Il 22 agosto 1962 il presidente francese Charles de Gaulle sfugge miracolosamente a un doppio attentato alle porte di Parigi. Chi sono gli esecutori? Chi i mandanti? Negli ultimi mesi la politica favorevole all’autodeterminazione dell’Algeria, promossa dal generale con il sostegno della maggioranza dei francesi, era giunta nella sua fase culminante.
L’attentato del Petit-Clamart
(Prima Parte)
di ROBERTO POGGI
In una Parigi quasi deserta, oppressa dall’afa agostana, l’auto presidenziale sfrecciava a novanta chilometri all’ora diretta all’aeroporto militare di Villacoublay. A breve distanza la seguiva un’auto di scorta con a bordo un medico e tre agenti speciali, chiudeva il corteo una coppia di poliziotti in motocicletta pronti ad intervenire per sciogliere eventuali ingorghi stradali.
Per prendere parte al consiglio dei ministri, quel mercoledì 22 agosto 1962, il generale de Gaulle, insieme alla moglie Yvonne e al genero, il colonnello Alain de Boissieu, aveva lasciato di buon mattino la quiete della Boisserie, la sua residenza a Colombey-les-Deux-Eglises, immersa tra le colline boscose dell’Alta Marna, e intendeva farvi ritorno prima di notte. Né il tesissimo clima politico, né l’attentato subito un anno prima a Pont-sur-Seine, né gli inviti del ministro degli Interni, che in più occasioni gli aveva fatto presente quanto fosse arduo garantire la sua sicurezza nei continui spostamenti tra Parigi e la Boisserie, erano riusciti a convincere il generale a modificare le sue abitudini, a rinunciare alle passeggiate nei boschi e al raccoglimento del suo studio da cui poteva vedere l’orizzonte perdersi tra le colline.

Poco prima delle 20, il corteo presidenziale aveva lasciato l’Eliseo e aveva seguito il percorso più rapido e diretto verso l’aeroporto. Quella scelta non era passata inosservata.
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Charles de Gaulle
A bordo della Citroën DS presidenziale, invece, nessuno, nella luce incerta del crepuscolo, fece caso su Avenue de la Libération a un uomo con un cappello grigio che sventolava un giornale sopra la testa. Era il segnale convenuto per aprire il fuoco.
Da un furgoncino Renault Estafette giallo, parcheggiato sul lato destro della strada, nel senso di marcia del corteo presidenziale, partirono all’improvviso alcune raffiche di armi automatiche. L’autista del presidente, il maresciallo Francis Marroux, non si lasciò impressionare dal crepitio dei proiettili e affondò il piede sull’acceleratore per sfuggire alla linea di tiro degli attentatori. L’esplosione di due pneumatici fece sbandare l’auto, ma non impedì a Marroux di tenere la strada e aumentare la velocità.
Superato l’iniziale stupore, il generale e sua moglie furono pronti nell’eseguire l’ordine di abbassarsi urlato dal genero. Quella prontezza fu provvidenziale. Un centinaio di metri oltre il furgone giallo, all’incrocio con rue du Bois, una Citroën DS blu s’immise a tutta velocità tra l’auto presidenziale e quella di scorta, mitragliandole entrambe sino alla rotonda del Petit-Clamart, per poi svanire in direzione di Parigi.
Furono esplosi più di centocinquanta proiettili, ma solo sei raggiunsero la vettura presidenziale. Uno frantumò il vetro laterale sinistro, attraversò l’interno del veicolo e squarciò la carrozzeria sopra il sedile posteriore destro, a una decina di centimetri dalla testa di madame de Gaulle. Un altro penetrò all’altezza della targa, attraversò il baule per conficcarsi nello schienale del sedile posteriore sinistro, dove sedeva il generale. L’auto di scorta fu centrata quattro volte. Il casco di uno dei motociclisti fu colpito di striscio, così come il portabagagli della seconda motocicletta.
Per miracolo tutti uscirono incolumi da quella tempesta di fuoco. Soltanto un automobilista che transitava, in compagnia della moglie e dei tre figli, in senso contrario al corteo presidenziale fu lievemente ferito all’indice da una scheggia staccatasi dal volante nell’impatto con una pallottola vagante.

Giunto all’aeroporto di Villacoublay de Gaulle passò in rassegna il picchetto d’onore. Poi, imperturbabile, osservando la sua auto crivellata commentò: “Questa volta era tangente! Fortunatamente quelli là sparano come dei porci!”. Sua moglie ancora scossa per lo scampato pericolo esclamò: “Spero che i polli non si siano fatti nulla!”. Non aveva sprecato la sua giornata parigina: prima di lasciare l’Eliseo aveva fatto sistemare nel baule un paio di polli acquistati in previsione del soggiorno alla Boisserie.
Fin dalle prime indagini non vi furono dubbi sulla matrice dell’attentato. La scelta dell’obiettivo, la tecnica militare impiegata dal commando, la considerevole potenza di fuoco, le cui tracce erano ben visibili in avenue de la Libération (il tappeto di bossoli sull’asfalto, le facciate dei palazzi crivellate di proiettili, la terrazza di un bar e la vetrina di un negozio di apparecchi radio-televisivi devastate), orientarono i sospetti degli inquirenti in una precisa direzione. Il ritrovamento, circa un’ora dopo il duplice agguato, del furgoncino Estafette giallo fornì ulteriori conferme alle prime congetture. All’interno del veicolo abbandonato, insieme a fucili mitragliatori, munizioni, bengala e granate, fu rinvenuto un potente congegno esplosivo plastico, firma inconfondibile degli irriducibili, quanto disperati, combattenti per l’Algeria francese.
Negli ultimi mesi, da quando la politica favorevole all’autodeterminazione dell’Algeria, promossa dal generale de Gaulle, con il pieno sostegno della maggioranza dei francesi, era giunta alla sua fase culminante, i plasticages, gli attentati al plastico, prima limitati ad Algeri e Orano, si erano moltiplicati sul territorio francese, seminando il terrore. Tra il 15 ed il 21 gennaio del 1962 si erano registrati quaranta attentati al plastico, venticinque dei quali alla periferia di Parigi nella sola notte del 18 gennaio, altri trentatré tra il 22 ed il 28 dello stesso mese, ancora trentaquattro tra il 5 e l’11 febbraio. Un crescendo di terrore senza precedenti, ma ancora ben lontano dall’emulare la violenza che stava insanguinando l’Algeria, dove nel solo mese di gennaio del 1962 si erano verificati oltre ottocento attentati, perpetrati dalle diverse fazioni in lotta. Nella prima quindicina del febbraio successivo gli attentati erano stati 507, provocando 256 morti 490 feriti.

