Esecuzioni sommarie, infoibamenti, stragi di civili, campi di concentramento e di sterminio: così, durante la seconda guerra mondiale, gli ustascia di Ante Pavelic misero in atto la pulizia etnica nei confronti di serbi, ebrei e rom. Con il fondamentale supporto di esponenti locali della chiesa cattolica.
Genocidio in Croazia
di MICHELE STRAZZA
Forse non tutti sanno che il più grande genocidio della seconda guerra mondiale, in rapporto alla popolazione di una nazione, non ebbe luogo per mano dei nazisti ma si verificò nello Stato “fantoccio” della Croazia ad opera degli “ustascia”. Vi perirono, tra il 1941 e il 1945, ben 750.000 serbi, 60.000 ebrei e circa 26.000 rom.

Il 6 aprile 1941 le forze dell'Asse misero in atto la cosiddetta "Operazione castigo" contro il Regno di Iugoslavia. A loro si accodarono anche gli Ungheresi e i Bulgari. Il 17 aprile il comando militare iugoslavo si arrese e gli eserciti tedesco e italiano poterono così dedicarsi ad occupare la Grecia.
Dopo il 18 aprile il territorio fu diviso tra Germania, Italia, Bulgaria, Ungheria e Albania. La Croazia venne elevata a Stato indipendente con la corona affidata al principe di Spoleto, Aimone di Savoia, figlio del duca d’Aosta Emanuele Filiberto e nipote di Vittorio Emanuele III. Quest’ultimo, in realtà, non volle mai cingere la corona, rimanendo a Roma, per cui il potere fu sempre nelle mani di Ante Pavelic, capo degli ustascia.
Fortemente voluta da Hitler e Mussolini, la nuova compagine nazionale croata, formata grosso modo dalla Croazia e dalla Bosnia Erzegovina, contava al suo interno oltre sei milioni di abitanti, dei quali ben tre milioni e mezzo erano croati, 2.200.000 serbi, 800.000 musulmani, più altre minoranze tra cui alcune decine di migliaia ebrei.

Lo Stato Indipendente Croato (“Nezavisna Drzava Hrvatska”), governato da Ante Pavelic, perseguiva l’obiettivo dello sterminio delle minoranze non croate, adottando
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Adolf Hitler incontra Ante Pavelic nel 1941
metodi derivati dal nazismo e dal fascismo. La violenza e il terrore furono gli strumenti utilizzati dai nazionalisti croati, gli ustascia, per la creazione di uno Stato croato etnicamente puro.
Il costante richiamo alla religione cattolica e al ruolo della Chiesa ebbe, poi, il significato di una profonda copertura ideologica, portando molti esponenti del clero locale ad appoggiare e, addirittura, a sostenere lo sterminio di serbi, musulmani ed ebrei. Pensiamo, ad esempio, al sostegno dato al regime ustascia da parte dell’arcivescovo di Zagabria, monsignor Alojzije Viktor Stepinac, dell’arcivescovo di Sarajevo, monsignor Ivan Saric, e dal vescovo di Banja Luka, monsignor Jozo Garic.
Preceduta da una politica di conversione forzata al cattolicesimo, venne messa in atto una organizzata opera di sterminio di massa, con uccisioni e reclusione in campi di concentramento e di sterminio. Migliaia di serbo-ortodossi vennero gettati, spesso vivi, nelle cavità carsiche, o uccisi nelle forme più atroci.
Come anticipato, alle violenze spesso parteciparono anche frati e preti cattolici. Alcuni francescani furono in prima fila nell’appoggiare le scorrerie ustascia. Un francescano del monastero di Siroki Brijeg, tal Berto Dragicevic, era addirittura uno dei comandanti della milizia ustascia della regione e venne anche decorato per le sue azioni.
Persino i cappellani militari dei reparti ustascia, facenti capo, secondo la gerarchia ecclesiastica, al primate croato Stepinac, partecipavano direttamente alle azioni.

