Pressoché dimenticati dalla memoria collettiva italiana, soverchiati dal modello unicum nazista, i campi di concentramento fascisti si defilarono nella Storia all'indomani della Liberazione. Eppure essi esistettero e funsero, in molti casi, da colonna e da tramite per la deportazione verso la Germania.
L'entrata in guerra dell'Italia sancì definitivamente l'internamento che da anni si stava preparando. La circolare 442/12267 dell'8 giugno 1940, che emanava le "prescrizioni per i campi di concentramento e le località di confino", avviò azioni di rastrellamento che erano studiate minuziosamente dal 1929 (anno che coincise con l'istituzione dello schedario delle prefetture per i sovversivi con la circolare del I° dicembre 443/20030) e, soprattutto dal 1930, quando il Ministero della Guerra preparò un piano di difesa da adottare nei confronti di chiunque fosse stato ritenuto capace di svolgere propaganda anti-italiana, e quindi anti-fascista, ed arrecare danni alle forze armate. Al contempo la direzione generale della Pubblica Sicurezza iniziò a stilare veri e propri elenchi di persone pericolose e degli edifici ritenuti "idonei" per la detenzione. La scelta si diresse verso costruzioni già esistenti, per la maggior parte di proprietà dello Stato, come castelli, ville, conventi, casali, scuole segnalate dai prefetti o dai questori, in quanto già dotati di servizi quali acqua, luce e telefono, preferendo strutture isolate e di facile sorveglianza.
All'alba della dichiarazione di guerra del 1940 si attuò l'ordine di arresto di tutte le persone, italiane e straniere, segnalate dalla rete di spionaggio del regime. Era l'acutizzarsi di un'azione di controllo che da tempo la direzione generale di Pubblica Sicurezza metteva in atto durante manifestazioni fasciste, visite di gerarchi, momenti di protesta allontanando, quindi arrestando, i sovversivi. Nell'ormai celebre "rete del Regime" cadevano indifferentemente, comunisti, socialisti, anarchici o apolitici, colpevoli di ledere la salvaguardia dello Stato. Nomi di uomini e donne segnalati per azioni, gesti o storie familiari, che andarono a riempire, o a dividersi, visto che erano per lo più già segnalati a suo tempo dal Tribunale Speciale, le cinque categorie degli schedari di prefettura (A- persone pericolosissime; B- persone pericolose perché capaci di turbare il tranquillo svolgimento delle cerimonie; C- persone pericolose in caso di turbamento dell'ordine pubblico; D- squilibrati mentali; E- persone pericolose per delitti comuni).
Con l'entrata in guerra dell'Italia la pratica del confino, attuata efficacemente dal 1925, fu sostituita con l'internamento, una pratica di reclusione molto più celere.
L'occupazione dei territori dalmati e istriani portò nel territorio italiano numerosi prigionieri di origine slava: questi furono i primi ad occupare i campi del Duce. Fu senza dubbio la forte resistenza al fascismo ad allargare il campo di azione della violenta repressione che si diresse, indistintamente anche verso gli italiani. Quindi agli internati stranieri, suddivisi in quattro elenchi - quelli da espellere dal regno (circa 1.367, secondo i dati dell'agosto 1939), quelli da inviare ai campi di concentramento (circa 1.462), quelli da sottoporre a internamento libero (circa 2.169) e quelli della vigilanza speciale (253) -, ed individuati come "sudditi nemici", ebrei stranieri ed apolidi e zingari, si affiancarono gli internati italiani. L'internamento italiano, preposto dall'Ufficio internati italiani, si divideva in sei fasce: antifascisti schedati, antifascisti trattenuti come internati, antifascisti in atto, ebrei, zingari e lavoratori rimpatriati punitivamente dalla Germania.