La principale responsabile di questo bagno di sangue era l’OAS, l’Organisation de l’Armée Secrète, costituita nel febbraio del 1961 da alcuni leader ultras dell’attivismo pro
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La ricostruzione dell’attentato
Algeria francese, come Jean-Jacques Susini, animatore dell’estrema destra del movimento studentesco, Pierre Lagaillarde, ex deputato di Algeri, con il sostegno di un generale infedele, Raoul Salan, disposto a contrastare con ogni mezzo, incluso il terrore, la politica gollista di “abbandono” dell’Algeria.
Dopo il fallimento del tentativo di colpo di stato, organizzato nell’aprile del 1961 dai generali Salan, Jouhaud, Zeller e Challe con la speranza di determinare la caduta di de Gaulle e con essa l’accantonamento di ogni ipotesi di negoziato con Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) algerino, l’OAS aveva dato inizio a una escalation di azioni terroristiche. Ad Algeri e Orano aveva scatenato la sua ferocia soprattutto sui militanti dell’FLN, sulla popolazione musulmana - colpendo spesso indiscriminatamente - e sulle forze dell’ordine decise a restare fedeli agli ordini di Parigi. Sul territorio metropolitano aveva preso di mira: sedi istituzionali e di partito, banche, esponenti politici, sia gollisti che di sinistra, giornalisti, intellettuali che si erano schierati a favore dell’indipendenza algerina, come Jean-Paul Sarte, o che non erano rimasti immuni al carisma del generale de Gaulle, come Maurice Duverger.
Accecata dall’odio, l’OAS colpiva privilegiando la rapidità di esecuzione rispetto alla pianificazione. Questa approssimazione aveva salvato la vita ad alcune delle sue vittime, come Sartre e Duverger, altre volte aveva generato atrocità tanto assurde da essere controproducenti sul piano politico, persino in un’ottica di terrore generalizzato. Una carica di plastico piazzata erroneamente sotto le finestre dell’alloggio sottostante a quello del ministro della Cultura André Malraux, un fedelissimo del generale, aveva sfigurato e accecato una bambina di quattro anni, sollevando un’ondata di indignazione nei francesi di ogni schieramento. L’imponente manifestazione di “difesa repubblicana”, indetta a Parigi dalla sinistra, nonostante il divieto delle autorità, per denunciare la “minaccia fascista” dell’OAS, si era conclusa con un bilancio non meno tragico di quello del fallito attentato al ministro Malraux. Per sottrarsi alle brutali cariche della polizia, una parte della folla in preda al panico si era accalcata nell’angusta scala di accesso alla stazione Charonne della metropolitana. Intrappolata tra una cancellata forse sbarrata e la furia dei poliziotti, alcuni dei quali non avevano esitato a scagliare pesanti griglie di ferro divelte dal selciato e dalle aiuole attorno agli alberi del viale, la massa dei dimostranti in fuga aveva calpestato e ucciso nove persone. I feriti erano stati decine.

Tra tutti i bersagli dei fanatici difensori dell’Algeria francese il più ambito era la “Grande Zohra”, come i pieds-noirs, i francesi d’Algeria, soprannominavano con disprezzo il generale de Gaulle. In tutto il Nordafrica i cammellieri si rivolgevano affettuosamente ai loro animali chiamandoli Zohra, un nome femminile piuttosto comune, anche nei postriboli algerini. Il dileggio lasciava intravvedere un odio viscerale. Rappresentando de Gaulle come uno stupido cammello condotto da un arabo, oppure come una allampanata e ammiccante odalisca, con tanto di kepì, baffi e naso pronunciato, pronta a prostituirsi, i pieds-noirs intendevano scacciare dal suo piedistallo l’eroe che il 18 giungo 1940 aveva salvato l’onore della Francia. Ai loro occhi, il “più illustre dei francesi” non era altro che uno spregevole traditore dei suoi doveri costituzionali, oltreché delle promesse politiche con cui aveva inaugurato il suo mandato, e in quanto tale meritava una condanna a morte.
L’Algeria non era una colonia, uno dei tanti possedimenti di un impero un tempo immenso, ma parte integrante del territorio nazionale. Nei dipartimenti algerini, assegnati alla competenza del ministero degli Interni fin dal 1896, viveva oltre un milione di francesi, insieme a circa dieci milioni di musulmani. Alle due comunità non erano riconosciuti pari diritti, tuttavia entrambe risiedevano sul suolo della repubblica francese. La costituzione del 1946 aveva sancito che l’Algeria era la Francia: Algeri, Orano e Costantina erano città francesi esattamente come Parigi, Marsiglia o Lione. Anche soltanto ventilare l’ipotesi di cedere parte del territorio nazionale costituiva una palese violazione dell’articolo 85, che definiva la repubblica francese “una e indivisibile”, pur riconoscendo la sussistenza delle collettività territoriali: comuni, dipartimenti e territori d’oltremare.
Nel tentativo di dare una parvenza legale ai loro propositi omicidi, gli attivisti pieds-noirs non si stancavano di ripetere che anche la nuova costituzione, voluta nel 1958 dal generale de Gaulle, riaffermava il principio dell’unità della repubblica e assegnava al suo presidente il compito di garantirne l’indipendenza e l’integrità. Al di là della violazione dei principi costituzionali, ciò che i pieds-noirs non potevano perdonare alla “Grande Zohra” era di aver ingannato la loro fiducia, di aver subdolamente sfruttato il loro entusiastico appoggio per poi consegnare la loro terra, un lembo della repubblica francese, al Fronte di Liberazione Nazionale algerino (FLN).

Nel maggio del 1958, il pronunciamento dei vertici militari in Algeria era stato
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L’auto presidenziale crivellata nel duplice agguato del Petit-Clamart
determinante per porre fine all’agonia della quarta repubblica e riportare de Gaulle al potere. Dopo la caduta, alla metà di aprile, del governo guidato da Felix Gaillard, i partiti si erano mostrati incapaci di esprimere una maggioranza in parlamento e un premier. Sia Georges Bidault, sia René Pleven avevano finito per rifiutare l’incarico di formare un nuovo esecutivo. In questo vuoto di potere, che mostrava tutta la fragilità della quarta repubblica, i vertici militari ad Algeri avevano scorto la possibilità di imporre una politica di difesa ad oltranza dei dipartimenti d’oltremare. Molti nei ranghi dell’esercito temevano che l’inettitudine della classe politica rischiasse di creare le condizioni per una nuova Dien Bien Phu (la battaglia che nel 1954 aveva segnato la definitiva disfatta francese nella guerra d’Indocina), questa volta in territorio francese.
Il timore che una sconfitta sul campo, generata dall’incapacità dei politici di assumere decisioni nette, di rinunciare alle schermaglie parlamentari per servire gli interessi superiori della patria, vanificasse tutto il sangue versato per mantenere l’Algeria in seno al territorio nazionale, si intrecciava per un verso con gli imperativi posti dalla guerra fredda e per un altro con la necessità di difendere la vita e il patrimonio della popolazione pieds–noirs.
Nella valutazione dello stato maggiore ad Algeri, se il movimento indipendentista algerino fosse riuscito a prevalere, sfruttando a suo favore l’impasse del sistema politico, la flotta sovietica non avrebbe impiegato molto tempo a sostituirsi a quella francese a Mers-el-Kébir e oltre un milione di pieds-noirs si sarebbero trovati a dover scegliere tra la valigia e la bara.
A condizione di essere sostenuto con coerenza e determinazione dalla classe politica, l’esercito era convinto di poter vincere la guerra scatenata a partire dal novembre 1954 dall’FLN. In caso contrario, la sconfitta sarebbe stata inevitabile e durissima per i francesi d’Algeria.

