giusta", intesa come un'azione per realizzare un diritto giusto. Tuttavia, pur definendo la guerra quale sistema per proteggere i diritti e punire le violazioni, egli afferma la necessità di definirne giudizialmente le procedure in quanto, sebbene la guerra debba essere considerata un "male necessario", essa ha la necessità di essere regolata.
Importante nel pensiero di Grozio è il sistema elaborato per chiudere pacificamente una controversia. Egli suggerì tre metodi: il primo è costituito da conferenze e negoziazioni tra i due contendenti; il secondo viene definito "di compromesso", ed in esso ciascuno dei due contendenti rinuncia a qualche richiesta o accetta concessioni; il terzo, infine, è rappresentato da una scelta casuale (tipo tirare a sorte). Nelle trattative indispensabile deve essere la presenza di un giudice esterno, che deve appurare la correttezza delle negoziazioni. Giudiziosa è l'idea di Grozio del comportamento da adottare durante le trattative: infatti, secondo il filosofo, a volte è più opportuno rinunciare a delle giuste pretese piuttosto che cercare di imporle con la forza creando inimicizia e scontento.
La pace di Westfalia del 1648, che segnò il dissolversi del predominio del Papato e dell'Impero, fece nascere la moderna società internazionale, formata su base paritetica da Stati sovrani. Dall'intrecciarsi di intensi rapporti tra i nuovi Stati derivò la grande diffusione del reciproco invio di missioni diplomatiche permanenti. Nel 1661 la Francia aveva ben ventidue rappresentanti permanenti all'estero; nel 1667 la Russia ne aveva ventuno. Anche lo Hannover, il piccolo Stato tedesco, aveva nel 1714 ben sedici rappresentanti permanenti. Contemporaneamente andò meglio definendosi la figura dell'ambasciatore, nonché l'istituzione di organi consultivi per la politica estera che anticiparono l'odierna figura del ministro degli Esteri.
Avere rappresentanti all'estero era costoso, per questo gli ambasciatori erano spesso ricchi nobili di alto rango che, nonostante la bassissima retribuzione, a proprie spese riuscivano a soggiornare fuori patria. Essi comunque accettavano il compito per prestigio, ma anche in vista di avanzamenti futuri in patria.
La Prima guerra mondiale ebbe, tra le altre amare conseguenze, anche quella di screditare la diplomazia europea. A partire da questo periodo, e precisamente dalla Conferenza di Pace di Parigi (1919), si inaugurò un nuovo metodo: la Diplomaci by Conferece, ovvero quel tipo di avvenimento diplomatico che eliminò il dogma diplomatico della segretezza per fare spazio a riunioni politiche aperte anche ad osservatori esterni, come giornalisti o politologi. Tale metodo fu avversato dal famoso diplomatico britannico, lo scozzese Harold Nicolson (18861968) che mise in evidenza gli effetti negativi della presenza di osservatori esterni, in quanto quest'ultimi modificavano la realtà (ad esempio le ostilità fra rappresentanti governativi venivano amplificate, seminando altra zizzania tra le parti). Nicolson, per ovviare a questi inconvenienti, proponeva la preparazione e la conclusione dei lavori di negoziato prima della sua presentazione al pubblico. In pratica un lavoro svolto su due tavoli, uno privato e l'altro pubblico, e che - raggiunto l'accordo - si sarebbero uniti pubblicamente.
A partire dalla fine del primo conflitto mondiale fa la sua comparsa la "diplomazia multilaterale". Tutto è cominciato con la fondazione della Società delle Nazioni, ma ulteriori sviluppi si ebbero soltanto con le Nazioni Unite e le loro numerose Agenzie specialistiche, dalla FAO all'UNESCO, eccetera. Tutt'oggi la maggior parte degli Stati ha un rappresentante permanente presso ciascuna di esse. Successivamente alla Seconda guerra mondiale la diplomazia multilaterale si è ancor più allargata grazie al ruolo centrale assunto da organizzazioni regionali o internazionali come l'Alleanza Atlantica, l'Unione Europea Occidentale (UEO) l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), l'Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica (AIEA), l'Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa (OSCE), per non parlare del Fondo Monetario Internazionale (FMI) della Banca Mondiale o dell'Organizzazione Mondiale del Commercio.
La "diplomazia classica" subisce così una sostanziale trasformazione, dovuta soprattutto all'irrompere nell'ambito delle relazioni internazionali di un fenomeno nuovo, che è quello della cooperazione allo sviluppo. In pratica, attorno alla metà del secolo scorso, si posero le basi per le cooperazione economica bilaterale e per quella multilaterale con utilizzo sia di crediti agevolati che di doni e con l'obiettivo di promuovere la ricostruzione e lo sviluppo. Monumenti di questa politica furono (e sono) il Fondo Monetario Internazionale, nato nel 1944 a Bretton Woods e con il compito di monitorare le politiche monetarie degli Stati membri per armonizzarle fra loro e migliorare le prospettive di crescita economica degli stati stessi; la Banca Internazionale per le Ricostruzione lo Sviluppo (BIRS) con il compito di finanziare la ricostruzione dei Paesi europei indeboliti dal conflitto mondiale. Nel 1950 la BIRS fu trasformata in Banca Mondiale, con l'obiettivo di fornire crediti a condizioni di favore per contribuire allo sviluppo dei Paesi meno sviluppati.