Oppositori ed allogeni - le minoranze etnico-linguistiche - furono i destinatari dei campi di concentramento fascisti nel primo periodo della deportazione italiana. Alle colonie di confino, già note per la lunga e triste letteratura che le raccontò (Ponza, le Tremiti, Ventotene, Pisticci, Ustica, le Lipari, Favignana, Pantelleria e Lampedusa), si aggiunsero in Emilia Romagna Montechiarugolo e Scipione, in Toscana Bagno a Ripoli, Sant'Andrea a Rovezzano e Oliveto, nelle Marche Fabriano, Sassoferrato, Urbisaglia, Pollenza, Treia e Petriolo, in Umbria Colfiorito di Foligno, nel Lazio Fraschette di Alatri, Badia di Farfa e Ponza, in Abruzzo-Molise Civitella del Tronto, Corrosoli, Isola del Gran Sasso, Neretto, Tortoreto, Tossicia, Notaresco, Città Sant'Angelo, Casoli, Istorio, Lama dei Peligni, Lanciano, Tollo, Chieti, Agnone, Boiano, Casacalenda, Isernia e Vinchiaturo. In Campania a Campagna, Ariano Irpino, Monteforte Irpino e Solfora, in Puglia a Manfredonia, Alberobello e Gioia del Colle, in Calabria a Ferramonti e in Sicilia nell'ex colonia di confino di Lipari.
A questi si affiancarono il "centro di lavoro" di Castel di Guido a Roma e quattro colonie di confino, dove gli internati vissero a fianco dei confinati: Ventotene, Lipari, Pisticci e Ustica.
La dislocazione dei campi di concentramento fu senza dubbio scelta in base all'isolamento: luoghi impervi, lontani dal centro, in zone montagnose, in cui le vie di comunicazione erano scarse e soprattutto in zone poco abitate e, di conseguenza, in cui la politica era poco praticata. D'altro canto la presenza dei deportati nelle cosiddette zone depresse costituiva un introito economico da parte dello Stato. Per questo motivo, inizialmente, la geografia dei campi italiani occupò il Centro-Sud della penisola, che, però, si rivelò, proprio a causa dell'elevato isolamento, totalmente inadatto ed il Ministero dell'Interno, a partire dal 1943, allestì nuovi campi nel settentrione.
Carlo Spartaco Capogreco ne I campi del Duce. L'internamento civile nell'Italia fascista(1940-1943) parla di cinque zone di ispezione, sotto l'egida di alti funzionari dello stato, che ripartirebbero i campi e le località d'internamento italiano. Partendo da nord la prima zona comprendeva Parma, Pistoia, Firenze ed Arezzo, la seconda Pesaro, Ancona, Macerata, Ascoli Piceno e Perugina, la terza con Teramo, L'Aquila, Pescara, Chieti e Rieti, la quarta Frosinone, Campobasso Avellino, Napoli e Salerno, e la quinta con Foggia, Bari, Matera, Potenza e Cosenza oltre le piccole isole di deportazione.
Per i suoi 5000 prigionieri il campo di concentramento di Gonars, dal marzo del 1942 fu il più imponente: sul suo esempio nel luglio dello stesso anno furono attivati quelli di Monigo di Treviso (3.000 posti) e di Chiesanuova di Padova (4.000 posti), seguiti da Renicci di Anghiari e Visco.
Inutile dire che la situazione igienico-sanitaria dei locali, la carenza di cibo e la mancanza di tutela incisero notevolmente sui decessi e sulla già precaria vita degli internati. I prigionieri, controllati da carabinieri o guardie locali, seguivano il ritmo di vita scandito dagli appelli, dal pranzo, dalla posta, dagli arrivi e dai trasferimenti, e dall'oscuramento. L'isolamento, fisico e psicologico, raramente accompagnato da episodi di violenza - da sottolineare che i campi italiani raramente avevano forni crematori o camere di tortura -, incideva notevolmente sull'umore dei detenuti cui era negato intrattenere qualunque tipo di rapporto con le popolazioni locali. Situazione diversa da quella degli internati liberi che vivendo all'interno delle comunità ospitanti, non risentivano dell'isolamento umano. Il loro sostentamento - affiancato dai sussidi statali - proveniva anche dalle piccole professioni che, pur lontano da casa, continuavano a svolgere.