Già alla fine di aprile del 1941 si registrarono le prime stragi, cui non scamparono donne e bambini. Nel distretto di Bjelovar 250 tra uomini e donne, dopo essere stati costretti a scavare una lunga trincea, vi vennero sepolti vivi. Il 30 aprile, presso Kosinj, furono massacrati 600 serbi, tra cui molte donne e bambini. L’8 maggio un’ordinanza di Eugen Kvaternik-Dido, capo della polizia di Zagabria, preparò la deportazione di massa di serbi ed ebrei che, cacciati dalla città, vennero trucidati dagli ustascia o chiusi nei campi di concentramento in via di allestimento.
Il 14 maggio vennero massacrati i 700 abitanti di origine serba di Glina. L’eccidio fu organizzato dal ministro ustascia Mirko Puk, originario del villaggio, e dal frate francescano Ermenegildo, padre guardiano del monastero di Cuntic.
Alla fine di luglio 3.000 serbi furono uccisi nei villaggi di Krnjac, Krotinje, Siroka Reka, Rakovic. Ad agosto oltre 500, tra donne e bambini, vennero catturati e buttati nei crepacci del monte Tusnica. A Celebic 80 donne e bambini furono trucidati nella scuola comunale.
Il 20 agosto dello stesso anno, presso la foresta di Koprivnica, furono violentate donne e fanciulle, mentre i bambini vennero impalati e i vecchi accecati e squartati. E si continuò così anche negli anni successivi.
A luglio, intanto, Eugen Kvaternik-Dido, capo della polizia di Zagabria, era stato ricevuto in Vaticano insieme a 100 agenti ustascia in divisa. Il mese precedente il dirigente croato aveva fatto saltare con la dinamite la cattedrale ortodossa di Bihac e fatto massacrare, fra serbi ed ebrei, circa 2.000 persone.
Insieme alla popolazione serba gli ustascia provvidero pure all’eliminazione diretta del clero serbo-otodosso con la distruzione delle loro chiese e l’appropriazione dei loro beni, molti dei quali trasferiti alle diocesi cattoliche.
Non sfuggirono neppure gli alti prelati. Vennero distrutte 299 chiese, uccisi sei vescovi e 222 religiosi. Il vescovo ortodosso di Zagabria, monsignor Antonij Dosirej, fu ucciso dopo atroci torture e il suo cadavere, privato degli organi genitali, conficcato su un palo. Il vescovo di Debar, nonostante i suoi 80 anni, fu arrestato e internato nel campo di sterminio di Jasenovac dove morì sgozzato. Anche gli altri vennero trucidati dopo atroci sofferenze.

Alla fine di aprile del 1941 furono attivati i primi campi di concentramento, dapprima
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Monsignor Stepinac
destinati all’internamento di elementi nemici e comunisti. Solo il 23 novembre dello stesso anno, però, la loro istituzione venne formalizzata con la dizione di “Campi di internamento e di lavoro”.
I campi in totale furono 22 ma solo quello Jasenovic e quello di Stara Gradiska restarono attivi fino al 1945, gran parte degli altri, invece, funzionarono anche per poco tempo.
Il primo campo ad entrare in funzione fu quello di Danica, nei pressi della città di Koprivnica. Usato come centro di smistamento e di eliminazioni di massa, a luglio raggiunse i 7.000 internati. Nello stesso mese venne chiuso.
Tristemente famoso anche il campo di sterminio di Jadovno, alle pendici dei monti Velebit e a circa 20 chilometri da Gospic, dove vi erano solo due baracche, una per il comando e l’altra per i guardiani. I prigionieri, invece, dormivano a terra. Ma il loro destino era segnato: a gruppi di 3-400 venivano condotti presso un dirupo vicino. Qui, dopo essere stati sgozzati o colpiti con mazze di ferro, venivano fatti precipitare nel burrone.
Dalla fine di maggio alla fine di agosto i cadaveri sepolti nella “Fossa di Saranova” superarono i 10.000, per cui i responsabili del campo ricorsero all’utilizzo di un altro dirupo, la “Fossa di Grgin Brijeg”. Prima della chiusura definitiva, alla fine di agosto, erano state trucidate, secondo alcune fonti, dalle 35.000 alle 75.000 persone.