La posizione giuridica dei diplomatici iniziò ad essere stabilità attraverso specifiche norme sancite da accordi internazionali, solo dopo il 1815, a partire quindi dal Congresso di Vienna. Con i famosi Règlement del 19 marzo 1815, e le successive norme elaborate al Congresso di Aquisgrana del 1818, si definirono le quattro categorie di rappresentanti diplomatici: gli ambasciatori legati e i nunzi pontifici, rispettivamente per lo Stato e per la Chiesa romana; gli inviati straordinari e i ministri plenipotenziari; i ministri residenti; gli incaricati d'affari.
Per evitare ogni motivo di contrasto in materia di precedenza, e quindi per dimostrare che tutti i rappresentanti diplomatici erano su una posizione di parità, fu stabilito un criterio di precedenza (valido tutt'oggi) in base all'anzianità di accreditamento. Colui che era stato accreditato prima degli altri, ricopre il titolo di "ambasciatore decano" del Corpo Diplomatico accreditato in un determinato Paese; via via succedevano gli altri sempre nell'ordine determinato dalla loro anzianità di servizio in quel determinato Corpo Diplomatico. Il decano funge da portavoce dei diplomatici accreditati in occasione di cerimonie ufficiali; presenta inoltre, in nome del Corpo Diplomatico e dopo consultazione dello stesso, eventuali note di protesta all'indirizzo dello Stato di residenza.
Fino al XVII secolo la lingua ufficiale della diplomazia fu il latino, diffuso in tutta Europa tra gli uomini di cultura. Gradualmente, con la supremazia politica della Francia sul continente europeo, il latino fu sostituito dal francese. L'intervento degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale segnò l'avvento anche dell'inglese come seconda lingua diplomatica.
La Convenzione di Vienna del 1961 codificò le regole della diplomazia. L'art. 3 indica le attuali funzioni di una missione diplomatica permanente: rappresentare il proprio Stato; proteggere gli interessi di questo e dei suoi cittadini nel territorio dello Stato accreditatario; negoziare con il governo estero; inviare rapporti al proprio governo sullo sviluppo degli avvenimenti; promuovere relazioni amichevoli; incrementare i rapporti commerciali, culturali e scientifici tra il proprio Stato e quello in cui è accreditato.
Per quanto riguarda gli edifici della missione, la convenzione di Vienna confermò la loro inviolabilità: nessuna persona dello Stato ospitante può entrare nella missione senza i consenso del suo funzionario di grado più elevato. Pertanto le missioni non possono essere sottoposte a indagini, perquisizioni e sequestri.
Gli agenti diplomatici e i loro collaboratori non possono essere soggetti a nessuna forma di arresto o detenzione, il loro bagaglio o la loro corrispondenza è inviolabile. Se essi commettono reati sono quasi sempre rinviati in patria come persona non grata. In caso di guerra, lo Stato accreditatario è ovviamente tenuto a facilitare ai diplomatici degli Stati belligeranti la partenza dal Paese.
La diplomazia italiana. In Italia, per tutto il 1800, il compito del diplomatico fu assegnato ad una ristretta cerchia di persone vicine alla Corte. Successivamente,con l'evoluzione dello Stato repubblicano, si passò alla selezione di personale qualificato. Il primo concorso pubblico per la selezione e il reclutamento del personale diplomatico che avrebbe dovuto lavorare per il Ministero degli Affari esteri si registrò soltanto alla vigilia del primo conflitto mondiale. Durante il regime fascista nacquero al di fuori del Ministero degli Affari esteri alcune funzioni connesse alla politica coloniale e alla propaganda del partito: il Ministero per l'Africa italiana e quello della Propaganda.
All'epoca del fascismo si erano sviluppate due "carriere" diplomatiche separate, quella dei diplomatici veri e propri e quella degli "addetti commerciali", dipendenti dal Commercio con l'Estero. Successivamente le carriere vennero unificate, ma restò sempre al di fuori degli Esteri l'Istituto per il Commercio Estero (ICE), con la sua rete internazionale di uffici e rappresentanti. Ovviamente, caduto il fascismo, molte carriere legate all'evoluzione del regime scomparvero.
