A Berlino nessuno coltivò dubbi sulle responsabilità del disastro dell’Asse in Nordafrica: era colpa dei soliti inaffidabili italiani. E anche sul fronte russo i tedeschi non si fecero scrupoli nell’assegnare all’alleato il ruolo di capro espiatorio. Per non parlare della protezione offerta agli ebrei nelle aree di occupazione italiana in Francia, Tunisia, Croazia e Grecia.
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Benché oppresso dalle sconfitte, Mussolini aveva tergiversato fino alla metà di gennaio del 1941 prima di cedere alle crescenti pressioni tedesche volte a ridimensionare la sua aspirazione a condurre una “guerra parallela”. Nell’incontro svoltosi al Berghof, tra il 19 e il 20 gennaio, Hitler si era mostrato estremamente amichevole, dichiarando di essere pronto a intervenire in Grecia e in Libia. Non aveva preteso contropartite, se non l’impegno del duce a prodigarsi per convincere Franco a schierarsi con l’Asse, ma la sua intenzione di assumere il controllo della sfera d’influenza italiana era stata fin troppo evidente. Mussolini, dissimulando i timori per la propria autonomia politica e l’irritazione che provava nel dover dipendere dalla generosità tedesca, non aveva potuto opporre rifiuti. A partire dalla metà di febbraio due divisioni, una corazzata e l’altra meccanizzata, avevano incominciato a sbarcare a Tripoli. Alla fine di marzo le truppe italo-tedesche erano già passate all’offensiva: si apprestavano a ricacciare gli inglesi dalla Cirenaica, a riconquistare Bengasi e a stringere d’assedio la piazzaforte di Tobruk.
Il 6 aprile 1941, la Wehrmacht, appoggiata da reparti bulgari, ungheresi e italiani, aveva dato avvio all’invasione della Jugoslavia, colpevole di aver voltato le spalle all’Asse a seguito di un colpo di stato ordito da un gruppo di ufficiali contrari all’intesa con la Germania nazista. In due settimane l’esercito jugoslavo era stato annientato e la Grecia, minacciata lungo tutti i suoi confini, aveva dovuto deporre le armi.
Il repentino miglioramento della situazione militare italiana non aveva però cancellato il disprezzo dei tedeschi verso l’alleato fascista, anzi l’aveva rafforzato. Nei Balcani, l’occupazione della Jugoslavia e il crollo della Grecia si erano verificati senza un determinante contributo italiano. I successi ottenuti in Africa settentrionale erano da attribuire al valore dell’Afrika Korps e all’abilità tattica del suo comandante, un dinamico ufficiale, appena promosso tenente generale, che si era distinto durante la campagna di Francia, conquistandosi la personale stima di Hitler: Erwin Rommel. Visti da Berlino i successi africani erano apparsi particolarmente luminosi, in quanto ottenuti malgrado gli italiani, cioè malgrado la pavida indolenza degli alti comandi e la sconcertante impreparazione delle truppe.
Pur essendo formalmente subordinato allo stato maggiore italiano, Rommel, sfruttando l’appoggio del comando supremo della Wehrmacht e la fiducia che il führer riponeva nei suoi confronti, si era di fatto creato un ampio margine di autonomia e aveva finito per imporre la sua visione della guerra nel deserto, imperniata sulla rapidità e sulla mobilità. Le sorprendenti vittorie riportate nel corso del 1941 e del 1942 gli avevano conferito un’aura di infallibilità, rendendo incontestabili le sue valutazioni. Pertanto poteva permettersi di trattare i suoi superiori italiani con altezzoso disprezzo, considerandoli miopi, infidi e codardi. Riferendosi a loro scriveva alla moglie Lucie: “Non ho mai avuto una buona opinione di questi gentiluomini. Merde sono e merde resteranno”.
Neppure verso il duce mostrava particolari riguardi. Nel luglio del 1942, quando le truppe italo-tedesche erano attestate a El Alamein e l’obiettivo di raggiungere il canale di Suez sembrava a portata di mano, Mussolini si era deciso, mal consigliato dal suo stato maggiore, a volare in Libia per poter presenziare al trionfo e assumersene prontamente il merito. In previsione dell’imponente parata all’ombra delle piramidi erano stati sbarcati a Tripoli duecento barattoli da dieci chili di lucido da scarpe.
In tre settimane di permanenza tra le roventi sabbie africane, il duce aveva dovuto accontentarsi di visitare ospedali e campi di prigionia, di rincuorare coloni che avevano perso tutto, di passare in rassegna reparti in marcia verso il fronte, ma Rommel, troppo impegnato a dirigere le operazioni, non aveva trovato neanche un minuto da dedicargli. Negli stessi giorni in cui Mussolini, stretto nella sua uniforme di primo maresciallo dell’impero, ciondolava in attesa di buone notizie o almeno di un incontro al vertice, Rommel aveva interrotto una riunione con il suo stato maggiore per volare in un ospedale da campo a rendere omaggio a un valoroso ufficiale italiano gravemente ferito che si era distinto al comando di una postazione di artiglieria.
