Nel
1942 gli squadroni di cavalleggeri piombarono sui reparti sovietici
affrontando il fuoco di parabellum e cannoni. Erano armati di sciabole. Ma
vinsero
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IL MITO DI
ISBUSCENSKIJ: L'ULTIMA CARICA DEL SAVOIA
CAVALLERIA
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Nell'estate del 1942 i territori sotto
l'occupazione delle truppe dell'Asse raggiungevano la massima espansione. Dopo
due anni di guerra il potenziale bellico italo-tedesco era ormai logoro, ma,
fatta eccezione per le alte sfere, il conflitto sembrava alla conclusione. Nel
Mediterraneo le difese di Malta erano ridotte allo stremo, nel deserto libico
Rommel era a 80 km da Alessandria. Perfino lo sconfinato fronte orientale, dal
Baltico alla Crimea, sembrava incapace di contenere l'impeto delle armate
nazifasciste. L'accanita resistenza sovietica veniva vanificata dalla
superiorità dei moderni cingolati tedeschi, e al mal equipaggiato corpo di
spedizione italiano non toccava che arrancare faticosamente dietro i passi
veloci dell'alleato. Spettò però all'ARMIR chiudere la grande epopea del
combattimento a cavallo quando nel mese di Agosto, presso Isbuscenskij, a pochi
chilometri dal Don, le 650 sciabole del Savoia Cavalleria affrontarono,
mettendoli in fuga, i cannoni e i parabellum di 2000 siberiani. Sull'immediato
la vittoria impedì all'Armata Rossa di rovesciarsi come un fiume in piena sulla
fanteria italiana in rotta, salvando la vita a centinaia di sbandati.
Soprattutto il gesto diede onore a un'arma ormai considerata obsoleta, pur
godendo del prestigio di una tradizione millenaria. Gli Italiani, furono
informati dei fatti di Isbuscenskij solo alcuni giorni dopo, quando la notizia
fu ripresa dalla stampa e immortalata dal famoso disegnatore Achille Beltrame
sulla prima pagina della Domenica del Corriere. I bollettini, che di
giorno in giorno tenevano la popolazione al corrente dell'andamento della
guerra, non facevano infatti cenno al fronte russo, poiché le unità impegnate
della steppa erano considerate alle dipendenze dei tedeschi. A dare ulteriore
risalto all'impresa del Savoia fu una troupe del Film Luce, giunta a
Papoff, dove nel frattempo si era acquartierato il Reggimento, il 6
ottobre. I filmati che ci sono pervenuti della leggendaria carica furono in
realtà il risultato di riprese ottenute in quei giorni facendo sfilare alcuni
cavalieri, che fra l'altro vi si prestarono malvolentieri nel più che fondato
timore di sfiancare ulteriormente i già provati destrieri. La storia del Savoia
cavalleria in Russia era iniziata nel 1941 quando Mussolini, saputo dell'attacco
sferrato dal Reich all'Unione Sovietica, aveva inviato alcune unità per poter
ottenere un posto intorno al tavolo dei vincitori. Il Corpo di Spedizione
Italiano in Russia (CSIR), era costituito da due divisioni di fanteria, la
Pasubio e la Torino, e una divisione Celere. Quest'ultima comprendeva due
reggimenti di cavalleria, il Savoia e i Lancieri di Novara, reparti di
Bersaglieri e di Camicie Nere (CCNN ). Il Savoia, che al momento si trovava a
Lonigo di ritorno dalla Jugoslavia, ricevette le nuove disposizioni come un
fulmine a ciel sereno. I più pensavano al congedo ormai prossimo, non certo a un
altro anno, che poi sarebbero stati due, di guerra. Il comandante del
Reggimento, colonnello Weiss Poccetti, militare di carriera di non celate
simpatie fasciste, salutò il nuovo corso degli eventi con un discorso
marcatamente ispirato a quelli del Duce. Un'arringa terminata con "Se avanzo
seguitemi, se indietreggio uccidetemi" che strideva con la fede sinceramente
monarchica dei suoi uomini. La partenza avvenne fra il 20 e il 23 luglio, dalla
stazione ferroviaria di Tavernelle Altavilla, fra Lonigo e Vicenza. Il CSIR era
diretto verso Jampol, sul Dniestr, dove sarebbe andato a costituire la riserva
dell'XI armata di von Schubert. Più fortunati furono il secondo squadrone e il
comando, che arrivarono direttamente a Botosani, in Romania. Le tradotte che
trasportavano gli uomini del primo, del terzo e del quarto squadrone si