La notizia dell’imminente conferimento dell’incarico di formare un nuovo governo al centrista Pierre Pflimlin, ben noto per la sua posizione favorevole a una soluzione negoziata della questione algerina, aveva convinto lo stato maggiore ad Algeri a rompere gli indugi, facendo leva sugli attivisti pieds-noirs. Il 13 maggio 1958 una imponente manifestazione indetta ad Algeri dalle associazioni degli ex combattenti e dai comitati di difesa dell’Algeria francese per commemorare tre militari uccisi dall’FLN - mentre a Parigi sembrava affermarsi la linea favorevole al negoziato, anticamera dell’abbandono - si era trasformata, sotto l’occhio benevolo dell’esercito, in un assalto alla sede del governo, a cui era seguito l’insediamento di un comitato di salute pubblica che aveva assunto i pieni poteri civili e militari.
Benché il comandante in capo delle truppe in Algeria, Raoul Salan, pluridecorato reduce dall’Indocina e fervente anticomunista, incarnasse meglio di chiunque altro tutti gli spettri che agitavano lo stato maggiore e l’esercito (cioè la nascita di uno stato filosovietico nel mediterraneo e la diaspora di un milione di pieds-noirs), la presidenza dell’improvvisato comitato insurrezionale era stata assegnata al generale Jacques Massu, in considerazione della sua immensa popolarità.
Nell’arco di pochi mesi, a partire dal gennaio del 1957, Massu, al comando della decima divisione paracadutisti, aveva stroncato ad Algeri l’attività terroristica dell’FLN, restituendo ai pieds-noirs la speranza che la “rivolta” potesse essere domata. Per vincere la battaglia di Algeri non aveva esitato ad avallare esecuzioni sommarie e a fare un ricorso sistematico alla tortura dei prigionieri. In Francia la sua feroce determinazione aveva suscitato sdegno in larghi settori dell’opinione pubblica. Oltremare molti l’avevano considerata pienamente giustificata dai risultati ottenuti.

Né la formazione del gracile governo Pflimlin, né l’appello alla lealtà verso le istituzioni democratiche rivolto all’esercito dal presidente della repubblica Coty avevano potuto
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I fori dei proiettili nella parte posteriore dell’auto
arrestare la proliferazione dei comitati di salute pubblica sul territorio algerino. La spirale del caos politico aveva continuato a crescere, creando un clima di tensione che lasciava presagire una imminente prova di forza. Nelle stanze del potere avevano incominciato a diffondersi le voci di un’operazione denominata in codice “Resurrezione” con cui i generali di Algeri contavano di assumere il controllo militare di Parigi. Mentre il “tintinnio delle sciabole” si faceva sempre più intenso e sinistro, le parole pronunciate ad Algeri dal generale Salan alla folla assiepata davanti al palazzo del governo avevano aperto uno spiraglio per una soluzione incruenta e legale della crisi: “La vittoria è la sola via della grandezza francese. Io sono dunque con voi, con tutti voi. Viva la Francia! Viva l’Algeria francese! Viva il generale de Gaulle!”.
Alle invocazioni di Salan, de Gaulle aveva indirettamente risposto con un comunicato dal tono sovrano, affermando la propria disponibilità ad assumere la guida della repubblica. Non volendo incrinare la sua immagine super partes, si era però guardato bene dall’esprimere solidarietà agli insorti di Algeri. Aveva puntato l’indice contro il sistema politico, senza tuttavia auspicare o giustificare nessuna azione eversiva, in modo da consentire ai vertici istituzionali di incanalare la crisi nei rituali costituzionali. Di fronte all’indecisione dei partiti e all’impazienza dei militari non aveva perso la calma e non aveva cercato di forzare i tempi. Si era invece preoccupato di fornire rassicurazioni sia agli Stati Uniti che all’opinione pubblica francese. Aveva riservato il privilegio di conoscere le sue vere intenzioni sul futuro dell’Algeria soltanto all’alleato americano. Se i pieds-noirs e i golpisti di Algeri avessero conosciuto il suo pensiero si sarebbero resi conto quanto le loro speranze di una difesa ad oltranza dello status quo fossero mal riposte. In via riservata, attraverso fidati portavoce, il generale aveva fatto sapere all’ambasciata americana di non voler mettere in discussione la partecipazione francese alla NATO, di non avere velleità autoritarie, di non essere coinvolto nel complotto algerino e di avversare ogni ipotesi di politica repressiva in Algeria, sperando di convincere l’esercito a salvare il salvabile nei dipartimenti d’oltremare oppure ad accettare la creazione di una sorta di Commonwealth dell’Africa del nord.

