Dopo la liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo le donne, che erano state una presenza importante nella lotta partigiana, rivendicarono un ruolo più incisivo nella vita politica del Paese. Nacquero associazioni spesso ispirate dai principali partiti (Unione Donne Italiane, Centro Italiano Femminile), con l’obiettivo di conquistare alla donna ruoli non esclusivamente sociali ma anche di rappresentanza politica.
La nascita dei movimenti politici femminili nel dopoguerra
di MICHELE STRAZZA
Dopo la liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo le donne, che erano state una presenza importante nella lotta partigiana, rivendicarono un ruolo più incisivo nella vita politica del Paese. Già nel luglio del 1944 a Napoli si era formata la redazione di Noi donne, testata femminile nata in Francia nel 1937. Il primo numero dell’Italia liberata portava tra le firme quella di Rita Montagnana Togliatti e Nadia Spano, dirigenti comuniste di primo piano e future deputate alla Costituente. Il giornale, diventato organo di comunicazione dei “Gruppi di difesa della donna” sorti dopo l’8 settembre 1943, voleva imporre nel dibattito politico le problematiche della presenza femminile nella nuova Italia.
A Roma, il 15 settembre 1944, nasce l’Unione Donne Italiane (UDI), “associazione unitaria del movimento femminile di emancipazione” cui aderiscono “donne di ogni credo politico e religioso, per lavorare e conquistare alla donna tutte le libertà, sia economiche che politiche e sociali”.
L’UDI, in realtà, dopo un brevissimo coinvolgimento delle cattoliche, si avvierà a diventare una organizzazione collaterale del PCI, pur facendone parte anche donne socialiste.

Del resto anche il Centro Italiano Femminile (CIF), fondato ufficialmente nel 1945 dalle donne cattoliche e presieduto da Maria Federici, anche lei futura deputata alla Costituente, sarà un’organizzazione collaterale dell’Azione Cattolica e, quindi, di appoggio alla DC. La
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data ufficiale della costituzione del CIF risale al dicembre 1945, momento dell’approvazione formale di Pio XII, ma già dall’autunno dell’anno precedente a Roma le donne cattoliche avevano dato vita al movimento e il 16 marzo del 1945 su Azione Femminile (organo del Movimento Femminile DC) era comparso l’appello alle adesioni.
Chiari i compiti del nuovo movimento: coordinare e concentrare le iniziative benefiche, le opere sociali, l’attività assistenziale ed educativa delle associazioni femminili. Il CIF inoltre, in vista delle nuove responsabilità civili e dei nuovi compiti sociali ai quali le donne erano chiamate, si proponeva di promuovere “la soluzione dei problemi della vita femminile e sociale secondo lo spirito e la dottrina cristiana”, nonché “di preparare la donna mediante lo studio, la propaganda e l’azione, all’esercizio dei diritti civili e politici e all’adempimento dei doveri” conseguenti.
Il CIF aveva l’obiettivo di conquistare le masse femminili alla propria causa, educandole alla politica, ma anche aiutandole a migliorare le loro condizioni materiali di vita.
Alla nascita del movimento diede un contributo decisivo Giovanni Battista Montini, allora sostituto della Segreteria di Stato vaticana, con l’intenzione di fare del CIF un punto d’incontro tra un nascente movimento politico femminile e l’associazionismo cattolico più tradizionale che vedeva ancora con difficoltà un impegno politico attivo.
Al di là di una certa mitizzazione delle origini, queste due associazioni nascono “sulla base degli schieramenti politici, non dell’appartenenza di genere”.
Nell’ottobre del 1946 nacque, su iniziativa di Carla Garabelli Orlando (figlia di Vittorio Emanuele Orlando), l’ANDE (Associazione Nazionale Donne Elettrici). Come si legge nell’art. 1 del suo statuto, l’ANDE si prefiggeva di associare tutte le cittadine italiane desiderose di acquisire e far acquisire maggiore coscienza politica, in quanto consapevoli delle responsabilità inerenti al diritto di voto e all’influenza che attraverso di esso si poteva esercitare sia per lo sviluppo della società che per la tutela delle libertà democratiche, premessa di ogni progresso civile. Indipendente dai partiti politici (art.5), l’associazione intendeva, altresì, promuovere e incoraggiare ogni iniziativa atta a facilitare la formazione e la partecipazione politica della donna e a combattere l’indifferenza e l’assenteismo nell’elettorato (art.2).