fermarono invece a Borsa, in Ungheria, e costoro dovettero attraversare i
Carpazi per congiungersi con il resto del Reggimento. I primi di tanti
problemi logistici che avrebbero tormentato le truppe dell'Asse, e in special
modo i reparti italiani, per l'intera campagna. L'11 agosto le prime unità del
CSIR entrano in contatto con il nemico. Il 15 agosto il corpo di spedizione
passa alle dipendenze dell'armata di von Kleist. La rapidità dell'avanzata
tedesca è tale da non lasciare neppure il tempo di seppellire i cadaveri. Ai
cavalieri, che non hanno ancora
combattuto,
da' l'impressione di una passeggiata trionfante prossima alla conclusione. A
settembre il Reggimento, mentre i tedeschi preparano la campagna su Kiev e il
mar d'Azov, raggiunge il Dnepr. Il capoluogo sovietico sarebbe caduto di lì a
poco con una manovra a tenaglia che, coinvolgendo le armate di von Kleist e
Guderian, avrebbe portato alla resa 500.000 sovietici. Negli stessi giorni il
CSIR fu impiegato per la prima volta al completo e autonomamente nei dintorni di
Dnepropetwosk, strenuamente difesa dai russi. Al Savoia Cavalleria spetta il
compito di perlustrare 10 km di fiume fra Auly e Romanocovo. Gli squadroni,
appiedati, si stabiliscono in trincea per la prima volta sotto il fitto fuoco
dell'artiglieria russa. Il morale dell'Armata Rossa è basso, i disertori
attraversano nottetempo il fiume, largo dagli 800 ai 1500 metri, per consegnarsi
nelle mani del nemico. Presa Kiev, i tedeschi iniziano l'offensiva contro
Dnepropetrowsk, ma i russi iniziano a fare terra bruciata dietro di loro e
nell'avanzata rimane in piedi solo Alessandropoli. Anche la popolazione locale,
che in Ucraina aveva accolto gli occupanti come liberatori, inizia a dimostrarsi
ostile. Si organizzano le prime unità partigiane, ma l'odio è principalmente
rivolto verso i tedeschi. Gli italiani, al contrario, riescono a conquistare la
fiducia, soprattutto dei contadini. Il nuovo obiettivo sono il mar d'Azov e
Rostov. L'avanzata prosegue, ma ora anche il Savoia si trova impegnato negli
scontri. Il 17 ottobre il Reggimento si guadagna la prima illustrazione di
Beltrame inseguendo i russi in fuga verso il bacino minerario di Stalino. La
battaglia sul fiume Y, presso Konstantinopol, ha inizio quando la cavalleria
cerca di guadagnare l'altra sponda del fiume sfruttando un guado. L'avanguardia
viene letteralmente falciata dalle mitragliatrici nemiche. Il tenente Vannetti
ordina la carica e assale sul fianco le trincee sovietiche. Nel mentre il
sottotenente Gotta cerca di passare un ponte più a monte, ma i russi se ne
accorgono e lo fanno esplodere. Dopo un furioso combattimento gli uomini
dell'Armata Rossa cedono il passo. Più di 30 vengono fatti prigionieri, il loro
comandante cade in combattimento. Vannetti, che nel frattempo ha conquistato la
fiducia dei suoi uomini, descriverà in una lettera al padre, generale in
congedo, i dettagli dell'operazione. Nemico ben più arduo sono i campi minati,
per i quali durante la pausa invernale il comando italiano deciderà di
addestrare reparti speciali di sminatori. La Celere espugna Massimilianowka, poi
Stalino. La divisione italiana viene mandata avanti lungo il bacino del Donez. I
russi continuano a fuggire con la stessa strategia della terra bruciata che
permise loro, un secolo e mezzo addietro, di sfiancare la Grand Armèe. Il
Savoia riesce però a precederli a Panteleimonowka dove 20 uomini del terzo
squadrone del tenente Andolfato riescono a occupare il centro abitato e tenerlo
per tutta la notte in attesa dei rinforzi. Il colonnello Poccetti, tacciato di
vigliaccheria dai suoi stessi uomini, viene sostituito senza rimpianti dal
tenente colonnello Bettoni. Ottimo cavallerizzo, Bettoni si era portato fino al
fronte Sanvito, eccellente cavallo da corsa cui teneva più di ogni altra
cosa. I giorni si susseguono freneticamente. Gorlowka, Davida Orlowa,
Awdiewka. I nomi di capoluoghi e centri minori occupati sembrano interminabili,
ma ora i russi hanno dalla loro anche il freddo dell'inverno. La notte la