All’opinione pubblica, in una affollata conferenza stampa convocata al Palais d’Orsay il 19 maggio 1958, de Gaulle aveva dichiarato di non avere alcuna intenzione di intraprendere all’età di sessantasette anni la carriera del dittatore, evocando la sua indomita battaglia per l’affermazione dei principi liberali e democratici calpestati dal regime di Vichy.
Anche in assenza di una aperta condanna da parte del generale delle tentazioni sediziose che serpeggiavano nell’esercito, le forze politiche, ad eccezione dei comunisti e di alcune personalità dell’area socialista e centrista, avevano finito per vincere le loro resistenze, preferendo le credenziali democratiche dell’uomo del 18 giugno a quelle dei paracadutisti di Massu e di Salan, che ormai anche la stampa giudicava, non senza motivo, sul punto di irrompere nelle sedi istituzionali della capitale.
Prima le dimissioni del governo Pflimlin, poi il conferimento a de Gaulle, a larga maggioranza parlamentare, dei pieni poteri per affrontare la questione algerina e dare una nuova costituzione alla repubblica avevano definitivamente annullato l’operazione “Resurrezione”, ma non avevano fugato tutti i timori dei pieds-noirs e degli ufficiali golpisti.
Accanto a de Gaulle avevano trovato posto al governo uomini del vecchio regime come il socialista Guy Mollet e lo stesso Pflimlin, mentre erano stati esclusi alcuni ferventi sostenitori dell’Algeria francese come Bidault.
Come primo atto da capo del governo de Gaulle era voltato quindi ad Algeri, per non alienarsi il sostegno di chi più di ogni altro gli aveva spianato la strada verso il potere e la possibilità di riscrivere la costituzione, incidendo la piaga del parlamentarismo. L’accoglienza era stata trionfale, militari, pieds-noirs e persino numerosi musulmani lo avevano acclamato come un salvatore. Al cospetto di una folla immensa che pendeva dalle sue labbra, il generale aveva rinunciato alla franchezza per adottare una formula cinicamente ambivalente: “Io vi ho capito!”. Senza rivelare, come aveva fatto con l’alleato americano, i suoi disegni sul futuro dell’Algeria, aveva lasciato intatti i sogni di ciascuno, in ossequio alla massima secondo cui non si esce dall’ambiguità che a proprio danno. Non aveva voluto deludere neppure il sogno dell’integrazione franco-algerina, affermando: “Qui non ci sono che dei francesi a parte intera… . Per questi dieci milioni di francesi, i loro voti conteranno come quelli di tutti gli altri”. A Mostaganem, contagiato dall’entusiasmo della folla o forse tradito dalla stanchezza, si era persino lasciato sfuggire un “Viva l’Algeria francese!”.

Nell’immediato l’eloquenza ed il carisma del generale si erano rivelati efficacissimi nel suscitare consensi. Chiamati alle urne, pieds-noirs e musulmani avevano approvato a
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Aprile 1961, i generali autori del putsch, da sinistra Zeller, Jouhaud, Salan e Challe
larga maggioranza, nel settembre del 1958, la costituzione della quinta repubblica che delineava una inedita forma di governo semipresidenziale, attribuendo al capo dello stato la condivisione del potere esecutivo con il primo ministro, la facoltà di sciogliere le camere, di sospendere il normale funzionamento del sistema costituzionale in caso di grave minaccia all’integrità e all’indipendenza della nazione, di sottoporre direttamente all’approvazione popolare disegni di legge concernenti l’organizzazione dello stato. L’annuncio, in occasione di un discorso pronunciato a Costantina all’inizio di ottobre del 1958, di un piano di investimenti per lo sviluppo delle infrastrutture algerine e per la scolarizzazione dei giovani musulmani era stato interpretato come una prova della volontà del generale di non separare i destini dei francesi che vivevano sulle opposte sponde del Mediterraneo.
Le illusioni dei pieds-noirs erano però ben presto svanite, lasciando il posto alla rabbia e al rancore non appena de Gaulle aveva incominciato a mostrare tutto il suo pragmatismo. Alla fine delle stesso mese di ottobre del 1958, nel corso di una conferenza stampa, aveva offerto ai ribelli dell’FLN la “pace dei coraggiosi”, ponendo come unica condizione per l’avvio delle trattative la deposizione delle armi.
Salan e i suoi ufficiali, con il pieno sostegno degli attivisti pieds-noirs, non avevano contemplato nessuna soluzione alla crisi algerina diversa dall’annientamento della rivolta guidata dall’FLN. Pertanto, la parola pace, pronunciata dall’uomo che credevano avrebbe combattuto sino alla vittoria finale - e quindi al ristabilimento dello status quo, seppur con qualche apertura all’integrazione tra francesi e musulmani -, li aveva colti di sorpresa e indignati. Avevano tuttavia ritenuto più prudente non insorgere contro de Gaulle, dal momento che la stessa situazione politica gli impediva di attuare il suo disegno. L’FLN infatti aveva rifiutato sdegnosamente l’offerta di pace e aveva intensificato la sua attività militare e terroristica. Benché il generale Salan avesse espresso con molta circospezione la sua ostilità, il governo aveva comunque provveduto a neutralizzare la sua influenza sediziosa sulle truppe schierate in Algeria, assegnandogli il prestigioso incarico di comandante della regione militare di Parigi.

Nel corso del 1959 i rapporti tra de Gaulle, i militari di Algeri e i pieds-noirs avevano continuato a deteriorarsi, senza tuttavia giungere a una rottura definitiva. In pubblico, il generale, eletto nel dicembre del 1958 presidente della repubblica da un collegio di grandi elettori, era sfuggente a proposito dell’Algeria, rifiutava gli slogan, lasciava intendere di ritenere impraticabili soluzioni che guardassero al passato, ma non si impegnava a chiarire sino in fondo il suo pensiero. Nell’aprile del 1959, al deputato Pierre Laffont, direttore di un quotidiano di Orano, aveva dichiarato: “L’Algeria di papà è morta. Se non lo capiamo, moriremo con lei”. Invitava a guardare al futuro, ma non aveva ancora messo una pietra tombale sul sogno dell’Algeria francese. A rendere ancor più indecifrabili le sue allusioni avevano contribuito le dichiarazioni del primo ministro, Michel Debré, che enfatizzavano l’indissolubilità del legame tra Francia e Algeria.
Soltanto nel settembre del 1959, de Gaulle aveva finalmente dissipato ogni dubbio rivolgendosi direttamente ai francesi dagli schermi televisivi. Dopo aver illustrato gli incoraggianti segnali di ripresa economica registrati nei diciotto mesi dal suo ritorno al potere, aveva affrontato la questione algerina rompendo il tabù dell’autodeterminazione: “In nome della Francia e della repubblica, in virtù del potere che la Costituzione mi attribuisce di consultare i cittadini, con la protezione di Dio e con l’obbedienza della nazione, mi impegno a domandare da un lato agli algerini, nei loro… dipartimenti, cosa vogliono finalmente diventare, dall’altro a tutti i francesi di ratificare questa scelta qualunque essa sia”. Pur ribadendo che anche in caso di secessione dei dipartimenti d’oltremare la Francia avrebbe protetto, a beneficio di tutto l’occidente, i suoi interessi petroliferi nel Sahara, de Gaulle aveva declassato l’Algeria francese da principio irrinunciabile a quesito referendario. Per non indebolire troppo la sua posizione di fronte all’FLN non aveva fissato una data per la consultazione popolare, ma aveva innescato un processo il cui esito, data la proporzione di uno a dieci tra pieds-noirs e musulmani, appariva scontato.