L’atteggiamento verso i soldati italiani del generale destinato a guadagnarsi il soprannome di “volpe del deserto” era complesso e ambivalente. Per un verso provava rispetto e compassione nei loro confronti, per un altro diffidava della loro lealtà e della loro determinazione a combattere. Alla moglie confidava: “Sono ottimi, pazienti, resistenti, coraggiosi, ma male armati e peggio comandati”. Era anche disposto, come dimostrano i bollettini emessi dal suo comando, a riconoscerne con generosità il valore e la tenacia, tuttavia riteneva che gli italiani come popolo non brillassero per qualità marziali. Nel novembre del 1917 aveva ottenuto la più alta onorificenza dell’esercito imperiale, la croce pour le mérite, catturando a Longarone interi reggimenti italiani quasi senza combattere e non poteva certo averlo dimenticato. Conversando con i suoi ufficiali ammetteva che gli italiani possedevano altre virtù rispetto a quelle militari, magari preziose, ma inutili per vincere una guerra. Ogni ostacolo alla realizzazione dei suoi piani trovava nelle carenze italiane un’immediata spiegazione. L’insufficiente afflusso di rifornimenti alle sue colonne corazzate era da imputare allo scarso impegno, alla colpevole mancanza di organizzazione e di iniziativa degli italiani. Rifiutava con sdegno le giustificazioni dell’alto comando italiano che si affannava a fargli presente le immani difficoltà di rifornire un esercito attraverso centinaia di chilometri di deserto, con temperature che mettevano a dura prova uomini e mezzi.
I porti di Bengasi e di Tobruk avevano una capacità piuttosto ridotta ed erano gravemente esposti agli attacchi aerei provenienti dall’Egitto, tanto che le acque al largo della Cirenaica si erano trasformate nel “cimitero della marina italiana”. La rotta tra i porti italiani e Tripoli si presentava invece più breve e relativamente più sicura, ma una volta sbarcati i rifornimenti dovevano affrontare un lungo viaggio via terra. Nell’estate del 1942, quando l’armata italo-tedesca si trovava ai margini del delta del Nilo, un litro di benzina, una scatoletta di carne o un pacchetto di cartucce dovevano viaggiare per duemiladuecento chilometri prima di giungere a destinazione. In ogni ritardo, in ogni deficienza logistica Rommel vedeva i limiti di un popolo che non sapeva o non voleva fare la guerra, se non addirittura lo spettro del tradimento. Con il passare dei mesi, la vulnerabilità dei convogli italiani alle incursioni aeree e agli agguati della flotta britannica lo aveva erroneamente indotto a credere nell’esistenza di una diffusa rete di traditori, spie e sabotatori. Nel suo immaginario Roma e i principali centri di comando erano una sorta di suk in cui le informazioni non restavano segrete troppo a lungo, complici la proverbiale loquacità italiana e il proliferare dei traditori a ogni livello della scala gerarchica. La sua boria, nutrita di pregiudizi e di disprezzo verso gli italiani, gli impediva di individuare la vera causa che affamava le sue truppe e le costringeva all’immobilità: Ultra, cioè il sistema di decrittazione dei messaggi in codice trasmessi dall’esercito tedesco.
Fin dall’inverno del 1940, i migliori cervelli inglesi, selezionati dal servizio segreto tra matematici, fisici, ingegneri, enigmisti, linguisti e campioni di scacchi e di bridge, avevano incominciato a penetrare i messaggi cifrati generati dal codificatore elettromeccanico Enigma, in cui i tedeschi riponevano una fiducia assoluta. Insieme all’Afrika Korps erano sbarcate a Tripoli anche le macchine Enigma, attraverso cui venivano diffuse ai comandi tedeschi tutte le informazioni relative alle operazioni della marina italiana. In questo modo, ciò che i codici italiani, ancora inviolati, proteggevano diventava improvvisamente comprensibile per gli inglesi intercettando le comunicazioni tedesche. Non erano dunque né l’indole traditrice degli italiani, né la loro goffaggine nel preservare le informazioni più segrete a consentire alla flotta aeronavale britannica di tagliare con precisione chirurgica le linee di rifornimento di Rommel.
Oltre alla trasparenza del suo sistema di comunicazione, l’altra spina nel fianco dell’armata italo-tedesca era rappresentata da Malta, da cui le forze inglesi potevano insidiare la vitale rotta per Tripoli.
