Nel deserto del Gebel, 180 km a sud di Tripoli, dal giugno 1942 Giado diventa il più importante di una serie di campi di detenzione e di lavori forzati per gli ebrei libici. Alcune migliaia gli internati, 560 le vittime. |
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Giado, un campo di concentramento in Libia
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Con l'introduzione delle leggi razziali in Italia nel 1938 (R.D.L. 17 novembre 1938, n. 1728 "Provvedimenti per la difesa della razza italiana") gli effetti si manifestano anche in Libia, con l'allontanamento di ufficiali e soldati ebrei dalle forze armate, di insegnanti e impiegati ebrei dagli uffici governativi, di studenti ebrei da ogni scuola.
Nella primavera del 1940 302 ebrei, in gran parte tedeschi e austriaci, fanno tappa nel porto libico di Bengasi nel corso di un trasferimento clandestino in Palestina. Ma, entrata l'Italia in guerra il 10 giugno, vengono tutti arrestati e portati nella caserma Torelli, poi rinchiusi in un campo di concentramento e, infine, imbarcati sulla motonave italiana Esperia. Sbarcati a Napoli, vengono rinchiusi nel carcere di Poggioreale per tre settimane dove patiscono la fame. Il 29 settembre vengono trasferiti in Calabria nel campo di concentramento italiano di Ferramonti.
Nel settembre del 1941 il governatore libico Ettore Bastico, nel disporre l'allontanamento di quasi tutti i 7.000 "sudditi nemici", provvede all'invio in Italia di altri contingenti di ebrei libici.
Vengono, così, deportati in Italia, nei primi mesi del 1942, 263 ebrei libici con passaporto britannico, buona parte dei quali, come vedremo, verrà rinchiuso nel campo di Civitella del Tronto.
Le condizioni degli ebrei libici si aggravano con la Legge 9 ottobre 1942, n. 1420 ("Limitazioni di capacità degli appartenenti alla razza ebraica residenti in Libia") quando ormai l'occupazione italiana è messa in crisi dall'avanzata inglese. A febbraio Mussolini ha ordinato l'evacuazione di tutti gli ebrei dalla Cirenaica e dalla Tripolitania, con la possibilità di una eventuale deportazione in Italia, mentre aumentano le accuse contro gli ebrei e le esecuzioni capitali.
Mussolini ha ormai dimenticato quando, nel marzo del 1937, è stato accolto dalla comunità israelita di Tripoli con fiori e ovazioni. Di fronte ai tentativi di moderazione del governatore della Libia, Italo Balbo che, a gennaio del 1939, aveva cercato di convincerlo a non infierire poiché "gli ebrei erano già morti", aveva risposto: "Ti autorizzo all'applicazione delle leggi razziali, ricordandoti che gli ebrei sembrano ma non sono mai definitivamente morti".
Prima di far partire gli ebrei libici "puri" vengono trasferiti quelli con passaporto francese e inglese. I primi finiscono in Tunisia, i secondi in Italia.
Dalla relazione del 15 ottobre 1942 a firma dell'ispettore generale della Polizia Africa Italiana (PAI), maggiore generale U. Presti, apprendiamo che gli ebrei francesi trasferiti in Tunisia ammontano a 1.916 unità e che, dal 19 maggio al 21 giugno 1942, 15 scaglioni di ebrei libici, per un totale 2.527 unità, vengono internati, dopo essere stati deportati dalla Cirenaica, nel campo di concentramento di Giado ("appositamente allestito"), 180 km a sud di Tripoli, nel deserto del Gebel.
Il campo di Giado, in origine una vecchia caserma italiana, diventa il più importante di tutta una serie di campi di detenzione e di lavori forzati dove vengono rinchiusi gli ebrei libici. Un altro campo, destinato soprattutto agli ebrei tripolini e ai lavori forzati, è allestito a Sidi Azaz, vicino Tripoli.
Il campo di Giado, pur registrando la presenza di qualche soldato tedesco, è gestito dagli italiani, militi fascisti e carabinieri, con l'ausilio degli ascari libici e carabinieri arabi. I detenuti subiscono persecuzioni e privazioni. I maltrattamenti, gli stenti, le malattie, il caldo, la mancanza di igiene e le malattie giornalmente mietono numerose vittime.