Moltissimi francesi, stanchi di temere per la vita dei propri figli chiamati a combattere un’insensata e anacronistica guerra coloniale contro l’FLN, avevano accolto le parole del generale come l’annuncio della fine di un incubo. Pur tra distinguo, cautele e crisi di coscienza, i leader di tutto l’arco costituzionale avevano finito per approvare la svolta nel
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Manifesto dell’OAS
senso dell’autodeterminazione algerina. Incurante dell’isolamento politico, Bidault si era invece affrettato a raccogliere attorno a sé una pattuglia parlamentare per la difesa dell’Algeria francese e del principio dell’integrazione della comunità musulmana. I pieds-noirs avevano gridato al tradimento, trovando nell’esercito un’ampia, anche se inizialmente discreta, solidarietà. Le voci di un nuovo pronunciamento militare erano giunte sino a Parigi. Nel gennaio del 1960, il generale Massu, nel corso di un’intervista rilasciata a un giornale tedesco, aveva apertamente confermato lo smarrimento dell’esercito rispetto alla nuova politica algerina, gettando ombre sulla fedeltà di ufficiali e soldati. Difronte ad una presa di posizione così provocatoria ed eversiva, de Gaulle aveva immediatamente reagito rimuovendo Massu dal comando del corpo d’armata di Algeri.
L’allontanamento dell’ufficiale che rappresentava l’ultimo baluardo dell’Algeria francese contro la politica gollista dell’abbandono aveva suscitato la violenta protesta dei pieds-noirs che, sobillati da leader come Lagaillarde, Susini e Ortiz, avevano invaso le vie del centro di Algeri e innalzato barricate. Mentre l’esercito, agli ordini del generale Challe, si era limitato cautamente ad avviare trattative con i capi della rivolta, la gendarmeria aveva tentato di liberare le strade, ma era stata respinta dopo intensi scontri a fuoco che avevano causato venti morti (quattordici agenti e sei pieds-noirs) e circa centocinquanta feriti. Nonostante il sangue versato, alcuni reggimenti di paracadutisti dispiegati per dare l’assalto alle barricate avevano finito per fraternizzare con i pieds-noirs, ponendo il governo centrale in una posizione delicatissima.
Dopo alcuni giorni di incertezza, in cui il rischio di un colpo di stato militare appariva imminente, de Gaulle era riuscito a risolvere la crisi a proprio favore, affidandosi ancora una volta al suo carisma. Indossata l’uniforme, si era rivolto dagli schermi televisivi ai francesi per condannare la rivolta e richiamare tutti i soldati al loro dovere di obbedienza alla legittima autorità. Il suo appello non era caduto nel vuoto. Ufficiali e truppa avevano proceduto in buon ordine allo sgombero delle barricate. Lagaillarde e Susini erano stati arrestati, Ortiz invece si era messo in salvo fuggendo in Spagna.

La settimana delle barricate di Algeri anziché indebolire de Gaulle l’aveva rafforzato, offrendogli il pretesto da un lato per allontanare dai centri di potere i politici, i funzionari e gli ufficiali sospettati di simpatie verso la causa dei pieds-noirs, dall’altro per ottenere dall’assemblea nazionale, ai sensi dell’articolo 38 della costituzione, la facoltà di legiferare tramite decreto sulle questioni relative alla difesa dell’ordine pubblico ed alla salvaguardia dello stato. Anche la popolarità del generale aveva raggiunto lo zenit. Secondo i sondaggi, circa il 75% dei francesi aveva approvato il suo operato.
Dopo aver consolidato, presso l’opinione pubblica e all’interno delle istituzioni la sua posizione, de Gaulle si era preoccupato di rinsaldare i legami di fedeltà dell’esercito, recandosi, nel marzo del 1960, a visitare le truppe di stanza in Algeria. Di fronte a ufficiali e soldati aveva spiegato l’importanza di ottenere una netta vittoria sull’FLN per costringerlo ad accettare il principio di autodeterminazione dell’Algeria, il solo che potesse
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De Gaulle ad Algeri dopo aver pronunciato il suo enigmatico: “Io vi ho capito!”
preservare una qualche forma di legame tra le due sponde del Mediterraneo: “La bandiera francese sventolerà ancora a lungo, siatene certi, ad Algeri. L’indipendenza sarebbe nello stesso tempo una catastrofe, una sciocchezza, una mostruosità. Sono gli algerini che decideranno. Io credo che diranno: ‘una Algeria algerina legata alla Francia’.” Le sue esortazioni, benché si prestassero a interpretazioni opposte, non erano state inefficaci. L’esercito aveva rinnovato il suo slancio, procedendo rapidamente alla pacificazione pressoché completa delle regioni di Algeri e di Orano.
Forte dei successi militari conseguiti, de Gaulle nel giugno del 1960 aveva aperto a Melun, un piccolo comune nella regione parigina, le trattative con i rappresentanti dell’FLN. Ma i negoziati, falliti sul nascere, avevano offerto agli attivisti dell’Algeria francese, in carcere o latitanti, nuovi argomenti per accusare de Gaulle di tradimento, infiammando l’odio dei pieds-noirs. Bidault aveva definito l’apertura di un dialogo con il nemico una “cupa follia”. All’indomani del suo pensionamento, il generale Salan, divenuto presidente dell’associazione dei combattenti dell’Unione francese, aveva incominciato a muovere critiche così dure alla politica gollista da indurre il governo a vietargli di stabilirsi ad Algeri. Alla fine di ottobre del 1960, dopo un’infiammata conferenza stampa in compagnia di Bidault e del generale Zeller, Salan si era trasferito in Spagna, dove era entrato in contatto con la dirigenza del movimento estremista dei pieds-noirs.