La seconda fase della vita dei campi di concentramento italiani coincise, immancabilmente, con la caduta del fascismo. Gli eventi del 25 luglio 1943 segnarono la sorte dei campi e degli internati. L'immobilismo dei quarantacinque giorni di Badoglio decise la fuga di molti prigionieri. Fuga che avveniva, nella maggior parte dei casi sotto gli occhi indifferenti delle guardie, in attesa di ordini precisi. Bisogna, infatti, sottolineare che il percorso di proscioglimento delle categorie di internati, confinati e detenuti durò circa un mese - dal 27 luglio al 21 agosto. Lo stesso dicasi per gli internati stranieri liberati dalla prigionia solamente il 10 settembre 1943, cioè ben due giorni dopo la firma dell'armistizio e, quindi, quando ormai le truppe nazifasciste avevano occupato le cittadine italiane ristabilendo l'ordine sotto l'egida tedesca.
La costituita Repubblica Sociale Italiana, guidata da Mussolini dalla residenza di Salò, si servì inizialmente di molti dei campi già esistenti per l'internamento dei civili. A fine novembre le strutture che avevano ripreso a pieno ritmo il compito detentivo erano dodici: Scipione, Fraschette, Bagno a Ripoli, Montalbano, Civitella della Chiana, Fabriano, Civitella del Tronto, Corropoli, Isola del Gran Sasso, Nereto, Notaresco e Tossiccia, per una capienza di circa 1.700 persone. Capienza che aumentò ad 8.000 nel corso del '44 con l'apertura dei campi di Pian di Coreglia, Vallecrosia, Celle Ligure e Cortemaggiore.
Il 1943 fu l'anno di avvio della seconda fase dei campi di concentramento italiani. Ai prigionieri italiani e stranieri andarono ad aggiungersi gli internati ebrei, destinati ai famigerati lager nazisti.
La pubblicazione dell'Informazione diplomatica n. 14 aveva avviato la questione ebraica. Il R. D. L. del 17 novembre 1938 n. 1728 gettò le basi del razzismo italiano. Nell'ottobre del 1940, quattro mesi dopo l'entrata in guerra, l'Italia contava 4.251 prigionieri stranieri, 2.396 internati e 1.855 confinati, di cui ben 2.142 ebrei (alla stessa data gli internati italiani erano 1373 ed i confinati 4.732 di cui politici 2.335).
La nascita della Repubblica Sociale Italiana, inoltre, sanciva il definito appoggio dell'Italia di Mussolini alla Germania. Il Duce era infatti da tempo a conoscenza di quanto avveniva nei lager tedeschi.
Il 30 novembre 1943 il ministro dell'Interno della Repubblica Sociale Italiana, Guido Buffarini Guidi, inviò un telegramma ai prefetti ed ai questori delle province e dei comuni in cui si ordinava "per immediata esecuzione" che "tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano e comunque residenti nel territorio nazionale, debbano essere inviati in appositi campi di concentramento. Tutti i loro beni, mobili ed immobili, debbono essere sottoposti ad immediato sequestro, in attesa di essere confiscati nell'interesse della Repubblica Sociale Italiana".
Gli ebrei dovevano essere imprigionati in campi di concentramento in attesa "di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati" (telegramma circolare del ministro dell'Interno dell' RSI Buffarini, Archivio Centrale di Stato). Ai dodici campi riaperti se ne affiancarono nuovi allestiti ad Aosta, Asti, Bagni di Lucca, Borgo San Dalmazzo, Calvari di Chiavari, Ferrara, Forlì, Mantova, Monticelli Terme, Perugia, Reggio Emilia, Roccatederighi, Sondrio, Teramo, Piani di Tonezza, Vercelli, Verona, Vò Vecchio, Marina di Massa, Spotorno, Senigallia e Venezia.