temperatura scende fino a 30, 33 gradi sotto lo zero, ma le avverse condizioni
climatiche sembrano favorire l'impiego della cavalleria. Il 27 novembre i russi
perdono Rostov e agli uomini del Savoia, che con gli altri reparti della Celere
ha impedito ai russi lo sfondamento, il rientro in patria sembra più lontano. Il
nuovo comandante del Reggimento è ora il colonnello Guglielmo Barbò, conte di
Casalmorano. Tattico, quasi ossessionato dallo studio dei piani di battaglia a
tavolino, questi aveva preso parte, nella prima guerra mondiale, all'altrettanto
leggendaria carica di S. Foca. A partire dagli ultimi giorni di dicembre il
Savoia è di stanza ad Awdiewka e vi rimarrà fino al ritorno della bella stagione
e delle operazioni. La popolazione è ospitale e sia fra i soldati che fra gli
ufficiali c'è chi ha trovato il tempo per "familiarizzare" con le ragazze.
Nel frattempo il comando del CSIR
decide di staccare dalla Celere i reparti di cavalleria. Questi, che oltre al
Savoia comprendono i Lancieri di Novara, vengono riuniti nel RAC (
Raggruppamento Autonomo Cavalleria ), affidato a Barbò, per l'occasione promosso
generale. Il comando del Reggimento torna al colonnello Alessandro Bettoni,
conte di Cazzago. Gli amici lo chiamano Sandrino e le testimonianze lo ricordano
come un personaggio estremamente discreto che mai si era avvalso o citava le sue
relazioni con i nomi più illustri dell'aristocrazia sabauda. Esperto di araldica
e grande sportivo, aveva insegnato l'arte equestre ai rampolli di Casa Savoia e
con gli stessi aveva saputo mantenere una salda amicizia. Suoi unici vizi erano
l'assidua dipendenza al tabacco e alla caffeina. Nel luglio del 1942 il CSIR
passa il Donez e punta sul Don e sul Volga. Solo 8 divisioni su 162, dell'intero
schieramento dell'Asse, erano in grado di attaccare, ma le fantasie
schizofreniche e megalomani di Hitler, che già avevano fatto tanto per perdere
il favore degli Ucraini, volevano che il fronte si allargasse nella direzione
del Caucaso e Stalingrado. Mussolini, dal canto suo, decise di inviare,
rispondendo alle richieste di aiuto di Göring, i 200.000 uomini dell'ARMIR. Il
CSIR di Messe passa agli ordini di Gariboldi, comandante dell'Armata Italiana in
Russia. Intorno alla metà di agosto le divisioni italiane hanno raggiunto le
posizioni assegnate lungo gli affluenti del Don, immediato obiettivo. Il 20
agosto, giunge l'ordine di mettere un gruppo a disposizione dei fanti della
Sforzesca in zona Tschebotarewskij e Bobrowskij. L'incarico è affidato al
tenente Conforti, ma quando i cavalieri cercano di prendere contatto con la
fanteria sembra loro di brancolare nel buio. Con il passare delle ore scoprono
che l'unico avamposto italiano a tenere è quello detto "Fontanelle", tenuto da
un battaglione di CCNN della Tagliamento. Il giorno seguente non rimane che
constatare quanto accaduto. I russi hanno lanciato la controffensiva e la linea
sul Don è sfondata. Si pensa a ripiegare su Bolschoj, dove è acquartierato anche
il resto del Reggimento. Il Reggimento procede con la massima attenzione, ma
scopre che il resto del Savoia era partito verso Tschebotarewskij. Nel tentativo
di raggiungere l'obiettivo, i cavalleggeri si rendevano conto di quanto stava
accadendo. L'impeto del nemico veniva arrestato solo grazie agli sforzi dei
reparti di CCNN, che, pur privati della metà degli effettivi, continuavano a
tenere con tenacia le posizioni assegnate. La fanteria però, mal addestrata e
ancor peggio equipaggiata, era totalmente allo sbando. Perfino gli ufficiali non
sembravano avere in mente altro che salvare la pelle. Bettoni aveva dato ordine
al Reggimento di procedere con ordine, nel disperato tentativo di infondere la
calma nella fiumana ormai senza controllo. Nel frattempo il gruppo di Conforti,
cercava disperatamente di respingere gli assalti nella zona di Fontanelle,
assieme alle CCNN. I russi mandavano avanti i prigionieri, a mani alzate,
facendosene scudo. Solo la notte bloccò la carneficina perché nell'oscurità era
quasi impossibile distinguere i nemici dagli amici. Poi a Conforti fu dato