Nonostante l’epurazione dei più accesi simpatizzanti dell’Algeria francese seguita alla settimana delle barricate, l’esercito non era rimasto indifferente alla radicalizzazione dell’opposizione di Salan, a cui molti ufficiali attribuivano un nobile significato patriottico.
Come sua abitudine, de Gaulle non si era lasciato intimidire né dagli anatemi degli estremisti, né dalle avvisaglie del crescente disagio dei militari, tuttavia non aveva ignorato la crescente pressione dell’opinione pubblica, soprattutto di sinistra, a favore di una rapida conclusione della guerra. Nel novembre del 1960, in occasione di uno dei suoi frequenti discorsi televisivi alla nazione, aveva annunciato la convocazione di un referendum sul principio di autodeterminazione, evocando per la prima volta la futura costituzione di una repubblica algerina indipendente. L’improvvisa accelerazione impressa al processo di autodeterminazione aveva suscitato una nuova e più impetuosa ondata di risentimento nelle file dei sostenitori dell’Algeria francese e negli ambienti militari. Il maresciallo Alphonse Juin, l’eroe della campagna d’Italia, profondamente legato alle sue origini algerine, aveva pubblicamente rotto la sua cinquantennale amicizia con de Gaulle e aveva espresso la sua piena solidarietà a Salan e Jouhaud, entrati ormai in semi clandestinità.
In vista della consultazione popolare il generale si era recato in Algeria dove era stato accolto da violentissime contestazioni da parte dei pieds-noirs in preda all’esasperazione. Il servizio di sicurezza aveva sventato a Orléansville un attentato contro la sua persona. Un altro complotto, ideato dal generale Jouhaud per rapire il capo dello stato e giustiziarlo dopo un processo sommario, era fallito prima ancora di essere attuato. Anche la comunità musulmana aveva colto l’occasione della visita presidenziale per scendere nelle piazze a far sentire le proprie invocazioni all’FLN e all’indipendenza. I cortei dei pieds-noirs e quelli dei musulmani si erano affrontati nelle strade di Algeri, di Orano e di altri centri minori. Gendarmeria ed esercito non avevano esitato a sparare sulla folla per riportare l’ordine. Il bilancio degli scontri era stato di un centinaio di morti, per lo più musulmani.

Il generale aveva continuato la sua campagna elettorale dagli schermi televisivi, dichiarandosi pronto a dimettersi dal suo incarico in caso di sconfitta. Il voto popolare dell’8 gennaio 1961 aveva confermato la piena fiducia dei francesi nella politica presidenziale. Grazie alla massiccia partecipazione dei musulmani, il “sì” aveva trionfato anche in Algeria. Soltanto nelle grandi città il “no” dei pieds-noirs si era fatto sentire.
L’inequivocabile risultato delle urne da una lato aveva incoraggiato de Gaulle a riprendere i negoziati con l’FLN, dall’altro aveva spinto i partigiani dell’Algeria francese verso la lotta armata e il terrorismo. Poche settimane dopo il referendum, l’avvocato liberale Pierre Popie, colpevole di essersi espresso pubblicamente a favore dell’indipendenza algerina, era stato pugnalato da un paio di sicari arruolati nelle file del Fronte dell’Algeria Francese (FAF), una rete clandestina organizzata dall’industriale André Canal, detto “Le Monocle”, in quanto cieco da un occhio.
Mentre ad Algeri il terrorismo mieteva le sue prime vittime, a Madrid venivano definite le strategie per proseguire la lotta per l’Algeria francese. Nel dicembre del 1960, approfittando dei benefici delle libertà provvisoria, i leader dell’estremismo pieds-noirs, Susini e Lagaillarde, in attesa di giudizio per i crimini commessi durante la settimana delle barricate, erano fuggiti da Parigi per riparare in Spagna e offrire a Salan di unire le forze per la causa comune. Da questo accordo, nel febbraio del 1961, era nata l’OAS, l’ultima e più fragile delle organizzazioni estremiste, ma non per questo meno sanguinaria. Già in marzo si era conquistata la ribalta uccidendo, con due cariche di esplosivo plastico piazzate presso la sua abitazione, il sindaco di Evian, Camille Blanc. Una punizione esemplare per non essersi rifiutato di ospitare nella sua città i negoziati tra il governo francese e l’FLN .
Nella strategia dell’OAS e degli altri gruppuscoli oltranzisti, il terrorismo era lo strumento per rallentare ed intralciare il processo di autodeterminazione algerino avviato da de Gaulle, mentre la sollevazione dell’esercito era quello per bloccarlo definitivamente.

In qualità di ex comandante delle truppe in Algeria, di ufficiale più decorato delle forze
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Armand Belvisi al momento del suo arresto il 30 maggio 1962
armate, di leader riconosciuto degli ex combattenti, Salan si era illuso di poter convincere l’esercito a mettere in atto un colpo di stato per destituire de Gaulle. Dopo un avvio incoraggiante, la saldatura tra estremisti pieds-noirs ed esercito, come già era avvenuto nel gennaio 1960, era sfumata. Il 21 aprile 1961, alcuni reparti di paracadutisti delle legione straniera avevano assunto il controllo dei centri nevralgici di Algeri: la sede del governo, il municipio, l’aeroporto e i depositi di armi. I generali Challe, Zeller e Jouhaud si erano rivolti alla popolazione annunciando di aver preso il potere per rispettare il giuramento dell’esercito di mantenere francese l’Algeria. Rientrato in tutta fretta ad Algeri dalla Spagna, Salan era stato acclamato dalla folla.
All’Eliseo nel frattempo de Gaulle aveva mantenuto il suo sangue freddo, arrivando persino, durante un consiglio dei ministri, a ironizzare su quanto stava accadendo nella città bianca: “Il fatto più grave in questa vicenda è che non si tratta di una cosa seria”. Neppure rivolgendosi ai francesi dagli schermi televisivi aveva rinunciato a ridicolizzare i capi della congiura, descrivendoli come un pugno di generali in pensione accecati dall’ambizione, dal fanatismo e dalla pochezza delle loro capacità. Alla derisione, de Gaulle aveva fatto seguire l’annuncio dell’assunzione dei pieni poteri, ai sensi dell’articolo 16 della costituzione, e l’esortazione a tutti i francesi, a cominciare da quelli in uniforme, a rispettare il loro giuramento di fedeltà alla repubblica. I soldati di leva, che costituivano la maggioranza del contingente di stanza in Algeria, avevano riconosciuto in quelle parole la voce della legittima autorità e avevano isolato i generali golpisti a cui non era rimasto che il dilemma tra la resa e la fuga. Challe e Zeller avevano optato per la prima, Salan e Jouhaud per la seconda.

