La sera del 28 febbraio 1953 quattro dignitari condividono un pasto con il dittatore nella sua dacia di Kuntsevo, nei pressi di Mosca. Ma l’indomani, non vedendolo comparire, nessuno osa (o vuole) muoversi...
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Stalin, un’agonia ben orchestrata
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Negli ultimi anni della sua vita Stalin non si trattiene più a lungo al Kremlino. Dopo aver firmato la posta e ricevuto le visite, il dittatore si ritira nella sua dacia di Kuntsevo, in piena foresta, a un quarto d’ora di macchina dal centro di Mosca. Intorno alla villa, difesa da agenti della polizia, egli ama camminare e respirare l’odore dei pini. Non riuscendo a sopportare la solitudine dopo il suicidio della seconda moglie, egli invita spesso tre o quattro collaboratori a cene interminabili, copiosamente innaffiate da vodka.
Il cardiologo Vinogradov, che lo ha in cura da 15 anni, ha consigliato a Stalin uno stile di vita più sobrio e di smettere di fumare. Ma il paziente non ama ricevere ordini; ha paura della morte e rifiuta di assumere medicine, temendo di essere avvelenato.
Eterno paranoico, Stalin incarica la polizia segreta di accertarsi se i medici che hanno in cura i principali dignitari del Partito non abbiano fomentato un complotto. Il 13 gennaio 1953, la Pravda (Verità) denuncia gli “assassini in camice bianco”, dei professori di medicina, ebrei per la maggior parte, che si sospettano essere agli ordini dei servizi segreti inglesi o americani e di una organizzazione sionista, la Joint, infiltrata, secondo le voci che circolano, persino nei più alti ranghi del Partito. Non passa un giorno che i giornali non denuncino un nuovo scandalo e nuovi arresti. Si mormora che alcuni giovani ufficiali non sarebbero usciti vivi da certi ospedali. Le infermiere sembra sappiano che all’interno avvengono cose poco chiare, ma non osano aprire la bocca per paura dei medici ebrei. Il “processo degli assassini in camice bianco” viene fissato per il 5-7 marzo 1953; nessuno si fa illusioni sulla inevitabile conclusione, e vengono già date disposizioni per effettuare le esecuzioni per l’11-12 marzo seguenti.
Anche i principali dignitari del partito si sentono minacciati. Viasheslav Molotov perché sua moglie è ebrea, Nikita Krushev a proposito delle vicissitudini del Partito in Ucraina, Laurenti Beria per alcune negligenze nella gestione dei servizi segreti. Stalin non risparmia neanche i suoi più stretti collaboratori. Egli destituisce il fedele segretario, Poskrebyshev, dopo aver fatto fucilare sua moglie, ebrea. Fa inoltre arrestare il capo delle sue guardie del corpo, il generale Nikolai Vlassik, sospettato di aver “favorito i medici avvelenatori”. Promette la vita salva al suo medico, Vinogradov, “a condizione di riconoscere apertamente i suoi crimini e di smascherare completamente tutti i suoi complici”, ma riesce a farlo confessare solo dopo averlo fatto picchiare.
Il 26 febbraio 1953, verso le 11 di sera, quattro invitati arrivano alla dacia di Stalin: Georghi Malenkov, Nikolai Bulganin), Nikita Krushev e Laurenti Beria. Discutono con il dittatore, mangiano dei toast, ma si sentono tutti in difficoltà. Verso le 4 del mattino Stalin va a dormire e i quattro invitati si congedano. Beria, da qualche giorno è riuscito a fare allontanare la guardia del corpo più vicina a Stalin, Alexei Rybin, facendolo nominare Capo della guardia del Teatro Bolshoi e a farlo rimpiazzare con uno dei suoi, Krustalev.
Il 1° marzo 1953, Stalin, che normalmente si alza intorno alle ore 11, non dà alcun segno di vita. Nessuno, tuttavia, è autorizzato a entrare nel suo appartamento senza un ordine specifico. Il tempo passa, mezzogiorno, le due, le sei, le dieci. I domestici e le guardie del corpo si preoccupano, anche perché in tutte le stanze, i saloni e i bagni sono stati installati dei telefoni affinché possa comandare il tè, la posta e i giornali e Stalin non li ha ancora utilizzati. Questo sistema telefonico è completato da un sistema d’allarme, ogni stanza risulta equipaggiata da sensori nascosti nelle tende e nelle porte, in modo che le guardie possano seguire tutte gli ingressi e le uscite, e nessuno di questi sensori ha segnalato il minimo movimento.
Verso le 11 di sera, dopo molte esitazioni, il capo delle guardie del corpo della dacia, Starostin, si fa coraggio e prendendo a pretesto l’arrivo di un dispaccio del Comitato Centrale, si arrischia a bussare alla porta del capo. Nessuna risposta. A questo punto egli entra e scopre Stalin steso a terra, in pigiama, con gli occhi perduti nel vuoto, incapace di articolare parola.