ordine di lasciare al proprio destino gli uomini della Tagliamento, cui fu
peraltro dato ordine di non ripiegare, e dirigersi su Tschebotarewskij. Il 22
agosto si era venuti a sapere che tre divisioni sovietiche cercavano di
penetrare nelle vallate dei fiumi Kriuska e Zuzkan. Jagodnji, all'imboccatura
della valle del Kriuska, e Tschebotarewskij, nella valle dello Zuzkan, erano le
posizioni maggiormente minacciate. Gli italiani dovevano tamponare l'avanzata
nemica e nel contempo evitare manovre aggiranti da parte dei sovietici. A
Tschebotareswkij le Camicie Nere continuavano a respingere gli attacchi nemici,
che ormai avevano perso di vigore, e il giorno seguente, 23 agosto, quando ormai
erano arrivati i rinforzi, al Savoia fu dato ordine di pattugliare la zona fra
le due valli. I comandi
avevano
disposto che il Reggimento occupasse quota 213,5, una sommità presso
Isbuscenskij da cui si potevano controllare i movimenti dei sovietici, ma i
russi la tenevano costantemente sotto il tiro del mortaio. Quando giunse la
notte, Bettoni fece allora accampare il Savoia in un avvallamento sottostante.
Gli ufficiali Abba e Manusardi, quest'ultimo da poco nominato maggiore e
assegnato al battaglione comando, criticarono la scelta, troppo esposta, e per
evitare possibilità di imboscate fece battere dai cavalli i campi di grano
immediatamente circostanti. Luoghi ideali per il nemico dove nascondersi. Al
centro dello schieramento si trovavano la Balilla del comando, i carriaggi e gli
anticarro. I pezzi dell'artiglieria montata furono disposti in direzione di
quella quota 213,5 che sarebbe dovuta essere stata occupata e tutt'intorno
furono piazzate le mitragliatrici. La mattina seguente, il 24 agosto, il
Savoia Cavalleria avrebbe compiuto il 250° compleanno. Il corpo era stato
fondato nel 1692, da Gian Michele Piossasco de' Rossi (1674-1751), discendente
di una delle più antiche famiglie italiane. Il suo casato era già noto intorno
all'anno 1000 e si sarebbe estinto solo nel 1933 quando Gabriele Giuseppina
Delfina Piossasco, contessa di None, morì nubile e senza eredi. Gian Michele,
capitano della seconda compagnia della Guardia del Corpo, colonnello di
cavalleria, tenente maresciallo e generale di cavalleria e dei dragoni, Gran
Scudiere, fondò il Reggimento per conto del duca Vittorio Amedeo II. A Piossasco
succedettero i nomi più belli della nobiltà sabauda, fra cui Adalberto di Savoia
Genova, duca di Bergamo, dal 1931 al 1934 comandante del Reggimento, e al conte
Raffaele Cadorna, futuro comandante del CLN. Quest'ultimo aveva forgiato il
Savoia che affrontò il secondo conflitto mondiale. Alle 3,30 il sergente
Comolli uscì in pattuglia. La sera prima era stato segnalato un carro agricolo
da cui sembrava uscire un qualcosa di metallico e gli uomini erano stati mandati
avanti a controllare. Il gruppo aveva già percorso due chilometri quando aveva
individuato il carro, ma tutto era tranquillo. Ad un tratto Comolli sentì un
movimento fra i girasoli, poi vide spuntare un elmetto con la stella rossa in
fronte. Fu l'appuntato Petroso a sparare. Lo colpì in mezzo agli occhi, ma a
quel momento tutta la campagna si animò all'improvviso. I cavalleggeri cercarono
di trarsi in salvo correndo disperatamente fra le raffiche nemiche e quando
giunsero all'accampamento quasi tutti i loro commilitoni stavano ancora
dormendo. Intorno a loro 2000 siberiani avevano scavato, nella notte, trincee a
semicerchio per circa un chilometro. Ora stavano tendendo al Savoia
quell'imboscata tanto temuta la sera precedente da Manusardi, e si trovavano a
non più di 800 metri. Il maggiore Albini e il capitano Solaroli di Briona
avevano già fatto intervenire l'artiglieria, ma il nemico sparava da una
posizione favorevole. Il colonnello Bettoni si rese allora conto che se vi era
ancora una speranza era l'attacco. Il capitano De Leone, da poco succeduto a
Manusardi, ricevette l'ordine. Radunati gli ufficiali del secondo squadrone, fra
cui Massimo Gotta, figlio di Salvator Gotta, l'autore de Il Piccolo Alpino, De
Leone diresse con i suoi uomini diritto sul nemico.