Il fallimento del putsch dei generali aveva privato gli estremisti della loro arma più efficace, costringendoli a concentrare nel terrorismo e nell’insurrezione dei pieds-noirs le loro speranza per salvare il sogno dell’Algeria francese, che con l’avvio dei negoziati di Evian pareva destinato a svanire in breve tempo. La necessità di agire in fretta e la profondità della delusione per la sconfitta subita avevano fatto da catalizzatore. I gruppuscoli dell’estremismo prima dispersi erano confluiti nell’OAS, che sotto la guida di Salan si era dotata di una struttura efficace e determinata. Il colonnello Yves Godard, esperto di guerra psicologica, ispirandosi al modello di struttura clandestina rivoluzionaria rappresentato dall’FLN, aveva plasmato l’OAS su di un organigramma suddiviso in tre rami: organizzazione delle masse, azione diretta e propaganda. Salan, affiancato da uno stato maggiore composto dai capi dei tre rami e da un servizio informazioni gestito da Godard, si era riservato la guida dell’organizzazione. Al generale Jouhaud era sta affidata la responsabilità di dirigere l’OAS nella zona di Orano.
Il ramo azioni, sotto la guida del medico Jean-Claude Pérez, fondatore di uno dei primi gruppi di auto difesa dei pieds-noirs contro le azioni terroristiche dell’FLN, e di Roger Degueldre, un ufficiale disertore della legione straniera destinato a conquistarsi la fama di “genio del terrorismo urbano”, si era distinto per il suo dinamismo, dando macabra concretezza allo slogan: “L’OAS colpisce chi vuole, dove vuole, quando vuole!”. Ogni esplosione che dilaniava un nemico dell’Algeria francese, ogni colpo di pugnale che abbatteva un presunto traditore della patria aveva contribuito a risollevare il morale dei pieds-noirs, riaccendendo le loro speranze di riuscire a preservare terra, averi, identità e memorie.
Il responsabile del ramo propaganda, Susini, aveva saputo sfruttare i successi ottenuti sul campo dagli spietati commando di Degueldre per fare proseliti tra i pieds-noirs e alimentare il mito dell’invincibilità dell’OAS. Talvolta l’audacia, più ancora della violenza o del fragore delle esplosioni, si era rivelata efficace per conquistare la mente e i cuori dei pieds-noirs. Nell’agosto del 1961, l’OAS aveva offerto una dimostrazione clamorosa della sua onnipotenza inserendosi sulle frequenze della radio di stato per diffondere un invito alla ribellione contro la dittatura gollista.

L’OAS si era rapidamente ramificata anche a Parigi e nel resto della Francia, grazie alla fanatica abnegazione di un altro ex ufficiale della legione straniera, Pierre Sergent. Benché potesse contare su di un organico molto più ridotto rispetto a quello algerino, su
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La stazione Charonne della metropolitana, 8 febbraio 1962
modeste capacità di fare proselitismo e soprattutto su di un sostegno molto limitato nell’opinione pubblica, la rete metropolitana dell’OAS già nell’estate del 1961 si era resa responsabile di decine di attentati esplosivi ogni mese, mostrando capacità offensive tanto sviluppate da poter minacciare il nemico numero uno dell’Algeria francese.
All’inizio di settembre del 1961, una dichiarazione rilasciata dal generale de Gaulle riguardo al riconoscimento, fino ad allora ostinatamente negato, del carattere algerino del Sahara aveva sbloccato il negoziato con l’FLN, giunto a una fase di stallo. La replica dell’OAS a quest’ultimo cedimento, che prefigurava la nascita di uno stato algerino pienamente sovrano, svincolato da qualsiasi tutela francese rispetto allo sfruttamento delle immense risorse del Sahara, non si era fatta attendere.
La sera dell’8 settembre 1961, in prossimità di Pont sur Seine, il corteo presidenziale diretto dall’Eliseo alla Boisserie era stato investito dalla violenta esplosione di un ordigno nascosto in un mucchio di sabbia, posto al margine della strada in previsione delle gelate invernali. In seguito all’onda d’urto, l’auto sui cui viaggiava il generale in compagnia della moglie aveva sbandato, poi aveva attraversato indenne una barriera di fiamme alte fino al cielo che ingombrava la carreggiata. La destrezza al volante del maresciallo Marroux aveva contribuito a salvare la vita della coppia presidenziale non meno dell’imperizia degli attentatori. Infatti la carica di circa quaranta chili di esplosivo, stipata in una bombola di gas, nascosta per una settimana sotto il mucchio di sabbia, era stata in gran parte neutralizzata dall’umidità. La violenza dell’esplosione, pur ridotta del 90% del suo potenziale distruttivo, era comunque riuscita a innescare un bidone di liquido infiammabile, collocato dagli attentatori a poca distanza dall’ordigno per amplificarne gli effetti.

Ad azionare il comando a distanza di quella bomba difettosa era stato Martial de Villamandy, un ex speaker di radio Saigon che aveva abbracciato con entusiasmo la causa dell’Algeria francese. La polizia era giunta al suo arresto nell’arco di poche ore. Allontanandosi dal luogo dell’esplosione, Villamandy aveva perso il controllo della sua auto, impantanandosi in un fosso. Un contadino, Daniel Pillet, che percorreva quel viottolo di campagna in sella a un ciclomotore gli aveva prestato aiuto. Per sdebitarsi Villamandy si era sentito in dovere di invitare il suo soccorritore a bere un bicchiere al caffè del Centro di Pont sur Seine, dove tutti gli avventori erano intenti a commentare il misterioso boato udito pochi minuti prima. Villamandy aveva bevuto in fretta il suo bicchiere e si era accomiatato con mille ringraziamenti. Pillet aveva sorseggiato più lentamente, poi, spinto dalla curiosità, si era diretto in compagnia di un amico verso il luogo dell’esplosione. Lungo la strada avevano incontrato un posto di blocco. Non potendo proseguire si erano messi a conversare con gli agenti della gendarmeria e avevano finito per raccontare di quel forestiero liberato dal fango a poca distanza dalla strada nazionale mentre si aggirava al buio, senza meta tra campi e boschi. Quel racconti non aveva lasciato indifferenti i gendarmi.
Nel frattempo Villamandy, dopo aver constatato che tutte le strade in uscita da Pont sur Seine erano bloccate, aveva ritenuto più prudente ritornare al caffè e mescolarsi agli avventori, particolarmente numerosi in quella sera dedicata al santo patrono. La gendarmeria allertata da Pillet non aveva impiegato molto tempo prima di passare a dare un’occhiata al caffè del Centro. Una rapida ispezione all’auto di Villamandy era stata sufficiente per scoprire una prova schiacciante. Nel bosco che fiancheggiava la strada nazionale, accanto al detonatore era stata rinvenuta una custodia che corrispondeva perfettamente al binocolo in bella mostra sul cruscotto dell’auto di Villamandy. Di fronte all’evidenza, l’ex speaker di radio Saigon non si era fatto pregare troppo per denunciare i suoi complici: Henry Manoury, Bernard Barance, Jean-Marc Rouvière, Dominique Cabane de la Prade e Armand Belvisi. Della mente operativa dell’attentato non aveva potuto svelare altro che il nome di battaglia: “Germain”.