Mussolini aveva deciso di continuare la persecuzione ebraica attuata dai tedeschi e, al I° dicembre 1943, tutti i campi designati erano pronti per l'internamento delle comunità ebraiche, che, alla fine del mese, fu deciso di destinare a Modena, o più precisamente nel lager di Fossoli di Carpi. Mussolini arrivava, ora, ad appoggiare la soluzione finale attuata da Hitler.
Michele Sarfatti in La Shoah in Italia spiega che gli arresti erano di competenza della Direzione generale della pubblica sicurezza del Ministero dell'Interno e, quindi, delle questure. Gli ebrei arrestati dai tedeschi e dagli italiani erano deportati al campo di Auschwitz-Birkenau: inizialmente dalle località di arresto, successivamente da Fossoli (dopo il gennaio del 1944) e da Bolzano-Gries, dove nell'agosto del 1944 era stato trasferito il campo nazionale.
Secondo gli studi condotti da Liliana Picciotto ne Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall'Italia 1943-1945 i convogli che partivano dall'Italia alla volta della Germania portavano dalle 500 alle 600 persone, mentre per la zona della Operationzone Adriatisches Küstenland (l'Operazione Litorale Adriatico), che vedeva punto di snodo Trieste, i deportati si aggiravano tra le 60-80 persone alla volta. Solo un convoglio, partito da Roma il 18 ottobre 1943, trasportava più di 1.000 ebrei rastrellati pochi giorni prima.
Dal 1943 in avanti la vita dei campi di concentramento italiani è indissolubilmente legata ai convogli diretti ai lager, sebbene si evidenzino due fasi. Nella prima, dal novembre del '43 al gennaio del 1944 vedeva gli ebrei concentrati nelle carceri cittadine, quali Milano, Bologna e Firenze, in attesa di raggiungere un alto numero di presenze per un unico trasporto diretto in Germania. La seconda, la fase che si attuò dal I° febbraio 1944, sancì la nomina di campo poliziesco di raccolta e di transito per la deportazione del campo di concentramento di Fossoli. Questa durò, sebbene Fossoli fosse poi sostituita con Bolzano-Gries, sino alla fine del conflitto.
A mano a mano che i campi di concentramento collaterali si riempivano il responsabile comunicava i dati alle sedi centrali e si procedeva alla deportazione verso Fossoli; da qui, una volta colmo di prigionieri, partiva dall'ufficio antiebraico di Verona, l'ordine di spostamento in base alle Trasportenlisten (le liste di trasporto), collegando così il piccolo centro modenese a Berlino, Auschwitz, Orianenburg od altri lager nazisti. I carri merci, trasportanti ebrei ed oppositori, che partirono dai centri di Verona, Milano, Bolzano, Firenze, Merano, Bologna, Mantova e Fossoli (convogli n. 1-14 di diretta competenza dell'RSI secondo le tabelle della Picciotto) deportarono circa 5.282 persone, a cui vanno aggiunti i convogli della zona adriatica di Trieste (convogli n. 21T-43T) con circa 1.197 rastrellati. 7.579 vittime, cui va aggiunto un numero indistinto di nomi sconosciuti.
Per comprendere meglio la vita dei campi di concentramento italiani bisognerebbe analizzarli uno ad uno, valutare il contesto culturale e sociale in cui erano stati istituiti e considerarne la storia.
Le fonti storiche locali legate alla memoria umana sono, purtroppo esili e pressoché inesistenti. La damnatio memoriae colpì già all'indomani della Liberazione l'esistenza dei campi di concentramento, quasi a voler distanziarsi dagli orribili fatti compiuti dai tedeschi in Germania. Fatti che, comunque, erano già noti durante i venti mesi della Resistenza anche in Italia. I campi italiani, inoltre, erano istituiti in strutture già esistenti e facenti parte della storia comunitaria dei paesi: impossibile quindi non accorgersi della presenza dei detenuti, delle guardie e persino delle camionette che trasportavano i prigionieri. Eppure nessuno ricorda, o vuole ricordare. E per conoscere la storia dei campi di prigionia italiani, che erano tutti in stretto collegamento con i lager nazisti, bisogna ricostruirla una ad una.
