Oltre 600.000 furono i soldati italiani rinchiusi nei campi di prigionia francesi, inglesi, americani e russi. Le condizioni di vita peggiori si registrarono in Unione Sovietica e in Tunisia. In tutti i campi i prigionieri furono sfruttati come manodopera per i lavori più umili.
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I soldati italiani prigionieri degli Alleati
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Prima dell’8 settembre 1943 le sconfitte militari italiane in Africa, in Unione Sovietica e in Sicilia avevano prodotto un elevato numero di prigionieri. Vediamo, in sintesi, la loro dislocazione e le condizioni di vita nei vari campi.
La summa divisio è tra in militari catturati dagli Alleati occidentali e quelli in mano ai sovietici. Secondo Rochat i soldati catturati dagli Inglesi in Africa settentrionale e in Etiopia furono circa 400.000, quelli presi dagli Americani in Tunisia e in Sicilia 125.000. Infine, vi furono gli oltre 40.000 militari lasciati ai francesi in Tunisia. Centinaia i campi, che spaziarono dall’Inghilterra al Medio Oriente, dal Sudafrica all’India.
L’interesse degli Alleati per i prigionieri fu dovuta, innanzitutto, al loro utilizzo di manodopera a basso costo. Tant’è vero che, anche dopo l’armistizio, gli italiani, salvo alcuni gruppi di ufficiali, non vennero affatto liberati. L’unica conseguenza fu la richiesta rivolta loro di firmare una generica adesione alla guerra contro il nazi-fascismo e a diventare “cooperatori”, cioè leali collaboratori nel lavoro prestato.
Per il resto, non vi furono altre conseguenze. I prigionieri continuarono a lavorare nell’attesa della liberazione. Per quanto riguarda il numero dei “cooperatori”, la percentuale degli accettanti fu di circa i 2/3, con differenze variabili da campo a campo.
In genere le condizioni di vita nei campi furono piuttosto accettabili, ad eccezione di quelli francesi in Tunisia dove gli Italiani soffrirono la fame e vennero sottoposti al lavoro forzato e a vessazioni di ogni genere. Alla fine si contarono ben 3.000 decessi.
Un grosso contingente di militari italiani fu imprigionato in Kenya, dove gli Inglesi provvidero a trasferire la maggior parte delle truppe sconfitte dell’Africa Orientale Italiana (AOI), insieme al viceré Amedeo di Savoia, poi morto in prigionia, e al generale Guglielmo Nasi. Altri prigionieri vennero inviati nei campi del Sudan.
Secondo i dati forniti da quest’ultimo risultavano prigionieri, nell’estate del 1942, circa 70.000 italiani, fra cui 5.000 ufficiali e qualche migliaia di civili classificati come reclusi politici. Ad eccezione di Amedeo di Savoia, Nasi e pochi altri ufficiali, cui fu destinata una villa a Donyo Sabouk, gli ufficiali vennero divisi fra i campi di Eldoret e di Londiani, mentre soldati e sottufficiali vennero ripartiti nei campi di Nairobi, Burguret, Gil Gil, Naivasha, Ndarugu, Nakuru, Naniuki, Ginja, Mitubiri, con i loro distaccamenti di Kisumu, Kitale, Kajado, Longido.
La particolarità di questi campi fu che, almeno nella prima fase, le convinzioni fasciste perdurarono. Tanto che venivano addirittura organizzate squadre di punizione per i dissidenti.
Dopo l’8 settembre nei campi del Kenya nacquero nuovi contrasti tra i prigionieri, cioè tra chi divenne “badogliano” e chi preferì restare “fascista”. Di qui scontri e tumulti interni.
Secondo i dati forniti sempre dal generale Nasi questa era la situazione nei singoli campi: a Eldoret (3.500 prigionieri) tre quarti erano per il re e un quarto per Mussolini; a Londiani (3.500, in gran parte ufficiali), quattro quinti per il re, un quinto per Mussolini; a Nairobi (3.000) quasi tutti per la monarchia; a Naivasha (10.000) una piccola percentuale restò fascista; a Burguret (10.000) solo una cinquantina di militari si mantennero fedeli a Mussolini; a Gil Gil (3.500) avvenne il contrario, ben l’80% si dichiarò fascista; a Ndarugu (7.000) solo 350 fascisti, mentre a Mitubiri (3.500) 150 restarono fedeli a Mussolini.