Tra tutti i membri del commando, soltanto Belvisi era riconducibile alla rete metropolitana dell’OAS, diretta dal capitano Sergent. Sull’ipotesi di assassinare il capo dello stato il gruppo dirigente dell’OAS si era spaccato. Pérez, Susini, Sergent e Godard si erano dichiarati favorevoli, ritenendo che la morte di de Gaulle avrebbe fatto vacillare la quinta repubblica. Al contrario Salan, probabilmente cedendo ad un sussulto di senso dell’onore militare, si era opposto con decisione. I dirigenti favorevoli all’assassinio di de Gaulle non si erano docilmente rassegnati al veto di Salan, al tempo stesso non avevano voluto sfidare apertamente la sua autorità. Pertanto avevano incoraggiato un piccolo gruppo clandestino ultraconservatore, composto da intellettuali, politici e militari insospettabili, a elaborare in autonomia un piano per l’eliminazione di de Gaulle, limitandosi a inserire nel commando un soggetto come Belvisi, coinvolto marginalmente nella rete metropolitana dell’OAS. Con questo espediente erano convinti, in caso di successo, di poter acquisire forza nella lotta di potere con Salan, e in caso di fallimento di poter negare ogni accusa di insubordinazione.
Il gruppo incaricato di uccidere la “Grande Zohra”, destinato più tardi ad assumere la denominazione di Consiglio Nazionale della Resistenza Interna (CNRI), aveva affidato al suo uomo più qualificato, un tenente colonnello dell’aeronautica esperto in missilistica e balistica, il compito di progettare le modalità operative dell’attentato, arruolando invece gli altri membri del commando negli ambienti dell’estremismo pieds-noirs e dei reduci dall’Indocina.

Protetto dal nome di battaglia “Germain”, l’uomo del CNRI era sfuggito all’arresto. Allo stesso modo Belvisi, potendo contare sull’assistenza della rete
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Copertina di Paris Match dell’agosto 1962
metropolitana dell’OAS, aveva fatto perdere le sue tracce per diversi mesi. In mano agli inquirenti non era rimasta altro che la bassa manovalanza, da cui Salan, in una lettera aperta indirizzata ai giornali, aveva potuto prendere le distanze, condannando l’attentato. A confondere ulteriormente le acque sarebbe poi intervenuto l’avvocato difensore degli attentatori, Tixier-Vignancour, che avrebbe dipinto i suoi assistiti come dei “cani sciolti”, inconsapevolmente manovrati addirittura dal ministero degli Interni. Nella sua fantasiosa ricostruzione, a Pont sur Seine non era scoppiata una bomba, ma un grosso e innocuo petardo, con l’obiettivo non di uccidere de Gaulle, ma di convincerlo ad adottare misure più incisive contro l’OAS. La tesi dell’attentato fasullo, benché destinata a crollare in tribunale, avrebbe nell’immediato sviato l’attenzione degli inquirenti e dell’opinione pubblica, coprendo i veri mandanti politici, che dopo il loro primo fallimento non si erano certo scoraggiati.
Bomba o petardo che fosse, l’ordigno esploso a Pont sur Seine aveva accresciuto la popolarità di de Gaulle, conferendogli la base di consenso necessaria per reagire con fermezza tanto alle intimidazioni dell’OAS quanto alle pressioni dell’FLN. A partire dall’autunno del 1961, pur senza riuscire ad arrestare il proliferare degli attentati al plastico, la polizia aveva proceduto a numerosi arresti, indebolendo la rete metropolitana dell’OAS; al tempo stesso aveva stroncato con selvaggia violenza il tentativo dell’FLN di mettere sotto pressione il governo mobilitando gli algerini residenti a Parigi. Il 17 ottobre la manifestazione non autorizzata di oltre trentamila musulmani per le vie di Parigi si era conclusa con un orribile massacro: circa duecento morti e migliaia di feriti.

Dopo aver dimostrato di non essere disposto a lasciarsi manovrare né dall’OAS né dall’FLN, de Gaulle aveva rinnovato i suoi sforzi per dare nuovo slancio al processo di autodeterminazione algerino. Sfidando la ferocia terroristica dell’OAS, all’inizio di febbraio del 1962 aveva annunciato l’imminente soluzione della tormentata questione algerina. Un mese più tardi i lavori della conferenza di Evian erano ripresi per concludersi il 18 marzo con la firma del cessate il fuoco tra l’esercito francese e l’FLN . Ad Algeri, i pieds-noirs, inquadrati dall’OAS erano insorti con le armi in pugno, prendendo il controllo del quartiere di Bab el Oued. L’esercito, questa volta senza esitazioni, era intervenuto aprendo il fuoco e provocando quarantasei morti e duecento feriti. Lo spargimento del sangue dei pieds-noirs nelle vie di Algeri non aveva scalfito la determinazione della maggioranza dei francesi a recidere ogni legame con l’Algeria. In occasione del referendum dell’8 aprile oltre il 90% dei votanti aveva espresso il proprio consenso alla politica di de Gaulle. Dopo il voto era iniziato l’esodo disperato di un milione di pieds-noirs verso l’altra sponda del mediterraneo, lasciandosi alle spalle case, terreni, attività economiche e radici culturali ramificatesi nel corso di centotrent’anni. Per arrestare l’emorragia della propria base di massa, l’OAS aveva compiuto ogni sforzo, arrivando persino a presidiare le agenzie di viaggi e le aree di imbarco dei porti. Né la propaganda, né le intimidazioni avevano potuto ridare speranza a un popolo affranto. A partire dalla fine di maggio ogni giorno migliaia di pieds-noirs avevano scelto la via dell’esilio.

Indebolita dall’esodo dei pieds-noirs, privata di ogni prospettiva politica, l’OAS si era abbandonata a una furia cieca che mirava a trasformare la terra per cui si era tanto accanitamente battuta in una landa desolata. I commando di Degueldre, denominati Delta, avevano scatenato un inferno di esplosioni contro ogni genere di obiettivo: banche, impianti industriali, infrastrutture, ospedali, scuole e biblioteche. Ad Algeri erano andati in fumo oltre sessantamila volumi. Auto imbottite di esplosivo parcheggiate in prossimità di luoghi frequentati da musulmani avevano provocato decine e decine di vittime.
Mentre l’Algeria sprofondava nel sangue e nell’orrore sommando tragedia a tragedia, la polizia aveva arrestato prima il generale Jouhaud e poi anche il generale Salan. L’OAS, decapitata e del tutto incapace di fronteggiare la nuova congiuntura politica, aveva continuato a colpire, distruggere e seminare terrore tanto in Algeria quanto in Francia. Il 1° luglio 1962 de Gaulle aveva nuovamente chiamato i francesi alle urne per esprimersi sull’indipendenza algerina. La vittoria schiacciante dei “Sì” aveva definitivamente infranto il sogno dell’Algeria francese.
Le raffiche sparate contro l’auto presidenziale il 22 agosto 1962 non furono altro che un atto di rabbiosa vendetta.
(1 - Continua)
 
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