Così racconta un internato, Moshe Meghidish, al giornalista Eric Salerno: «Ci facevano raccogliere pesanti pietre per trasportarle da un lato all'altro del campo. Un lavoro inutile. Soltanto per farci stancare. "Siete bestie, siete come capre" dicevano. "Rovistate tra le pietre". Hanno costretto uno dei miei fratelli a fare la spola tra il forno, quello degli arabi fuori del reticolato, e il campo per portare il pane a tutti noi. Duecento grammi, praticamente un panino, al giorno che dovevano servire per due persone, grandi e piccoli. Ogni mese, cento grammi di zucchero. E' chiaro: quello che ci davano non bastava per un solo giorno. (.) La gente moriva. Ricordo un padre e suo figlio morti di fame. Ogni giorno due o tre di noi morivano di stenti. Non si poteva sopravvivere con quel poco che ci davano da mangiare o che, in qualche modo, riuscivamo a comprare dagli arabi. Poi, a colpire a destra e a sinistra, senza guardare in faccia a nessuno, è arrivato il tifo portato dai ratti. Non c'era scampo, eravamo già debilitati, i nostri corpi non avevano possibilità di resistere. (.) Il maresciallo, non ricordo il suo nome, era cattivo, l'appuntato no, era buono. Ma non si poteva parlare con loro, nessun dialogo, nessuna comprensione. Ogni sabato, il nostro giorno di riposo settimanale importante per noi perché gli ebrei libici erano e sono ancora profondamente legati alle tradizioni, il maresciallo veniva tra di noi, si faceva strada con una torcia elettrica, e ci insultava. Sporchi ebrei, urlava, siete disgustosi! E poi altri insulti, cose brutte».
Anche altre testimonianze raccolte dal giornalista confermano le precarie condizioni di vita degli internati e la crudeltà di alcuni graduati italiani.
I prigionieri cercano in tutti i modi di procurarsi altro cibo, anche lavorando per gli arabi fuori del reticolato. Così ricorda Ofek il tempo trascorso nel campo: «Lavoravamo per il villaggio arabo, le nostre donne cucivano abiti per loro e in cambio ottenevamo qualcosa dai loro orti. La direzione del campo, invece, ci dava due chilogrammi a testa per settimana di legna per cucinare. Portavano o ci facevano portare da fuori tronchi grossi di legno d'ulivo, ma le razioni dovevano servire a soddisfare le esigenze di varie famiglie ed eravamo costretti a fare a pezzi la legna da soli, con arnesi rudimentali. Un altro lavoro massacrante. (.) Nei quattordici mesi in cui eravamo nel campo morirono 562 ebrei. Quasi tutti perirono a causa della fame e dell'esaurimento fisico. Le condizioni in cui vivevamo portarono le cimici e con quelle il tifo che uccise molti di noi».
Di notte, spesso le donne, cui sono state rapate le teste così come ai bambini, escono di nascosto e strisciano fino al recinto per dare agli arabi del villaggio soldi o gioielli in cambio di qualcosa da mangiare.
Così racconta invece Moshe Saban, allora appena dodicenne, le sere passate a Giado: «La sera, verso le 19 quando cominciava a scendere il buio, eravamo costretti a addormentarci. L'ufficiale entrava con una frusta e guai a chi continuava a parlare o faceva altri rumori. "Asini", "cani" gridava, sbraitava, in italiano. Bestemmiava. Andava da una baracca all'altra per controllare chi aveva la febbre e portava i malati in ospedale. Chi lasciava la famiglia e andava in ospedale sapeva che non sarebbe mai più tornato. (.) Non venivano curati. Le loro vite erano finite».