Ad avere un ruolo più propriamente politico saranno l’UDI e il CIF. Esse, in realtà, nonostante le nette differenze ideologiche, hanno in comune “la concezione della militanza femminile” che ne aveva ispirato la nascita, una concezione “condivisa pienamente dalle cattoliche e accettata, seppure non senza resistenze, dalle comuniste”. Per le donne, cioè, “dovevano esistere ambiti separati di pratica politica” e loro compito precipuo era quello di raggiungere altre donne per ottenerne il consenso e spingerle alla partecipazione.
Una ulteriore convergenza, pur essa non voluta, tra comuniste e cattoliche si riscontrerà anche “nell’organizzazione della militanza politica femminile, nella definizione dei suoi scopi e dei suoi campi d’azione”. Entrambe le componenti individueranno nella famiglia, nell’infanzia, nell’assistenza e nel lavoro “i settori privilegiati di competenza” delle donne:
Tale convergenza di strutture e obiettivi mostra la preoccupazione che l’ingresso delle donne nella vita politica possa minacciare l’ordine sociale e la tradizionale divisione dei ruoli, in un momento (il difficile ritorno alla normalità dopo un conflitto di enormi
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proporzioni) delicato e denso di incognite; un timore che investiva gli schieramenti politici non solo italiani. E’ importante specificare inoltre che le limitazioni cui si è accennato non erano intese come tali dalle militanti che, anzi, intendevano consapevolmente il proprio impegno come esercizio di un ruolo politico. Esse erano convinte di lavorare in prima persona all’affermazione di un determinato modello di società e di fare la propria parte in quella che consideravano una corretta amministrazione della cosa pubblica.
Specialmente i compiti di natura assistenziali, pur considerati “politicamente secondari” dagli uomini, verranno vissuti dalle donne comuniste e cattoliche come un campo in cui cercare un riconoscimento delle nuove capacità femminili nella sfera pubblica a loro tradizionalmente preclusa. Inoltre, privilegiare le attività assistenziali sembra avere un’altra significativa ragione nel fatto che solo in esse le donne possono “rifarsi a una precisa eredità culturale”. Mentre, infatti, nel campo propriamente politico non esiste alcuna tradizione femminile, in quello assistenziale ce ne sono due ben precise: quella “delle battaglie emancipazioniste e dei riconoscimenti istituzionali e l’altra, molto più antica ma ancora viva tra le donne di classe popolare”, per cui il potere femminile può “essere legittimamente esercitato fuori dell’ambito familiare” nei momenti in cui è “in gioco la sopravvivenza della comunità”.

Il 31 gennaio 1945, intanto, il Consiglio dei Ministri approvava lo schema di un decreto che riconosceva finalmente alle donne il diritto di voto.
Il Decreto, passato alla storia come “Decreto De Gasperi-Togliatti” dal nome dei ministri che più di tutti si erano battuti per la sua emanazione, si componeva di soli 4 articoli: “Art. 1. Il diritto di voto è esteso alle donne che si trovino nelle condizioni previste dagli articoli 1 e 2 del testo unico della legge elettorale politica, approvato con R. decreto 2 settembre 1919, n. 1495. Art. 2. E’ ordinata la compilazione delle liste elettorali femminili in tutti i Comuni. Per la compilazione di tali liste, che saranno tenute distinte da quelle maschili, si applicano le disposizioni del decreto legislativo Luogotenenziale 28 settembre 1944, n. 247, e le relative norme di attuazione approvate con decreto del Ministro per l’interno in data 24 ottobre 1944. Art. 3. Oltre quanto stabilito dall’art. 2 del decreto del Ministro per l’interno in data 24 ottobre 1944, non possono essere iscritte nelle liste elettorali le donne indicate nell’art. 354 del Regolamento per l’esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con R. decreto 6 maggio 1940, n. 635. Art. 4. Il presente decreto entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella “Gazzetta Ufficiale”del Regno.”
Stranamente, o a conferma della scarsa attenzione per il tema da parte della classe politica, in esso non si fa alcun accenno all’eleggibilità delle donne per la quale si dovrà attendere l’art. 7 del Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 74 del 10 marzo 1946 (G.U. n. 60 del 12 marzo 1946).