Tra i campi di concentramento della prima ora, benché la memoria popolare ne abbia rimosso l'esistenza, quello di Scipione, frazione rupestre nelle colline attorno Salsomaggiore Terme, fu aperto, a fasi alterne, laddove i Pallavicino avevano creato uno dei presidi della "via del sale".
Il campo, situato nei locali del castello lungo la provinciale che porta nel piacentino, dimostrò chiaramente l'inefficacia dell'operato fascista salsese. Non tanto per l'irregolarità del funzionamento, quanto per la scelta logistica del luogo che si dimostrò sin dall'inizio «infelice a causa della struttura stessa dello stabile e per la sua ubicazione che non dava e non può dare un minimo di seria garanzia dal punto di vista della vigilanza». Per questo motivo la vigilanza esterna, sino al 1942 affidata ad agenti di pubblica sicurezza che lavoravano anche all'interno del maniero, venne lasciata ai carabinieri.
Già di proprietà dell'Opera Nazionale per gli Orfani di Guerra, il castello aveva ospitato negli anni Trenta l'orfanotrofio cittadino: era uno dei pochi edifici locali ad essere munito di acqua, luce e telefono e ritenuto idoneo di ospitare fino a 200 persone. Servizi che, comunque, non migliorarono la situazione già molto precaria dei detenuti.
Istituito contemporaneamente a quello di Montechiarugolo, sempre nel parmense, con reale decreto n. 1415 dell'8 luglio 1938, con cui si approvava il testo unico delle leggi di guerra e neutralità disciplinante l'internamento da parte degli organi del Ministero degli Interni, il campo di Scipione ospitò «italiani pericolosi», «sudditi nemici» ed «ebrei stranieri».
Scipione si annoverava, quindi, tra i campi di internamento presenti su tutto il territorio italiano alla data dell'8 settembre del 1943.
Nei primi giorni seguenti l'armistizio molti furono i tentativi di evasione: i malcapitati erano letteralmente terrorizzati dall'arrivo dei tedeschi |
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L'internamento dei civili durante la seconda guerra mondiale fu sin dall'inizio un problema grave, ma a lungo trascurato, benché già dal 1929, durante la conferenza diplomatica di Ginevra, si fosse tentato di ratificare una convenzione sui prigionieri di guerra che fosse in grado di proteggere ed istituire la condizione dei detenuti di nazionalità nemiche su di un territorio belligerante da essi occupato.
E Scipione esemplifica i campi di internamento italiani, seguendo da vicino le alterne fasi della guerra italiana. I prigionieri cominciarono a giungere nel luglio del 1940: erano inglesi e francesi provenienti dai confini occidentali. Poi fu svuotato a favore di quello di Montechiarugolo. Arrivarono, quindi, nella seconda decade dell'agosto 1942, con la nuova riapertura, i detenuti provenienti dalla Slovenia, dalla Dalmazia e dalla Venezia Giulia, per lo più giovani politici avversi alla fascistizzazione in corso nei territori jugoslavi. In quell'anno il campo arrivò a detenere, nel mese di dicembre, ben 168 uomini. Tra questi anche 18 italiani, giunti il 14 ottobre, molti dei quali inviati il 12 luglio 1943 al campo di concentramento cosentino di Ferramonti.
Anche nel 1943 la media giornaliera di detenuti era di circa 150 persone. Unica parentesi di svuotamento (i documenti rilevano solo 21 presenze alla data del 15 luglio) i giorni che intercorsero tra la partenza del suddetto gruppo di internati per il Sud Italia e l'arrivo, il 16 luglio successivo, di ben 126 nuovi detenuti, molti dei quali provenienti dal campo messinese di Lipari.