Sul numero degli internati a Giado non c'è concordanza tra le testimonianze, ma su una cosa tutti concordano: le precarie condizioni di vita e la crudeltà di alcuni graduati italiani. Questo il racconto di Yehuda Chachmon: «Eravamo approssimativamente 3600 nel campo. Le baracche erano lunghe. Ogni famiglia di dieci aveva 3,5 metri dove sistemare le loro cose. Lo spazio a disposizione d'ogni famiglia era usato come sala da pranzo, cucina e camera da letto. Si dormiva per terra. I bagni erano collettivi e spalancati: gli uomini vedevano le donne, e le donne potevano vedere gli uomini. Non c'erano porte o altro e lo stesso valeva per le donne. (.) Soltanto il maggiore italiano e l'informatore del campo ci davano problemi. La polizia italiana era crudele. (.) Passavano puntualmente, la sera del venerdì, ogni venerdì, quando cominciava al tramonto, con l'apparizione della prima stella, il nostro giorno di riposo settimanale e prendevano i bidoni con i nostri escrementi e rivoltavano il tutto sul cibo. Se trovavano un ebreo ancora in piedi dopo le 20, lo sbattevano in prigione. Eravamo costretti a svegliarci alle 5 del mattino per andare ai lavori forzati. (.) Qualche volta ci picchiavano, ma generalmente la punizione era la privazione della razione di cibo. (.) C'erano cinque poliziotti italiani nel campo. Uno era il comandante, un maggiore. Poi c'erano un maresciallo, un brigadiere, un appuntato e il quinto un agente semplice di nome (omissis), che era un vero antisemita. Il maggiore picchiava gli ebrei con il suo bastone. Era crudele nel modo di trattarci e nell'imporre le cose. Il maresciallo, che era il suo vice, se trovava gli ebrei che non dormivano dopo le venti, li trascinava fuori dalle baracche e gettava loro addosso acqua fredda. Dovevano stare sotto l'acqua fino al mattino quando venivano rilasciati. Era crudele. Anche il brigadiere era un antisemita anche se non tanto cattivo quanto (omissis)».
Nel campo muoiono circa 560 internati tra uomini, donne e bambini, ma si conoscono i nomi di solo una settantina di loro. Anche i bambini non sono risparmiati. Viktor Arbib, figlio di Shlomo e Giulia Barda, viene ucciso appena nato; Dzhado Arbib, figlia di Tzion e Miriam, muore di stenti all'età di un anno, mentre a due anni muore, sempre di stenti, Sofer Doris. Di stenti muoiono Tshuva Buba di otto anni e Tshuva Aharon di cinque anni.
Tra il 1942 e il 1943 una parte degli ebrei libici viene trasferita in Italia nei campi di Civitella in Val di Chiana (Arezzo), di Civitella del Tronto (Teramo) e di Carpi (o Fossoli) in provincia di Modena. Tra il 22 e il 23 gennaio del 1942 a Civitella del Tronto arrivano 114 ebrei libici con passaporto britannico. Sono 28 nuclei familiari composti in prevalenza da donne, vecchi e bambini.
Nel campo di Civitella in Val di Chiana, denominato "Villa Oliveto", il primo gruppo di ebrei libici è composto di 51 internati, con 25 bambini e diverse donne incinte. Vi giungono in difficilissime condizioni dal punto di vista igienico e sanitario, affetti da malattie e parassiti. Molti hanno perso i bagagli nel viaggio e sono vestiti con abiti molto leggeri, adatti al clima libico. Le condizioni in cui vivono al campo sono molto precarie: nelle latrine, per l'insufficiente pressione dell'acqua, l'uso degli sciacquoni è per lungo tempo impedito. L'unica "stanza da bagno con vasca" può essere utilizzata solo previa prenotazione e pagamento di lire tre a persona.
Così ricorda quei momenti Gabriele Burbea che all'epoca aveva solo cinque anni: «Nel campo vivevano circa 30 bambini e io ricordo che insieme a molti di loro mi mettevo di fronte al cancello del campo e vedevamo gli agricoltori sui carri pieni di frutta, legumi e verdura fresca che portavano ai mercati in città. Noi mettevamo le braccia fuori dal cancello e chiedevamo qualche grappolo d'uva o qualche altra frutta. Per convincerli a darci qualcosa dicevamo che la frutta l'avremmo data a nostra madre che era incinta».
Essi, insieme ad altri ebrei libici degli altri campi di concentramento italiani, finiscono, nel 1944, per cadere nelle mani dei tedeschi che li spediscono prima al lager di Bergen Belsen e poi a quello di Biberach sul Reiss in Germania, oltre che a Innsbruck in Austria. Una parte di loro finisce anche ad Auschwitz dove muoiono quasi tutti. Di quelli che arrivano a Biberach moltissimi si salvano grazie al passaporto britannico, diventando preziosa merce di scambio con prigionieri tedeschi.
Così il 10 febbraio 1944 il direttore del campo di concentramento di "Villa Oliveto" informa ufficialmente la Direzione Generale della Pubblica Sicurezza e il questore che «Il 5 corrente si presentò a questo Campo un reparto di SS Germanici, i quali rilevarono con un autocarro gli internati ebrei, sudditi Britannici di cui all'unito elenco, avviandoli per ignota destinazione».