L’estensione del diritto di voto fu, in realtà, una “mossa anticipata a sorpresa” mentre le donne si accingevano a una mobilitazione straordinaria indetta per il mese di febbraio, la c.d. “settimana per il voto”. La mobilitazione per il mese di febbraio era stata decisa nella riunione tenutasi a Roma il 25 ottobre 1944 e indetta dall’UDI. Vi parteciparono anche le rappresentanti del Comitato Femminile DC, del Gruppo Femminile del Partito Repubblicano, dei Centri Femminili dei Partiti Comunista, Socialista, d’Azione, Liberale, Sinistra Cristiana, Democrazia del lavoro e dell’Associazione “Pro Suffragio” della Federazione Italiana Laureate e Diplomate (FILDIS). In quell’occasione venne costituito il “Comitato Pro Voto” per “ottenere il riconoscimento del diritto della donna a occupare posti di responsabilità nelle Amministrazioni Pubbliche” e per “svolgere una vasta opera di propaganda e suscitare una larga corrente di appoggio per l’estensione del diritto di voto ed eleggibilità alla donna”, con l’impegno a formare analoghi comitati nelle province dell’Italia liberata.
Il 25 dicembre 1944 era, intanto, uscito a Roma, come supplemento de Il Popolo, il primo numero di Azione Femminile, organo nazionale del movimento femminile DC, con un articolo di fondo della direttrice Angela Maria Cingolani Guidi sulla partecipazione della donna alla vita politica e il messaggio di Alcide De Gasperi “alle democratiche cristiane”.
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Angela Maria Cingolani Guidi
L’interpretazione del ruolo femminile è quella di sempre. Per De Gasperi “bisogna fare della politica, non per uscire dalla famiglia, ma per difenderla e assicurare il suo avvenire”:
E la Cingolani Guidi di rimando ricorda che “la donna è la casa” e che “la casa è il mondo”, indicando in tali parole la sintesi dell’azione della donna nella famiglia e nella società, “tanto più riformatrice ed elevatrice, quanto più sarà serena, competente responsabile, con la visione limpida delle proprie possibilità”.
Certamente – continua - la donna orienterà la sua attività politica verso quegli uomini e quei partiti che le garantiranno l’integrità, la sanità, lo sviluppo delle famiglie, e che le permetteranno il pieno esercizio della propria missione educatrice. E proprio partendo dalla famiglia la donna si occuperà di problemi come il salario familiare, la limitazione e specializzazione del lavoro femminile e minorile, lo sviluppo delle piccole industrie, la creazione e conservazione della piccola proprietà della casa e della terra, la piena efficienza della previdenza. La donna, dunque, rivendica di essere la più adatta, con la immediatezza della sua visione dei problemi morali, sociali, politici, “a funzionare da chiarificatrice e rasserenatrice”, non solo della vita familiare, ma anche della vita politica italiana:

In casa comunista, a giugno, si tiene, a Roma, il I Congresso Nazionale delle Donne Comuniste di Roma. Per Togliatti, intervenuto all’assise, la emancipazione della donna non è e non può essere problema di un solo partito e nemmeno di una sola classe. Esso interessa tutte le donne, “fatta eccezione, s’intende, di quei piccoli gruppi legati per motivi di interesse alle caste dirigenti privilegiate responsabili della rovina in cui ci troviamo e che non vogliono che il popolo rinnovi l’Italia secondo le sue aspirazioni". L’obiettivo è, dunque, di “realizzare la unità di tutte le donne italiane, considerate nel loro complesso come una massa che ha interessi comuni, perché è tutta interessata alla propria emancipazione, alla profonda trasformazione delle proprie condizioni, di esistenza e quindi a quel rinnovamento di tutto il paese senza cui questa trasformazione non è possibile”. Di qui l’esortazione alle comuniste a rivendicare tutti i diritti delle donne e a lottare per la completa parità con gli uomini, a fare del diritto di voto un importante strumento di emancipazione:

Intanto le donne cominciano ad entrare negli spazi istituzionali di quella che poi sarà la Repubblica Italiana. Quando il 25 settembre 1945 il Parlamento si riapre per ospitare la Consulta Nazionale composta da esponenti dell’antifascismo designati dai partiti politici, per la prima volta tra i 430 membri del prestigioso organismo vi sono anche 13 donne, tra cui importanti figure dell’antifascismo.
E proprio alla Consulta Nazionale si registra il primo intervento di una donna ad una assemblea rappresentativa politica italiana. Il discorso, tenuto dalla Cingolani, responsabile del Movimento Femminile DC, mette subito in evidenza l’insoddisfazione per gli spazi politici lasciati alle donne: “Colleghi consultori, nel vostro applauso ravviso un saluto per la donna che per la prima volta parla in quest’aula. Non un applauso dunque per la mia persona, ma per me quale rappresentante delle donne italiane che ora, per la prima volta, partecipano alla vita politica del Paese. […] Parole gentili, molte ne abbiamo intese nei nostri riguardi, ma le prove concrete di fiducia in pubblici uffici non sono molte in verità. Qualche assessore […] una vice sindaco come la nostra di Alessandria e qualche altro incarico assai, assai sporadico: eppure nel campo del lavoro, della previdenza, della maternità e infanzia, della assistenza in genere e in quella post-bellica in specie, ci sarebbe stato modo di provare la nostra maturità e capacità di realizzatrici”.
Ma le donne italiane avrebbero dovuto attendere ancora molto tempo per provare questa “maturità e capacità di realizzatrici”, mentre, a breve, con l’Assemblea Costituente, esse avrebbero avuto una importante occasione per dare il proprio contributo alla costruzione del nuovo Stato.




BIBLIOGRAFIA
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