Altri due campi sorsero nell’isola di Pag. In quello di Slana, entrato in funzione a giugno, erano reclusi ebrei e serbi. Molti prigionieri furono uccisi e i corpi gettati in mare. In meno di due mesi i decessi furono circa 10.000.
Quando, il 20 agosto, le truppe italiane presero possesso dell’isola trovarono vere e proprie montagne di cadaveri accatastati. Molti erano bambini.
Non molto lontano da questa località vi era un campo per accogliere donne e bambini. A Metajna, infatti, giunsero molte donne ebree e serbe. Tra queste ultime, quelle più giovani venivano metodicamente stuprate dalle guardie ustascia.
Un altro campo sorse, alla fine di agosto del 1941, a Jasenovac, a un centinaio di chilometri da Zagabria. Qui le vittime erano destinate alla soppressione dopo essere passate attraverso tortura, fame e malattie.
Il campo era costituito da una serie di baracche di legno realizzate sui pali poiché il terreno era umido per la vicinanza al fiume Sava. Per l’insalubrità dell’aria, la fame e le malattie, ma soprattutto per le esecuzioni, tra il 1941 e il 1942 morirono, secondo lo storico Edmond Paris, 200.000 prigionieri. Molti bambini ebrei venivano bruciati vivi nei vecchi forni di mattoni, trasformati in crematori.
Nel complesso concentrazionario di Jasenovac persero sicuramente la vita decine di migliaia di ebrei, serbi e rom, in un intrico di storie e vicende solo in parte esaminate. Esso funzionò fino all’aprile del 1945.
Nell’autunno del 1942 fu nominato comandante del lager di Jasenovac un religioso, il francescano Miroslav Filipovic-Majstorovic, appartenente al monastero di Petricevac, nei pressi di Banja Luka. L’incarico venne conferito per i suoi alti meriti nella lotta ai nemici del regime. Egli aveva diretto, infatti, come comandante di una brigata delle “Guardie del corpo” di Pavelic, i massacri di oltre 4.800 serbi, nella zona compresa tra Banja Luka e Motika.
Nei quattro mesi circa in cui il francescano (soprannominato “Frate Satana” per la sua spietatezza) diresse il campo di sterminio di Jasenovac morirono non meno di 40.000 persone come egli stesso ammise al termine del processo cui venne sottoposto dopo la guerra, conclusosi con la sua impiccagione.
Il francescano non fu il solo religioso ad operare in un campo di concentramento. Solo nel 1943, di fronte a tante nefandezze, l’arcivescovo Stepinac fu costretto a sospendere a divinis Miroslav Filipovic.

Alla fine della guerra molti colpevoli di questo orrendo genocidio sfuggirono alla giusta punizione. Si diedero infatti alla fuga, prima dell’arrivo dei partigiani di Tito, Ante Pavelic, gli esponenti del suo governo e molti gerarchi ustascia, nonché l’arcivescovo di Sarajevo, il vescovo di Banja Luka, oltre a 500 sacerdoti e religiosi collusi con il regime. Molti di essi, compreso Pavelic, grazie all’azione del Vaticano, vennero sottratti alla giustizia e si rifugiarono in Spagna e in America Latina.
Non fuggì, invece, l’arcivescovo Stepinac. L’11 ottobre 1946 il prelato, processato come collaborazionista, venne condannato a 16 anni di lavori forzati e alla perdita dei diritti civili per 5 anni. Trasferito nella prigione di Lopoglava, venne esentato dai lavori.
Dopo aver trascorso in carcere solo 5 anni fu sottoposto a domicilio coatto nella sua cittadina d’origine, a Krasic. Il 12 gennaio del 1953 fu elevato alla dignità cardinalizia da Pio XII come “esempio di zelo apostolico e di fermezza cristiana”. Morì il 10 febbraio 1960, all’età di 62 anni, e fu sepolto dietro l’altare maggiore della cattedrale di Zagabria. Il 3 ottobre 1998 il cardinale Stepinac venne beatificato da Giovanni Paolo II come perseguitato dal regime di Tito.
BIBLIOGRAFIA
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  • www.jasenovac.org