Nel giugno del 1940, Mussolini, troppo occupato a sferrare la sua “pugnalata” alla Francia per meritarsi un posto al tavolo dei vincitori, non aveva preso in considerazione l’occupazione di Malta, allora debolmente difesa. Era stato un errore di valutazione gravissimo, a cui si era cercato di rimediare verso la fine del 1941 elaborando un piano di invasione con la collaborazione tedesca. L’esperienza del generale Kurt Student, che aveva guidato le forze aviotrasportate nella sanguinosa conquista di Creta nel maggio del 1941, si era rivelata preziosa. Erano stati predisposti navi, mezzi da sbarco e alianti, la divisione paracadutisti Folgore e altre unità mobilitate avevano ricevuto uno specifico e meticoloso addestramento, le difese di Malta erano state sottoposte a intensi bombardamenti, nella primavera del 1942 tutto era pronto per mettere in atto l’operazione denominata in codice C3 dallo stato maggiore italiano. L’ultima parola spettava però a Berlino, le cui truppe aviotrasportate erano ritenute indispensabili per ottenere il successo. In giugno, Hitler aveva deciso di rinviare l’operazione. Forse più che all’illusione che Rommel fosse in procinto di ricacciare gli inglesi oltre il canale di Suez, aveva ceduto alla diffidenza che nutriva verso gli italiani. Al generale Student, designato al comando dell’assalto dal cielo, Hitler aveva confidato di temere che se la flotta britannica fosse comparsa al largo di Malta tutte le navi italiane si sarebbero rifugiate in fretta e furia nei loro porti, abbandonando al loro destino le truppe aviotrasportate. A Mussolini aveva invece taciuto le sue preoccupazioni antitaliane, aveva preferito evocare la “dea della fortuna” che “nelle battaglie passa accanto ai condottieri soltanto una volta” per imporgli, seppur con i toni di un amico sincero e premuroso, di dare piena fiducia a Rommel che, galvanizzato dalla conquista di Tobruk, intendeva proseguire la sua offensiva verso il delta del Nilo, senza curarsi di Malta.
Di fronte a una visione strategica così ispirata, il duce, ignorando le obiezioni di alcuni dei suoi generali, non aveva esitato a inchinarsi. La dea della fortuna, sempre capricciosa, si era però lasciata afferrare dagli inglesi. Esaurito il suo slancio offensivo a causa della penuria di carburante, pezzi di ricambio e munizioni, Rommel era stato travolto, nell’ottobre del 1942, dall’ottava armata del generale Montgomery, che disponeva di linee di rifornimento, attraverso il canale di Suez, sicure e soprattutto brevi.
Nella decisiva battaglia di El Alamein gli inglesi erano stati ben più generosi degli alleati tedeschi nel riconoscere il valore, il coraggio e l’abnegazione dimostrati dai soldati italiani, in particolare dai paracadutisti della divisione Folgore a cui avevano reso l’onore delle armi. Al termine dei combattimenti dei cinquemila parà partiti dall’Italia ne erano sopravvissuti appena trecentosei.
A Berlino invece nessuno aveva avuto dubbi sulle responsabilità del disastro africano: i soliti inaffidabili e spregevoli italiani.
Anche sul fronte russo i tedeschi non si erano fatti scrupoli ad assegnare all’alleato italiano il ruolo di capro espiatorio della disfatta.
All’alba del 22 giugno 1941, oltre tre milioni di uomini della Wehrmacht avevano varcato i confini sovietici dal Baltico ai Carpazi. Poche ore prima dell’inizio delle operazioni, Hitler aveva informato Mussolini, che aveva accolto con entusiasmo la notizia. Da tempo sospettava un imminente allargamento a est del conflitto da cui si attendeva, attraverso il superamento del patto Ribbentrop-Molotov e il ritorno alla coerenza ideologica dell’Asse, l’opportunità di riaffermate il proprio ruolo di campione senza macchia dell’antibolscevismo, di risollevare il prestigio militare italiano e di guadagnare terreno rispetto agli alleati minori del Terzo Reich come la Romania e l’Ungheria. Nonostante Hitler e i suoi generali non avessero né previsto, né auspicato alcun contributo militare italiano, il duce aveva insistito per partecipare all’impresa. Si era affrettato a dichiarare guerra all’Unione Sovietica e a ordinare allo stato maggiore di mettere insieme al più presto un contingente da inviare in Russia. Il führer, pur ritenendo assai più utile un rafforzamento del fronte africano, non si era sentito di negare all’amico italiano l’onore di partecipare direttamente alla battaglia decisiva per il trionfo della civiltà europea sulla barbarie asiatica.
A fine giugno erano partiti verso le steppe russe i primi treni stipati di soldati con un equipaggiamento raccogliticcio e incompleto. Ancora una volta l’illusione di una campagna breve che avrebbe annientato la potenza sovietica prima del sopraggiungere dell’inverno aveva soffocato nel duce ogni prudenza. Riteneva che crollata la Russia, l’impero inglese avrebbe accettato una pace di compromesso da cui l’Italia avrebbe potuto trarre i massimi vantaggi soltanto in virtù del contributo fornito all’alleato su tutti i fronti.