Sino al 1967 esistevano in Italia sei carriere direttive in ambito diplomatico: quella diplomaticoconsolare, per l'emigrazione, commerciale, per l'Oriente, per la stampa e per i servizi amministrativi dell'amministrazione centrale. La nuova normativa in materia, che entrò in vigore con il DPR del 5 gennaio 1967, il n. 18, unificò tutte queste carriere direttive, ad eccezione di quella amministrativa, in un unico ruolo diplomatico. La nuova normativa permise anche alle donne di intraprendere la carriera diplomatica.
L'adesione alla "nuova Europa" ha permesso alla diplomazia italiana di allargare i suoi campi di competenza. Qui gli ambasciatori hanno imparato un mestiere radicalmente diverso da quelli del passato, perché intimamente legato alla gestione di interessi e politiche cui normalmente gli Esteri erano del tutto estranei.
La diplomazia multilaterale europea è quindi divenuta di fatto una branca molto importante del sistema di governo italiano, questo ha così permesso la creazione di una nuova categoria di diplomatici "riservati" all'Unione Europea che solo raramente intersecano carriere, sedi ed interessi con il resto della "carriera".
La partecipazione dell'Italia alle cosiddette "missioni umanitarie" ha ulteriormente ingrandito i compiti della diplomazia, che questa volta, oltre a contatti politicomilitari con gli "alleati", si deve occupare anche di situazioni particolari collegate agli avvenimenti (come la liberazione di cittadini italiani presi in ostaggio da gruppi di ribelli o da terroristi).
L'evoluzione attuale della diplomazia vuole un ritorno all'antica prassi dell'invio di missioni speciali, tutt'oggi per lo più presiedute da capi di Stato o di governo, le quali si recano presso un governo straniero per trattare, direttamente e in breve tempo, determinati problemi politici, economici, e così via. Questa è detta "diplomazia volante", anch'essa codificata alla Convenzione di New York il 16 dicembre 1969.
Un'altra evoluzione dell'attuale diplomazia è stata la nascita delle cosiddette "Unità di crisi". Si tratta in pratica di un organo nazionale di "gestione delle crisi", che si occupa di questioni delicate e di alta responsabilità come conflitti locali, (ad esempio la guerra in exJugoslavia), terrorismo, rapimenti di connazionali all'estero, calamità naturali, eccetera. Naturalmente l'Unità di crisi collabora a stretto contatto con altri istituti dello Stato, quali la presidenza del Consiglio, i ministeri della Difesa e dell'Interno, le Organizzazioni non governative.
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I governi devono unicamente indirizzare l'opinione pubblica senza sottometterla |
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Alla luce delle barbarie del secondo conflitto mondiale, il politologo Hans Morgenthau nel 1948, nel suo libro Politica tra le nazioni aveva così riassunto i princìpi a cui la moderna diplomazia doveva fare appello per scongiurare ennesimi conflitti armati: la diplomazia deve liberarsi dello spirito di crociata, la diplomazia deve saper vedere le situazioni dal punto di vista delle altre Nazioni, gli Stati devono essere disposti a compromessi su tutte le questioni che non siano vitali, il cittadino non dovrebbe per nessun motivo essere vincolato dal suo governo a impegni internazionali di cui egli non sia stato informato, i governi devono unicamente indirizzare l'opinione pubblica senza sottometterla e, soprattutto, le Forze armate devono essere uno strumento di collaborazione della politica estera e non il "padrone" delle relazioni internazionali.
L'attuale Onu ha dimostrato la sua inefficienza, poiché la misura di uno voto di uno Stato o il suo grado di responsabilità e influenza su una decisione resta comunque vincolato alla decisione di cinque Stati (Usa, Russia, Francia, Gran Bretagna, Cina) con il "diritto di veto" in seno al Consiglio di Sicurezza. Questo diritto paralizza di fatto l'organo esecutivo dell'Onu. La sostituzione del consenso e l'aggiramento di alcune decisioni (come quella di fare la guerra all'Iraq per far cadere il suo dittatore) hanno praticamente messo in crisi l'intero apparato dell'Onu. La presidenza dell'unica potenza rimasta in campo, gli Stati uniti d'America, preferisce infatti stringere molteplici accordi bilaterali evitando quelli multilaterali, che la impegnerebbero nel riconoscimento imbarazzante degli organismi internazionali. Tuttavia, l'evoluzione della politica internazionale, con i suoi squilibri politici e di campo, ha portato al paradosso, per dirla come Giovanni Giolitti, che per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano.
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BIBLIOGRAFIA
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Politica tra le nazioni. La lotta per il potere e la pace, di H. J. Morgenthau, a cura di L. Bonanate, Il Mulino, Bologna, 1997
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Accordare il mondo. La diplomazia nell'eta' globale, di B. Biancheri, Laterza, Roma-Bari, 1999.
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Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. La politica internazionale nel XX seco-lo, di E. Di Nolfo, Laterza, Roma-Bari, 2003.
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