Tra i 62 ebrei libici prelevati vi sono anche cinque bambine nate nel campo: Loris Labi di 5 mesi, Grazia Reginiano di 4 mesi, Lina Reginiano di 4 mesi, Anna Labi (nata nel precedente campo di Camugnano) di un anno e mezzo, Vittoria Reginiano di quasi 10 mesi. Gli ebrei libici con passaporto britannico internati a Civitella del Tronto, invece, vengono trasferiti il 4 maggio 1944 dalla polizia tedesca nel campo di Fossoli, presso Carpi. Sono in tutto 83, mentre il totale dei trasferiti, compresi gli ebrei di altra nazionalità e gli ariani, ammonta a 134. Tra essi anche sei bambini nati nel campo: Jusef Burbea di 11 mesi, Diamantina Labi di quasi 2 anni e suo fratello Shalom di appena 3 mesi, Luli Labi di quasi 2 anni e sua sorella Regina nata il mese prima. Il 16 maggio, con un treno merci, insieme a quelli provenienti da Villa Oliveto vengono deportati a Bergen-Belsen.
"Erano pronti a ucciderci tutti, uomini, donne e bambini. Ci si aspettava di morire da un momento all'altro." |
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Ma ritorniamo al campo di Giado. La situazione diventa ancora più difficile quando ormai è chiaro che stanno arrivando gli inglesi. Tutti gli ebrei maschi vengono radunati e per loro si prepara l'ordine di ucciderli tutti, mentre per i 480 malati dell'infermeria del campo la sorte è ancora peggiore: farli scendere nello scantinato e bruciarli. Dopo tre ore di attesa l'ordine fortunatamente viene revocato. Così ricorda quell'episodio Ofek: «Io ero in piedi in cima alla collina dell'ospedale nel campo e vidi molti ebrei raccolti intorno alla bandiera. Chiesi al comandante cosa stava succedendo e, con un tono tranquillo, come se fosse una sciocchezza, mi disse che sarebbe stata una brutta giornata per noi. Aveva ricevuto l'ordine di ucciderci tutti. Gli chiesi dei 480 malati in ospedale, tanti ce n'erano in quel momento, e disse che tutti sarebbero stati fatti scendere nello scantinato e bruciati. Cominciai a tremare. Sparati, bruciati! Siamo stati costretti a dire le nostre preghiere. (.) Masse di ebrei stavano lì a piangere. Gli agenti di polizia, i soldati, stavano sui tetti con sguardi satanici sui loro volti. Erano pronti a ucciderci tutti, uomini, donne e bambini. Ci si aspettava di morire da un momento all'altro. (.) Dalle otto alle undici siamo rimasti sotto il cielo, affamati, assetati e aspettavamo la morte.aspettavamo la telefonata di conferma del comandante militare. Alle undici in punto il telefono squillò. L'ordine era stato revocato. Eravamo salvi».
Giado fu solo uno dei tanti campi di concentramento allestiti dai soldati italiani in Libia. L'Italia del dopoguerra, complice anche la sua classe politica e militare, fece di tutto per mettere nel dimenticatoio questi e altri crimini. Ricordare tutto questo non è solo un dovere verso le nuove generazioni, è soprattutto un impegno di verità verso noi stessi e la nostra storia. Perché i 150 anni dell'unità del nostro Paese non siano soltanto un occasione di celebrazioni ma momento di riflessione sulle ombre che ancora avvolgono il nostro passato e, forse, il nostro presente.
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BIBLIOGRAFIA
- Archivio Centrale di Stato, Fondo Ministero Interni, Direzione Generale P.S., Divisione Affari Generali Riservati, Cat. Massime, M4, B. 105, f. 16, s.f. I, "Sfollati dalla Libia".
- Archivio Centrale di Stato, Fondo Ministero Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali Riservati, Cat. A 4bis, B. 6.
- C.S. Capogreco, Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d'internamento fascista (1940-1943) - Giunti, Firenze 1987.
- C.S. Capogreco, I campi del duce. L'internamento civile nell'Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino 2004.
- E. Collotti, Lager in Libia, una storia rimossa, in "il manifesto", 10 febbraio 2008.
- D. Fertilio, Libia, l'orrore nel lager italiano, in "Corriere della Sera", 21 gennaio 2008.
- E. Salerno, Uccideteli tutti. Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado. Una storia italiana, Il Saggiatore, Milano 2008.
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