Sulla qualità del concorso italiano i vertici militari tedeschi avevano espresso le solite perplessità. Nell’agosto del 1941, il generale Wilhelm Keitel, capo di stato maggiore della Wehrmacht, dopo aver passato in rassegna il contingente italiano in compagnia di Hitler e di Mussolini ne aveva tratto una impressione desolante e si era posto una angosciosa domanda: ”Come avrebbero fatto a resistere ai russi, uomini di questo stampo che erano solo mezzi soldati?”. Gli argomenti per addossare agli italiani qualsiasi colpa erano già pronti.
Anche riguardo al significato ideologico da attribuire alla lotta contro la Russia il duce si era lasciato ingannare da convinzioni destinate a essere smentite dai fatti. Vedeva nell’operazione Barbarossa una crociata antibolscevica, capace di far convergere verso l’Asse tutte le correnti anticomuniste, persino quelle presenti nei paesi anglosassoni, Hitler invece la considerava prima di tutto una guerra di sterminio per la conquista a est dello spazio vitale tedesco. Nella visione nazista ebraismo e bolscevismo erano inestricabilmente legati tra loro, in quanto dal primo si sprigionava l’energia intellettuale del secondo. Pertanto lo sterminio degli ebrei equivaleva alla distruzione della dottrina leninista e delle forze più vitale dello stato sovietico.
Un mese prima dell’inizio dell’operazione Barbarossa, il reichsführer delle SS, Heinrich Himmler, aveva riunito a Pretzsch sull’Elba un centinaio di comandanti delle Einsatzgruppen, le forze speciali che avrebbero seguito la scia delle armate tedesche nella loro avanzata in Russia, per formarli alla campagna di distruzione del nemico razziale. Con l’avvio dell’invasione gli ufficiali convenuti a Pretzsch avevano dimostrato di aver appreso la lezione di Himmler e di applicarla coscienziosamente. Ogni giorno giungevano a Berlino rapporti contrassegnati con la dicitura “segretissimo” in cui veniva tracciato il bilancio delle attività omicide delle forze speciali nei territori via via occupati. I funzionari del partito comunista, i commissari politici e soprattutto gli ebrei venivano rastrellati, fucilati e interrati in fosse comuni frettolosamente approntate. Il numero degli ebrei massacrati dalle Einsatzgruppen avrebbe superato il milione prima della fine della campagna.
I rapporti sulla situazione operativa in U.R.S.S., contenenti tutti i dettagli della guerra razziale contro gli ebrei erano diramati quotidianamente a sessanta dipartimenti e funzionari del governo tedesco, ma nessuno giungeva agli alleati italiani. In via ufficiale Roma era tenuta all’oscuro della politica di sterminio sistematico della popolazione ebraica voluta dal führer.
Dopo l’armistizio con la Francia, Ciano era stato informato da Ribbentrop del progetto di trasferire gli ebrei europei in Madagascar, ma probabilmente non ne aveva colto il significato implicitamente genocida. In seguito il governo tedesco si era limitato a esercitare pressioni sull’alleato italiano affinché nelle zone di occupazione di sua competenza si attenesse a una linea di condotta più intransigente nell’applicazione della politica razziale, dissipando il sospetto che gli ebrei potessero godere di qualche protezione.
L’irritazione nazista aveva ben fondate motivazioni. Infatti, il ministero degli esteri si era sempre opposto con fermezza a ogni tentativo delle autorità tedesche, e degli altri paesi in cui vigevano legislazioni antisemite, di applicare norme restrittive e discriminatorie anche ai residenti italiani di ascendenza ebraica. Il riconoscimento della pienezza dei diritti di cittadinanza agli ebrei italiani nel territorio del Reich e in quelli occupati dalla Wehrmacht aveva assunto i caratteri di un aperto gesto di sfida nei confronti dell’alleato. Tanto che nel settembre del 1942 il governo tedesco aveva intimato a Roma, non volendo più tollerare una condizione di privilegio per gli ebrei italiani, di organizzare entro il gennaio successivo il rimpatrio dei propri cittadini. La minaccia dell’immediata deportazione degli ebrei italiani in Polonia aveva convinto palazzo Chigi a mettere da parte la linea delle proteste diplomatiche e delle schermaglie burocratiche per attivarsi nella realizzazione dei rimpatri. Nessun ebreo italiano era stato abbandonato, neppure quelli arrestati e deportati per errore dalla Gestapo. La diplomazia italiana anche in questi casi era intervenuta con incisività, riuscendo talvolta a ottenere il rilascio dei malcapitati.