Scipione subì una drastica riduzione di presenze dopo l'8 settembre e, soprattutto, profondi cambiamenti. L'arrivo delle truppe tedesche in città, che occuparono gli alberghi Porro e Valentini, segnò il destino di molti prigionieri che il 13 settembre furono prelevati dalle truppe germaniche. I documenti non permettono di conoscere la destinazione, ma si può presumere che essi siano stati trasportati nei campi tedeschi, così come quegli «internati croati» che furono definiti «liberi», caso più unico che raro. Alcuni prigionieri, notando il cambiamento della situazione, riuscirono a fuggire.
Nei primi giorni seguenti l'armistizio molti furono i tentativi di evasione: i malcapitati erano letteralmente terrorizzati dall'arrivo dei tedeschi. La sorveglianza, scarsa ed inefficace, fu colta di sorpresa e quasi la metà dei prigionieri riuscì nell'intento.
La data dell'8 settembre decise le sorti del campo salsese: svuotatosi quasi completamente con le partenze di settembre, esso riprese poco dopo le sue funzioni, divenendo luogo di deportazione ebraica verso i campi di sterminio nazisti. E da campo di isolamento Scipione divenne campo di raccolta.
Le norme restrittive di novembre e dicembre marcarono l'inizio della deportazione e Scipione divenne «campo provinciale». Il 3 dicembre la Questura di Parma inviò ai comandi dei carabinieri, ai podestà ed ai direttori dei campi di concentramento della provincia le nuove disposizioni circa l'internamento ebraico: «Provvedete a decorrere sei corrente at accompagnamento Monticelli Terme di Montechiarugolo per esservi internati donne ebree et loro bambini anche di sesso maschile se di età inferiore 16 anni residenti codesta giurisdizione internati et non internati anche se discriminati et a qualunque nazionalità appartengano. [.] trasmettere pure questo Ufficio elenco nominativo con complete esatte generalità internandi, riferendo su situazione finanziaria di ciascuno scopo stabilire corresponsione sussidio statale ponete immediatamente sotto sequestro i beni mobili e immobili e al fine di evitare che in attesa dell'inventario sui mobili questi vengano trasportati altrove applicate sigilli at porte ingresso loro appartamenti. Successivamente trasmettetemi elenco nominativo dei nati da matrimonio misto che in applicazione leggi razziali italiane vigenti ebbero il riconoscimento di appartenenza alla razza ariana et sottoponeteli at speciale vigilanza segnalando con urgenza eventuali spostamenti et rilievi. Analogamente provvedete confronti ebrei sesso maschile di età superiore ai sedici anni internati et non internati che per qualsiasi motivo si trovino codesta giurisdizione i quali dovranno invece essere accompagnati campo di concentramento Scipione di Salsomaggiore».
Al contempo prese il via il grande rastrellamento antigiudaico della provincia di Parma «allo scopo di assicurare tutti gli ebrei in campi di concentramento». Tra l'1 e l'11 dicembre 1943 il campo di Scipione registrò l'arrivo di ben 28 ebrei inviati, successivamente, a Fossoli il 9 marzo del 1944 da dove partirono, il 5 aprile, per Auschwitz.
All'arrivo nel lager solo 154 uomini e 80 donne superarono la prova del gas e furono immatricolati. Di questi 51 furono i reduci |
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Il convoglio, partito da Fossoli, arrivò in Polonia il 10 aprile e viaggiò sotto la sigla RSHA (Reichssicherheitshauptamt). Il numero dei deportati, sicuramente ingente, non è tutt'ora definitivo: solo 611 nominativi sono nella Transportliste. All'arrivo nel lager solo 154 uomini e 80 donne superarono la prova del gas e furono immatricolati. Di questi 51 furono i reduci.