Un altro campo importante era quello di Zonderwater, ubicato in Sud Africa, dove erano rinchiusi più di 70.000 militari italiani catturati dagli inglesi durante le prime campagne africane. Considerata una vera e propria “Città del prigioniero”, aveva al suo interno i più temibili tra i nostalgici fascisti.
Gli italiani detenuti nei campi inglesi, pur vivendo situazioni migliori di quelli internati in Germania, erano considerati solo come manodopera a basso costo. Denominati con l’appellativo dispregiativo di “Wops”, derivante dall’anagramma di “Pows” (“prigionieri di guerra”) e dalla trasposizione inglese del termine “guappo”, anche dopo l’8 settembre non migliorarono molto la propria condizione.
Le autorità britanniche, infatti, si guardarono bene dal reclutare militari italiani per inviarli a combattere i nazifascisti, continuando a trattenerli per sfruttarli soprattutto nei lavori agricoli, dove erano considerati molto più affidabili degli altri prigionieri.
Del resto il governo italiano non si interessò molto alla loro condizione e, anche nel dopoguerra, continuò a considerarli “merce di scambio” per accreditarsi presso gli Alleati, paventando il momento del loro rientro in Patria per le conseguenti problematiche di reinserimento lavorativo.
I militari italiani, inoltre, erano considerati con disprezzo e diffidenza dalla popolazione civile specialmente a causa delle relazioni che essi intrattenevano con le donne inglesi e sulle quali il governo di Sua Maestà fu tutt’altro che accondiscendente. Furono molte, infatti, le ragazze che, in stato di attesa, non poterono neanche ricorrere a eventuali “matrimoni riparatori” per l’opposizione delle autorità.
Sui prigionieri internati negli Stati Uniti, invece, vi è da precisare che molti di essi vennero ceduti agli americani dagli inglesi e francesi, in violazione della Convenzione di Ginevra che vietava il passaggio di prigionieri da una nazione alleata all’altra.
Le condizioni di questi militari italiani furono naturalmente molto diverse da quelli detenuti negli altri campi, tant’è che molti di loro conservarono un buon ricordo di quella esperienza. La prima fondamentale differenza fu sicuramente l’abbondanza di cibo. Da ricordi e testimonianze appare, infatti, che i militari venivano riforniti di cibo e di ogni conforto, dalle scarpe al sapone, dalla schiuma da barba fino al dentifricio, dagli indumenti alle sigarette, senza dimenticare coca-cola e dolciumi. Addirittura non mancarono casi in cui, invece di aspettare pacchi da casa, erano i prigionieri stessi a mandare aiuti ai propri cari in Italia.
Certo, non furono solo rose e fiori. In alcuni campi, come quello di Hereford, le condizioni di detenzione furono durissime per i “non cooperatori”. Fascisti e oppositori vennero trattati malissimo.
Non mancarono episodi di affamamento e di violenza, come quello verificatosi a Fort Lawton dove un militare italiano venne linciato dai soldati neri della base che ritenevano il proprio trattamento peggiore di quello riservato agli Italiani.
Le autorità statunitensi, inoltre, applicarono le normative internazionali a proprio uso e consumo. Tant’è che quando dopo l’armistizio il nostro Paese assunse la qualifica di “cobelligerante”, gli Italiani, invece di essere rimandati in patria, continuarono a lavorare per gli Americani come manodopera a basso costo. Del resto lo stesso governo italiano aveva altro cui pensare e si dimenticò dei propri soltati detenuti oltreoceano.
Sui militari prigionieri in Russia ci furono forti difficoltà per stimarne il numero. Da varie fonti si parla di 50.000 soldati rinchiusi nei campi sovietici di cui 27.000 morti. Furono circa 200.000 i soldati italiani partiti per la campagna russa: 11.872 morirono in azioni di guerra mentre i dispersi ammontarono a 70.275.
Dall’apertura degli archivi sovietici negli anni ’90 la ricerca ha tratto nuova linfa ed è stata anche redatta una mappa di cimiteri e fosse comuni con luoghi e cifre: Tambov (6.846 militari italiani), Kirov (1.136), Saratov (1.084), Ivanovo (922), Vladimir (928), Gorki (520) e Odessa (429).
Della condizione dei militari italiani in mano russa v’è da dire che essa fu alquanto difficile. Cibo scarso ed alloggiamenti adeguati sono una costante nel ricordo dei reduci. Ma la caratteristica fondamentale dei campi sovietici fu la pressante e pesante opera di indottrinamento cui i prigionieri furono sottoposti con l’intento di “rieducarli” politicamente.
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