A costo di destare l’indignazione dei nazisti e attirarsi il loro risentito disprezzo, le autorità civili e militari italiane avevano esteso la protezione accordata agli ebrei italiani anche a quelli stranieri, persino a quelli tedeschi accusati di attività eversive. In Francia, in Tunisia, in Croazia e in Grecia i comandi militari si erano mostrati larghi di aiuti e di protezione non solo verso gli ebrei residenti nelle proprie aree di competenza, ma anche verso quelli che si trovavano nelle zone limitrofe, sottoposte all’autorità tedesca o di governi collaborazionisti. Nella zona di occupazione italiana in Francia, il numero degli ebrei era quasi triplicato, suscitando vivaci proteste da parte sia del governo di Vichy, sia delle autorità naziste che si vedevano sfuggire le loro prede a causa della generosa umanità, mascherata da lassismo, degli italiani.
Adolf Eichmann, l’ufficiale delle SS incaricato da Himmler di rastrellare gli ebrei europei e di avviarli ai campi di sterminio, indispettito dall’atteggiamento italiano aveva attivato il ministero degli esteri per ottenere un incontro a Parigi con Guido Lospinoso, l’ispettore generale di pubblica sicurezza nominato da Mussolini, su insistenza tedesca, responsabile degli affari ebraici nella Francia occupata. Lospinoso si era reso irreperibile, nessuno dei messaggi recapitatigli aveva avuto risposta. L’onnipotente Eichmann aveva dovuto rinunciare alla riunione in cui sperava di mettere in riga gli italiani. Un subordinato di Eichmann, Heinz Roethke, incaricato di gestire la liquidazione della comunità ebraica francese, così descriveva, in un rapporto del luglio 1943, la situazione della zona di occupazione italiana: “L’atteggiamento italiano è ed è stato incomprensibile. Le autorità militari italiane e la polizia italiana proteggono gli ebrei con ogni mezzo sia in loro potere. La zona di influenza italiana, particolarmente la Costa Azzurra, è diventata la Terra Promessa per gli ebrei residenti in Francia. Negli ultimi mesi vi è stato un esodo di massa di ebrei che dalla nostra zona di occupazione sono passati in quella italiana. La fuga degli ebrei è stata facilitata dall’esistenza di migliaia di vie traverse, dall’assistenza data loro dalla popolazione francese, dalla simpatia delle autorità, da carte di identità false e anche dalla vastità dell’area che rende impossibile bloccare ermeticamente le zone di influenza. A proposito dell’atteggiamento italiano sulla questione ebraica, sono già stati inviati circa 20 rapporti… . Sinora non vi è stato alcun accenno di mutamento nella condotta degli italiani. Questo problema crea grandi difficoltà nel mantenimento esteriore delle relazioni politiche italo-tedesche, perché i francesi e i rappresentanti diplomatici di altri paesi utilizzano abilmente la diversità di condotta verso gli ebrei, tenuta rispettivamente dall’Italia e dalla Germania. Gli italiani hanno fatto trasferire dalla Costa Azzurra alle stazioni climatiche del dipartimento dell’Isère e della Savoia circa mille ebrei bisognosi. Gli ebrei vi si trovano benissimo poiché non sono soggetti ad alcuna restrizione, ma al contrario sono alloggiati nei migliori alberghi.”.
Anche in Tunisia, malgrado la difficilissima situazione militare e la forte presenza tedesca, la protezione italiana agli ebrei non era mai venuta meno.
Ad Atene, il generale Carlo Geloso, comandante della seconda armata, oltre a non prendere alcun provvedimento contro gli ebrei, aveva ordinato di presidiare la sinagoga al fine di evitare violenze da parte degli studenti filonazisti greci. A Salonicco, nella zona di occupazione tedesca, le autorità consolari italiane avevano salvato nell’estate del 1942 centinaia di ebrei dalla furia nazista rilasciando certificati di nazionalità italiana a chiunque potesse vantare un remoto legame con l’Italia o avesse un cognome con una vaga assonanza italiana. Alcuni ufficiali aveva strappato dalle grinfie della Gestapo donne ebree spergiurando di averle sposate.
In Croazia, nell’estate del 1941, un reparto italiano aveva simulato un inesistente rastrellamento di partigiani per raggiungere un gruppo di ebrei nascosti nelle zone interne del paese e sottrarli alla minaccia degli ustascia, le feroci milizie filonaziste guidate da Ante Pavelic.
La condotta umanitaria verso gli ebrei dei militari e dei funzionari civili, così disonorevole agli occhi dei nazisti, perché razzialmente indegna e irresponsabile, era avallata e talvolta incoraggiata da Mussolini. A ispirarlo non erano tanto i sussulti dell’umanità nascosta al fondo del suo animo, quanto piuttosto considerazioni politiche a breve e a lungo termine. Nell’immediato temeva che la passiva accettazione di una politica persecutoria verso gli ebrei avrebbe dissolto ciò che rimaneva della popolarità del regime e del suo personale prestigio. Guardano invece al nuovo ordine europeo che sarebbe scaturito dalla guerra, riteneva opportuno prendere le distanze dalla politica razziale nazista per fare dell’Italia un polo di riferimento di tutte le forze che in Europa erano terrorizzate dalla prospettiva di una egemonia tedesca. Soprattutto nell’area mediterranea, destinata nei suoi sogni a entrare nella sfera di influenza italiana, vedeva la necessità di tutelare la posizione morale dell’Italia, così profondamente minacciata dalla brutalità tedesca, su cui nessun equilibrio politico avrebbe potuto essere edificato.