Il secondo grande viaggio per Auschwitz partì da Fossoli il 15 giugno del 1944, trasportando i deportati di Roccatederighi. Erano questi arrivati a Scipione solo tre giorni prima, il 12 giugno, dal campo di concentramento della Villa del Seminario della Curia Vescovile di Roccatederighi, nel grossetano. Proprio da qui, tra l'aprile ed il giugno del 1944, molti ebrei vennero trasferiti al Nord, e a Scipione, per essere poi deportati a Fossoli e, quindi, ad Auschwitz con il convoglio numero 10.
I rastrellamenti annientarono la già tenue presenza ebraica in provincia, che a parte alcune famiglie abitanti a Fidenza, Soragna, Busseto, Golese, San Pancrazio, Borgo Val di Taro, Neviano degli Arduini e Pellegrino Parmense, si raggruppava a Parma. La comunità giudaica contava 134 persone, secondo il censimento del 1938.
I documenti non rilevano alcuna presenza ebraica a Salso, forse a causa di quella antica tradizione che voleva le comunità stanziate in territori di facile passaggio economico-commerciale. Salsomaggiore, isolata dalle strade di maggior affluenza, non permetteva affari di questo tipo. Solo poche famiglie ebree decisero di abitare i comuni montani dell'Appennino dedicandosi all'agricoltura ed all'allevamento. Presenza certa è quella dei confinati, tra cui si contarono quattro donne, durante il periodo del 1941 e 1943.
La vita nel campo di concentramento salsese, benché l'edificio fosse fornito di servizi all'avanguardia per l'epoca, fu segnata da misere condizioni igienico-sanitarie per i detenuti che, a causa della costante mancanza di cibo e la precaria, se non assente, assistenza medica garantita da un medico condotto locale, erano soggetti a deperimento organico e a malattie quali tubercolosi, scabbia e polmonite.
Per il resto i prigionieri trascorrevano le giornate tra appelli quotidiani, orari fissi per il pranzo e la cena e l'oscuramento alle ore 22. L'inefficace recinzione del campo avrebbe tuttavia dato la possibilità ai prigionieri di comunicare con gli esterni, in particolare con gli abitanti del piccolo borgo su cui svettava il castello-campo di concentramento di Scipione. Racconta un testimone: «Eravamo in guerra, molti contadini erano stati chiamati alle armi, i loro grandi o piccoli poderi avevano bisogno di manodopera, fu così che alcuni internati, con il permesso del Direttore, di buon'ora lasciavano il campo e raggiungevano le famiglie bisognose. Lavoravano sodo e seriamente tutto il giorno accattivandosi la stima della gente. Alla sera ritornavano ordinatamente al campo canticchiando le canzoni in voga in quel periodo: la gente li salutava scambiando con loro qualche battuta».
Secondo altre testimonianze, i prigionieri avrebbero potuto addirittura dirigersi verso le Terme cittadine: «Il trattamento riservato agli internati non era disumano come quello perpetrato nei campi di sterminio nazisti, anzi oserei dire che erano trattati con riguardo ed erano benvisti e benvoluti dalla popolazione. [.] I prigionieri godevano di una certa libertà, alcuni benestanti affittarono stanze presso le famiglie del borgo, altri, per fuggire ai rigori invernali, fecero arrivare, a loro spese, alcune stufe di terracotta da una ditta di Parma. La legna per riscaldarsi la compravano dai contadini pagandola in contanti. Come vedi non erano dei "Caini" e i bisognosi li portavano alle cure nei nostri stabilimenti termali».
La libertà raccontata dalla memoria locale sarebbe, comunque, durata poco. La fuga di un prigioniero avrebbe, infatti, costretto il direttore a proibire l'uscita, facendo presto dimenticare al borgo la presenza di quei prigionieri. Gli attacchi partigiani del settembre 1944, infine, fecero smobilitare il campo che fu definitivamente in mano salsese nella primavera del 1945 alla vigilia della Liberazione, quando, per un certo periodo di tempo, divenne una roccaforte difensiva. Secondo i racconti resi dai partigiani quando il castello fu conquistato al suo interno non vi era nessuno. Vigilanti e detenuti erano svaniti nel nulla lasciando solo poche, visibili, tracce.
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