Manusardi, che
osservava la scena dal comando e aveva compreso l'intenzione di De Leone di
condurre la carica, fremeva impaziente per non trovarsi con i suoi. Oltretutto
pochi giorni prima gli avevano ucciso l'ultimo cavallo e ora si trovava
appiedato. Se ne fece portare un altro e si raggiunse lo squadrone che aveva
comandato fino a poco tempo addietro. Poi fu ordinata la carica, con
l'esclusione del lancio delle bombe a mano, eseguita nello stile di una
battaglia risorgimentale. Quando i cavalleggeri irruppero fra le trincee e i
nidi di mitragliatrici sovietici fu il finimondo. Si vedevano accasciare a terra
cavalli che, già morti, avevano continuato al galoppo anche per centinaia di
metri. Anche De Leone si trovò appiedato, e l'attendente gliene portò un altro.
Anche questo però stramazzò nella polvere e l'ufficiale, afferrata un'arma,
decise di combattere a oltranza, di farsi uccidere pur di non
arrendersi. L'attendente lo seguì. Il secondo squadrone era ora guidato da
Manusardi, il suo vecchio comandante. I russi uscirono dalle loro posizioni e la
lotta si fece più accanita soprattutto perché, non trovandosi i sovietici
impegnati verso altre direzioni, ne approfittavano per voltarsi e colpire gli
italiani alle spalle. Il caporale Lolli si trovò appiedato a sua volta, ma il
cavaliere Valsecchi se ne accorse e riuscì a portarlo in salvo. Nel frattempo
erano uscite dalle trincee gruppi di donne che al grido di Hurrah
Stalin!, incitavano i soldati come delle forsennate. I fendenti delle
sciabolate non erano meno micidiali dei colpi di parabellum, soprattutto se le
lame erano quelle delle pesanti sciabole cosacche, preda di guerra, in grado di
spaccare in due un elmetto. Superata la metà dello schieramento nemico Manusardi
diede l'alt e decise di tornare indietro, in soccorso a De Leone. In effetti
proseguire sarebbe stata solo una sanguinosa pazzia. Bettoni nel frattempo
mandava avanti il quarto squadrone appiedato, il capitano Abba al centro, i
mitraglieri di Compagnoni sulla sinistra, Toja sulla destra, il sottotenente
Rubino col plotone di riserva. Occorreva impegnare la fronte del nemico per
alleggerire la pressione sugli uomini del secondo squadrone, che avrebbero
altrimenti rischiato perdite troppo elevate. Avanzando incontro ai russi,
Rubino fu falciato da una raffica di parabellum, colpito a una gamba, pur
zoppicante, proseguì. Un altro colpo gli passò un polmone, ma, pur gravemente
ferito e incapace di muoversi, diresse il plotone fino alla fine del
combattimento. I russi si erano nel frattempo riparati intorno a un gruppo di
macchine agricole abbandonate. Mannozzi, del gruppo di Toja, l'unico ancora in
grado di avanzare, si gettò con le bombe a mano contro un nido di
mitragliatrici, ma, colpito nel petto dal tiro nemico, cadde a pochi metri. Il
secondo squadrone nel frattempo stava eseguendo, in perfetto ordine, la seconda
carica. Un'operazione che solo un reparto ben addestrato è in grado di compiere.