Il silenzio ufficiale di Berlino sulla “soluzione finale” della questione ebraica non aveva impedito a Mussolini di intuirne i contorni. Le dimensioni del massacro perpetrato dalle Einsatzgruppen in Russia erano talmente grandi da non poter passare inosservate né ai comandi militari, né ai gerarchi in visita al fronte. Il segretario del PNF, Aldo Vidussoni, al termine di una visita alle truppe dell’ottava armata aveva inviato al duce, nell’ottobre del 1942, una eloquente relazione: “Un assoluto rigore è manifestato nei riguardi degli ebrei, severamente trattati e sottoposti a restrizioni di ogni genere, anche se non mancano quelli che lavorano. Mi è stato detto da italiani che vivono in quei territori e qualche volta anche dai tedeschi in vena di confidenze, che le fucilazioni sono all’ordine del giorno e anche per forti contingenti di individui di ogni età e sesso. A Minsk, al Teatro dell’Opera, abbiamo visto ammassata la roba di migliaia e migliaia di ebrei ammazzati e che sembra sarà distribuita alla popolazione. Si sfruttano, dicono, solo quelli che possono lavorare e fino al loro esaurimento materiale. Quello che più ha colpito gli italiani è il modo dell’uccisione, alla quale, del resto, sembra che le vittime siano rassegnate. Intere città e villaggi hanno avuto ridotto anche di un terzo e della metà la popolazione, specialmente per l’eliminazione degli ebrei.”.
La consapevolezza del genocidio degli ebrei messo in atto dalla Germania nazista, pur accentuando le sue preoccupazioni circa la possibilità di costruire una durevole sistemazione dell’Europa e di garantire nel dopoguerra una qualche autonomia all’Italia, non aveva suscitato in Mussolini una completa ripulsa morale dell’alleato.
Ben diversa era stata invece la reazione di molti soldati italiani sul fronte russo dopo aver assistito al trattamento riservato agli ebrei dalla disumana ferocia dei loro alleati; incredulità, sgomento e ribrezzo in Nuto Revelli: “Molti ebrei, uomini e donne, tutti con la stella gialla sul petto e sulla schiena, vagano lungo i binari: scalzi e cenciosi, passando da una tradotta all’altra, trascinano un secchio e una scopa. Devono raccogliere le immondizie che le tradotte seminano nelle stazioni. Fingono di lavorare, come cani affamati chiedono pane e minestra. La fame e gli stenti li hanno inebetiti. Visi malati, stanchi, rassegnati: occhi pieni di fame. Alcuni bambini hanno forse sei anni… Provo pena e nausea. Quasi tutti gli alpini guardano perplessi: guardano, non capiscono.”; orrore per la sistematicità dello sterminio in Teodorico Cuzzolin: “… una decina di ebrei fra donne e bambini, dopo essersi scavata una fossa, lunga sei metri e profonda due, costretti dai tedeschi, entravano per essere uccisi con armi automatiche. I tedeschi, dopo aver scaricato le armi su quei miseri, costringevano altri ebrei a riempire le buche di terra […] e queste barbarie continuavano fino a che non avevano eliminato tutti.”; indignazione per la crudeltà riservata a civili inermi in Mario Tognato: “Corpi macilenti, coperti alla meno peggio con luridi stracci sui quali non mancava mai la tragica stella a sei punte con la JU nel mezzo, visi cerei sui quali formavano una macchia gli occhi senza espressione. Ricordo una giovinetta, di forse sedici anni, che si fermò a guardare, mentre il nostro treno le passava accanto, un alpino che sbocconcellava una pagnotta. Da un bagliore improvviso in quel visetto tragico, il nostro alpino intuì la sua fame drammatica e le buttò la pagnotta, subito raccolta con felina rapidità. Immediatamente un soldato tedesco le fu sopra colpendola selvaggiamente con il calcio del fucile mentre un altro le rigava le carni con lo scudiscio”.
Sin dai primi mesi passati sul fronte russo, molti soldati italiani avevano incominciato a vedere negli alleati tedeschi non più dei semidei della guerra, valorosi e invincibili, ma dei vili aguzzini privi di ogni parvenza di umanità, delle bestie sanguinarie da cui guardarsi le spalle. La tragica esperienza della ritirata attraverso la steppa russa aveva poi fornito ulteriori conferme a tali giudizi, destando un diffuso sentimento di rifiuto della Germania e della guerra imposta dal regime fascista. I tedeschi infatti avevano negato ogni solidarietà alle truppe dell’ottava armata, anzi le avevano volontariamente sacrificate, non prima però di aver addossato loro la responsabilità della rottura del fronte sul Don, a sud di Voronez.