Nella dacia non ci sono né medici, né infermieri. Ma invece di chiamare un medico, come chiedono i domestici, Starostin giudica più prudente avvertire Ignatiev, il Ministro della Sicurezza, suo diretto superiore. Questi, prende a sua volta una precauzione. Invece di avvertire Beria, avvisa Krushev e Bulganin e li accompagna al corpo di guardia della dacia, dove Starostin spiega loro la situazione. Ignatiev li fa giurare di serbare il segreto assoluto. Verso mezzanotte, essi se ne vanno senza neanche entrare nell’appartamento di Stalin. Grazie a questo vantaggio su Beria, Bulganin, ministro della Difesa, adotta qualche provvedimento: fa avvicinare discretamente al Kremlino qualche battaglione di cui si fida e il suo amico Krushev fa emanare gli ordini per far cessare immediatamente la campagna di stampa antisemita, cosa che gli varrà il favore di Molotov.
Ignatiev può a quel punto avvertire Malenkov. Questi, a sua volta, parte alla ricerca di Beria, il suo mentore, e finisce per trovarlo verso le 3 del mattino. Beria e Malenkov si fanno allora portare nella stanza di Stalin. Malenkov, per non rischiare di svegliare il gran capo, si toglie i suoi nuovi stivali che scricchiolano sul parquet. Davanti al corpo inerte di Stalin, Beria si rivolge verso le guardie del corpo: “Logzashev perché avete paura ? Voi potete ben vedere che il compagno Stalin dorme profondamente! Non disturbatelo e smettete di allarmarci”.
Beria si dirige allora al Kremlino nell’ufficio di Stalin, senza dubbio per far sparire qualche documento compromettente. Sono le 7 del mattino del 2 marzo quando finalmente chiama Tretyakov, ministro della Sanità, per chiedergli dei medici. Due ore più tardi, quindi alle ore 9 del 2 marzo 1953, Beria e Malenkov ritornano alla dacia, seguiti da Bulganin e da Krushev, quindi da Tetryakov, accompagnato da quattro dottori. Per evitare qualsiasi imbarazzo in occasione della pubblicazione del bollettino medico, Beria gli racconta che Stalin ha appena avuto un attacco. In realtà è rimasto per ben 14 ore senza alcuna cura.
I medici diagnosticano una emorragia cerebrale. Se allertati il giorno prima, avrebbero potuto prolungare l’agonia di qualche giorno, ma non certamente salvare il malato. Essi chiedono di vedere la cartella medica, ma non si riesce a trovare nulla sia nella dacia, sia nel suo ufficio al Kremlino. Gli vengono applicate delle ventose, praticate iniezioni, vengono effettuati elettrocardiogrammi e radiografie, mentre si fa arrivare uno stimolatore cardiaco.
Beria, dopo aver ricoperto di ingiurie i medici, al colmo dell’eccitazione si mette a schernire Stalin, ma questi apre un occhio e sembra puntare il dito verso di lui. Terrorizzato, Beria si inginocchia, prende la mano del dittatore e la bacia, quindi il morente si mette a vomitare sangue, come dopo un avvelenamento.
I quattro dignitari lasciano i medici al capezzale del malato e rientrano al Kremlino. Devono gestire la spartizione del potere. Il clan Bulganin-Krushev riesce a trovare un compromesso con il clan Beria-Malenkov. Malenkov, che Beria si immagina di poter manovrare, diventerà Presidente del Consiglio dei Ministri, assistito da quattro vice presidenti: Molotov, Bulganin, Kaganovic e Beria, che allargherà la sua autorità sulla polizia. Krushev, da parte sua, diventerà Segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica.
Resta il fatto di dover far digerire al Comitato Centrale, al consiglio dei Ministri e al Presidium del Soviet Supremo la nuova organizzazione del potere. Il 5 marzo 1953 la successione di Stalin viene approvata all’unanimità, senza dibattito.
Malenkov, Beria, Bulganin, Krushev, accompagnati questa volta da Molotov e da Voroshilov, possono ritornare al capezzale del morente. Alla dacia, essi ritrovano, oltre ai medici, Svetlana e Vassili, i figli di Stalin, come anche Istamina, la sua donna di camera, che appare come la più affranta.
Il 6 marzo un bollettino ufficiale annuncia il decesso di Stalin, attribuito a una emorragia cerebrale conseguenza dell’ipertensione, che ha comportato la paralisi, la perdita della parola e della coscienza. Un secondo attacco avrebbe poi toccato i polmoni e il cuore. Curiosamente, il bollettino passa sotto silenzio i vomiti di sangue.
Il 9 marzo, sulla Piazza Rossa, una immensa folla sfila per salutare il feretro aperto dove riposa il dittatore. Nella calca, diverse centinaia di uomini e soprattutto donne, muoiono soffocate o calpestate, come nel giorno dell’incoronazione dello zar Nicola II Romanov. Lo steso giorno Polina Molotov esce di prigione, seguita ben presto da tutti i medici implicati nel complotto dei camici bianchi.
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BIBLIOGRAFIA
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J. Rapoport, Il complotto dei camici bianchi - Gentili, Milano 1990
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Il figlio di Mikoyan “Così morì Stalin”, “Repubblica”, 23 febbraio 1988
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R. Conquest, Stalin. La rivoluzione, il terrore, la guerra - Mondadori, Milano 2003
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Z.A. Medvedev e R.A. Medvedev, Stalin sconosciuto, alla luce degli archivi segreti sovietici – Feltrinelli, Milano 2006
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