Il furore della lotta non diminuiva di tono, ma qualcuno fra i russi iniziava a
cedere. Manusardi ha terminato anche la seconda carica e Bettoni invia il
terzo squadrone del capitano Marchio. Marchio puntò dritto sulla fronte dello
schieramento sovietico e nel vederlo, il maggiore Litta lo seguì con una decina
di uomini, senza neppure attendere il permesso del colonnello. Don Alberto Litta
Modignani proveniva da una delle più nobili famiglie lombarde che fra l'altro
vantava una consolidata tradizione nell'arte equestre. Sportivo e eccellente
cavallerizzo, fra i suoi uomini era leggendaria l'attenzione che poneva alla
forma e all'ordine, specie quello della divisa. Anche nei giorni precedenti,
durante gli attimi terribili della rotta della Sforzesca, aveva trovato il tempo
di compiere delle osservazioni al riguardo. Un atteggiamento che, di fronte
al conformismo ciabattone oggigiorno imperante, può essere interpretato come
maniacale, ma perfettamente comprensibile se si considera il simbolo
rappresentato dalla Cavalleria e quindi anche dalla sua divisa. E dopotutto, lo
si è visto proprio in quei giorni, quando il Reggimento
trottava compatto per infondere
coraggio ai fanti allo sbando, quel genere di ordine aveva anche implicazioni
pratiche non sottovalutabili. Litta morì sotto il tiro incrociato del fuoco dei
siberiani, ma, di fatto, il suo sacrificio distolse l'attenzione dei russi dal
terzo squadrone di Marchio. Questi ferito a entrambe le braccia, cavalcava
stringendo con le ginocchia. Come il terzo squadrone passò il quarto, Abba si
spostò sulla sinistra, ma fu a sua volta falciato dalle mitragliatrici russe.
Ormai lo scontro era al termine e i sovietici volgevano in fuga, ma al comando
c'era ancora chi, come lo stesso Bettoni, considerava un grande sacrificio
essersi astenuto dalla carica. Il tenente Genzardi, l'alfiere, aveva sciolto lo
stendardo del Reggimento. Il Savoia aveva caricato, per l'ultima volta. Ai
russi lo scontro costò 150 morti, 300 feriti, 500 prigionieri, fra cui un
comando di battaglione, 4 cannoni, 10 mortai, 50 mitragliatrici e centinaia di
fucili. Il Savoia Cavalleria aveva perso 32 dei suoi migliori uomini, fra cui 3
ufficiali, 52 rimanevano feriti e 100 cavalli erano ormai fuori combattimento.
Quell'ultima giornata di gloria valse al Reggimento 54 medaglie d'argento, la
medaglia d'oro per il maggiore Litta, il capitano Abba e lo stendardo. La
bandiera oggi si trova a Villa Italia, a Cascais, in Portogallo, trafugata dal
colonnello Bettoni negli anni Cinquanta per farne dono all'ex re Umberto II di
Savoia. I giorni e i mesi successivi furono i più duri, quelli della ritirata,
finché il Savoia non fu congedato a scaglioni perdendo quella coesione che lo
aveva reso celebre. L'8 Settembre trovò il Reggimento a Castelsampietro, in
Emilia, dove era stato trasferito al momento dal rientro dalla Russia. Fra i
suoi protagonisti, il generale Barbò trovò la morte nel lager di Flossemberg, il
tenente Vannetti caricando i panzer tedeschi durante la difesa di Roma.
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BIBLIOGRAFIA
- Isbuscenskij l'Ultima Carica, di Lucio Lami - Ed. Mursia,
Milano 1970
- 1942, di Arrigo Petacco - Ed. Leonardo, Milano 1990
- L'Italia della disfatta, di Indro Montanelli - Ed. Rizzoli,
Milano 1982
- Storia d'Italia nella guerra fascista 1940-1943, di Giorgio
Bocca - Ed. Laterza, Bari 1969
- Storia della Seconda Guerra Mondiale, di AA. VV. - Ed.
Rizzoli-Purnell, Milano 1967
- Diari 1939-1943, di Galeazzo Ciano - Ed. Rizzoli, Milano
1969
- La guerra al fronte russo, di Giovanni Messe - Ed. Rizzoli,
Milano 1964
- Il Corriere della Sera
- La Domenica del Corriere
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