Nel dicembre del 1942, le divisioni corazzate russe avevano investito le posizioni italiane sul Don allo scopo di consolidare l’accerchiamento, realizzato in novembre, di Stalingrado e intrappolare in una gigantesca sacca tutte le armate che si trovavano nel Caucaso. Assillato dall’idea che gli alleati minori del Terzo Reich potessero fornire un contributo più consistente di quello italiano, Mussolini aveva accresciuto l’ottava armata sino a una forza di duecentotrentamila uomini, l’armamento e l’equipaggiamento erano stati però trascurati. Gravi erano le carenze di automezzi, di carri armati e di artiglieria. Pur così fragile il dispositivo italiano aveva opposto una accanita resistenza all’assalto sovietico, poi era stato travolto. Nell’urto contro le soverchianti forze nemiche alcune divisioni come la Ravenna e la Cosseria avevano subito perdite gravissime.
Già quando il fronte aveva mostrato i primi segni di cedimento, il comando tedesco, adducendo motivazioni assai poco plausibili, aveva incominciato a lesinare gli aiuti all’alleato. Dopo lo sfondamento delle linee al centro dello schieramento italiano aveva temporeggiato prima di impartire l’ordine di ripiegamento all’ottava armata per consentire alle più robuste e più mobili divisioni della Wehrmacht di mettersi in salvo. Le unità meccanizzate e corazzate tedesche si erano così sganciate dal combattimento, lasciando alle stremate e appiedate divisioni italiane tutto il peso della resistenza all’urto sovietico. Durante la ritirata l’ottava armata, braccata dai russi, aveva potuto contare soltanto su sé stessa.
I tedeschi avevano mostrato all’alleato il loro volto più spietato. Non avevano esitato a impadronirsi, anche con la forza, dei pochi mezzi e di quel poco di carburante di cui disponevano gli italiani, neppure le autoambulanze cariche di feriti erano state risparmiate. I comandi italiani si erano visti costretti a emanare ordini in cui si raccomandava di difendere anche con le armi mezzi, carburante e viveri dalle pretese degli alleati.
Anche quando i camion o le slitte dei tedeschi erano semivuote brutale era il rifiuto di caricare fanti o alpini italiani, per quanto malconci potessero essere. Se i tedeschi ricevevano dai lanci della Luftwaffe un po’ di pane non lo dividevano con gli italiani, se trovano lungo la strada un riparo dal gelo sbarravano l’ingresso agli italiani, oppure li cacciavo via senza tanti complimenti, se per caso, erano arrivati per primi. Franz Radewald, un veterinario distaccato presso il 541° reggimento granatieri aggregato all’ottava armata, annotava in quei giorni sul suo diario: “…lungo la strada vediamo alcune capanne che facevano al caso nostro. Un paio di vecchie comari si mettono a gracidare come gazze quando si accorgono che abbiano qualche intenzione sulle loro topaie. (…) Tre italiani che erano lì e non ne vogliono sapere di sloggiare si buscano qualche paio di robuste randellate sul groppone che ottengono un effetto miracoloso…”. Lo stesso rude trattamento era riservato anche ai feriti, gettati, secondo le numerose testimonianze dei reduci italiani, come “sacchi di segatura” sulla neve per far posto ai soldati del Reich millenario.
Radewald e i suoi camerati non avevano scrupoli di coscienza, l’unico cruccio che li tormentava era che la Germania avesse scelto un alleato così spregevole come quello italiano: “Siamo noi gli unici colpevoli di questa catastrofe, perché abbiamo accettato che individui di razza inferiore come questi combattano al nostro fianco. Hanno forse una lontana parvenza di soldati, costoro?”. Il disprezzo per gli italiani era così grande che alcuni soldati tedeschi a stento riuscivano a resistere alla tentazione di ammazzare quelli che consideravano una marmaglia di “straccioni, ladri e fifoni”. Non avrebbero dovuto resistere ancora per molto.
Nella primavera del 1943, i resti dell’ottava armata, circa centomila uomini, avevano incominciato a rientrare in patria portando con sé un rancore profondo verso l’alleato, una drammatica disillusione circa la possibilità per l’Asse di vincere la guerra e un desiderio di vendetta per le sofferenze patite. In un rapporto del partito fascista sullo stato d’animo dei soldati sopravvissuti all’inferno russo, si registrava, nel marzo del 1943, con un certo stupore lo stridente contrasto tra il risentimento verso i tedeschi per il loro brutale e sprezzante egoismo e la riconoscenza verso la generosa umanità dei russi, che in molti casi si erano presi cura dei feriti italiani abbandonati sul terreno.
Il cupo disfattismo dei reduci dal fronte russo non aveva stentato a propagarsi né al resto dell’esercito già da tempo demoralizzato, né a un paese prostrato dal razionamento dei generi alimentari, dai bombardamenti e dai lutti e ormai refrattario ai vaneggiamenti della propaganda di regime. Il crudo racconto dalla viva voce dei superstiti delle atroci angherie subite per mano tedesca durante la ritirata e dei patimenti sofferti a causa dell’irresponsabile leggerezza con cui l’ottava armata era stata mandata al macello aveva segnato per molti italiani, con o senza stellette, il definitivo distacco morale dal fascismo e dalla sua guerra.
Le gravissime perdite subite in Africa e in Russia avevano reso più pressanti le richieste italiane di armi, attrezzature ed equipaggiamenti con cui tentare di riorganizzare l’esercito in vista della difesa dei confini nazionali, esasperando i rapporti già tesi e sospettosi con l’alleato tedesco. Sull’ipotesi di un riarmo italiano Hitler aveva manifestato tutto il suo sprezzante scetticismo in una riunione dello stato maggiore svoltasi nel marzo del 1943: “Noi diamo armi agli italiani ed esse vengono così in mano a gente che le fa finire in mano al nemico, dopo poco tempo esse sparano contro di noi. Accade lo stesso anche se si tratta di armi russe o di altra preda bellica: sono sempre armi che in breve tempo sono rivolte contro di noi.”. La stagione dei palliativi era da considerarsi conclusa, la soluzione del problema italiano non poteva che essere radicale. A cominciare da un nucleo di sei divisioni, l’esercito italiano avrebbe dovuto essere rifondato ex novo attraverso un intenso addestramento in Germania, arruolando fascisti di provata fede, diversi dai soldati che in Africa avevano “tagliato la corda al primo colpo di cannone” e dagli ufficiali che non avevano mostrato alcuna preoccupazione se non quella di “andare al caffè”. Progressivamente certe “miserabili divisioni” italiane avrebbero potuto essere sciolte e rimpiazzate da quelle plasmate sul modello tedesco. Il precipitare degli eventi bellici aveva vanificato i progetti di Hitler.
Nel maggio del 1943 l’armata italo-tedesca in Tunisia aveva ceduto le armi al maresciallo Montgomery, all’inizio di giugno le guarnigioni italiane di Pantelleria e di Lampedusa si erano arrese quasi senza combattere, un mese più tardi gli Alleati erano sbarcati sulle coste siciliane. La facilità con cui erano penetrati nell’interno aveva convinto Hitler a chiamare a rapporto il duce a villa Gaggia, per spronarlo a resistere a oltranza.
Dopo l’incontro di Feltre, Mussolini rimase alla guida del governo solo per sei giorni. Prima il gran consiglio del fascismo lo mise in minoranza, poi Vittorio Emanuele III lo destituì e lo fece arrestare. Uscito di scena il solo italiano che riteneva degno di stima e di fiducia, Hitler non ebbe alcun dubbio sull’imminente tradimento italiano. Finse di credere alle rassicurazioni del maresciallo Badoglio sulla determinazione del suo governo a continuare la guerra a fianco della Germania solo per guadagnare il tempo necessario per mettere a punto i piani operativi, denominati in codice “Alarico” e “Costantino”, per neutralizzare ciò che restava dell’esercito italiano in patria e all’estero.
Mentre gli italiani esultavano in piazza per la caduta di Mussolini, sfogando la loro rabbia a lungo repressa su fasci littori, aquile romane e busti protervi del dittatore che li aveva condotti alla catastrofe, la Wehrmacht si assicurava il controllo dei valichi alpini e faceva affluire divisioni e unità corazzate, destinate non certo a rafforzare il fronte siciliano.
Le deboli proteste dello stato maggiore italiano di fronte a questi minacciosi movimenti di truppe furono ignorate da Berlino, fornendo così a Badoglio una ragione in più per accelerare le trattative segrete in corso con gli anglo-americani. In attesa di perfezionare l’armistizio, l’anziano maresciallo, i suoi ministri e i suoi generali moltiplicarono le dichiarazioni di fedeltà al Terzo Reich, senza tuttavia riuscire ad apparire nient’altro che dei patetici teatranti agli occhi dei tedeschi. A mezzogiorno dell’8 settembre 1943, il re in persona giurò al diplomatico tedesco Rudolf Rahn, in visita di cortesia a villa Savoia, che l’Italia e la Germania erano unite per la vita e per la morte. Poche ore più tardi, intorno alle diciotto e trenta, la tragica farsa dell’alleanza italo-tedesca cessò con l’annuncio radiofonico da parte del generale Eisenhower della capitolazione italiana. Il tradimento da lungo tempo temuto da Hitler si era finalmente consumato. Nulla poteva ormai impedire al disprezzo tedesco di tramutarsi in odio feroce e vendicativo.
(2 - Fine)
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