Kipling parlava del “fardello dell’uomo bianco” che doveva portare la civiltà nel mondo. Oggi il fardello è il passato dell’uomo bianco, un passato di delitti e atrocità per il quale chiedere continuamente perdono. Ma la colpevolizzazione dell’Occidente è in realtà una costruzione degli intellettuali.
Della sinistra intellettuale europea
di EMILIO BONAITI
Viviamo in tempi in cui gli uomini, spinti da spiriti mediocri o da feroci ideologie, si abituano a provare vergogna di qualsiasi cosa. Vergogna di se stessi, vergogna di essere felici, d’amare e di creare. […] È necessario quindi sentirsi colpevoli. Eccoci trascinati al confessionale laico, il peggiore di tutti.
Albert Camus



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Il presidente indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono
Gli intellettuali europei educano le nuove generazioni all’autoflagellazione, facendo proprio il pensiero di Dostoevskij: “Colpevol[e] per tutti e per ciascuno, di tutti i peccati umani collettivi e individuali”, invitandole a espiare i peccati dei loro nonni e bisnonni mentre dall’Africa, dal Medio Oriente dall’Asia, dall’America del Sud i diseredati premono per mettere piede nel Vecchio continente.
Dimenticano che tutte le grandi civiltà sono state conquistatrici e hanno imposto i loro principi con la violenza, se necessaria. Con gli stessi meccanismi agirono religioni come il Cristianesimo e l‘Islam, religioni che si sono imposte anche con la forza delle armi, con la differenza non piccola che i rappresentanti del Cristianesimo hanno ammesso il principio della laicità e chiesto con frequenza perdono a tutti per errori e delitti passati, mentre l’Islam non ha di questi rimorsi per il comportamento passato e presente contro infedeli, apostati, donne, omosessuali e miscredenti.
La civiltà islamica, nei confronti della quale il bisogno di espiazione sembra maggiore, ha conquistato col filo della spada l’Africa settentrionale, la Persia, l’India, il Sudan, i Balcani, la Spagna distruggendo le religioni locali e eliminando gli oppositori. Per limitarsi a un esempio, nel 1640 quando Otranto fu occupata dai Turchi la quasi maggioranza della sua popolazione fu decapitata.

Uomini coraggiosi come il presidente indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono hanno il coraggio di ricordare che tra le nazioni islamiche: “Non ce ne è una che possa essere considerata sviluppata secondo qualsiasi criterio. Tutte sono in ritardo in termini di sapere, in termini finanziari e tecnologici […] il mondo associa l’Islam alla arretratezza. Questo può farci incollerire ma rimane il fatto che siamo arretrati […] Nulla nella nostra religione dice che non possiamo essere sviluppati”.
Un esempio palpabile è l’Algeria, un paese con una sua precisa identità culturale, che dopo una durissima guerra acquisì l’indipendenza. Si tratta di un paese con grandi ricchezze minerali, una fiorente agricoltura, con strutture governative ereditate dai governanti francesi. La memoria delle atrocità francesi è vivissima e viene sempre ricordata e rinfacciata, ma le atrocità commesse dal Movimento di liberazione algerino nei confronti non solo della popolazione europea, degli harkis e dei pieds-noir, ma anche nei confronti del Movimento nazionale algerino di Messali Hadj, vengono sottaciute. Per lunghi anni il paese è stato squassato da violente lotte tra i vincitori, da una politica economica modellata sui paesi socialisti, da una sanguinosa guerra civile tra integralisti e forze governative. Strappa un sorriso amaro pensare che molti partigiani algerini di una guerra finita nel 1962 siano emigrati in Francia per trovare lavoro e oggi vivono fianco a fianco con i pieds-noir.

Permeati da vergogna e da rimorso, ci colpevolizziamo per le catastrofi africane che Kofi Annan pudicamente definì “cocktail di disastri”. Per questo fenomeno, accompagnato da una corruzione gigantesca, da un nepotismo dilagante, da una violenza sistematica i nostri intellettuali hanno una parola magica e persuasiva: “neocolonizzazione”, il nuovo mostro che ha sostituito i vecchi imperi, i vecchi possedimenti. Necessario corollario le multinazionali che sfruttano le ricchezze africane.
Una colpa, anche se parziale, viene sempre trovata e si giustifica così ? comodo alibi per i fallimenti ? l’assoluta mancanza di autocritiche della classe politica di quei paesi, sempre voracemente attenta a interessi personali. Una classe politica che, dopo aver in moltissimi casi applicato principi economici marxisti, scarica di volta in volta le responsabilità sul capitalismo, sulle multinazionali, sulla globalizzazione.
Gli intellettuali progressisti, tutti figli del ’68, hanno in prima fila gli ex comunisti, orfani, spesso non pentiti, della Rivoluzione. A questo proposito vanno ricordate le parole del giornalista Malcom Muggeridge a proposito dell’Unione Sovietica: “I visitatori stranieri a Mosca […] costituiscono, senza dubbio, una meraviglia della nostra epoca, e fino al mio ultimo giorno conserverò gelosamente, come un ricordo benedetto, lo spettacolo di quella brava gente che viaggiava piena di radioso ottimismo, attraverso le campagne affamate, passeggiando in allegre comitive per città sordide e sovraffollate, ascoltando con fede incrollabile il cicaleccio idiota di guide accuratamente indottrinate, ripetendo come gli scolari ripetono la tavola pitagorica, le statistiche falsificate e i vuoti slogan recitati interminabilmente a loro beneficio”.
Va però loro riconosciuto che, con straordinario spirito di adattamento, questi intellettuali sono passati dall’economia comunista a quella liberista, si sono adattati alle leggi economiche del capitalismo, alla teoria dell’iniziativa privata, alla libera concorrenza, alla pubblicità, alla società dei consumi. La lotta di classe, la dittatura della classe operaia sono lontane, anche se conservano sempre nel cuore il sogno di un comunismo democratico.

Sono diventati improvvisamente difensori dei diritti umani, dimenticando che per il
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Simone de Beauvoir, Jean-Paul Sartre e Che Guevara nel 1960 a Cuba
passato tutto giustificavano alle necessità della Rivoluzione, alla formazione dell’uomo nuovo. Essi, sotto il peso della colpa, offrono da decenni alla Palestina un sostegno non percepibile per il Sudan, la Cecenia, il Congo e altri paesi in preda a guerre civili.
Hanno verso il terrorismo islamico una attenzione minore, più blanda, proclamano di volerlo combattere ma ne minimizzano l’importanza. Da questo viene il rifiuto dell’espressione “terrorismo islamico” come spiegò Zapatero, icona della sinistra oggi lievemente appannato: “Io non parlo mai di terrorismo islamico, ma di terrorismo internazionale”.
E quindi “bisogna cercare di capire”, “perché conoscere è fondamentale”, mentre “l’uso della forza non conduce a nulla”. Il male si combatte alle radici. Radici che si trovano nell’ingiustizia, nel risentimento, nelle frustrazioni. Si nega che il terrorismo islamico nasca dal profondo odio per la nostra civiltà, perché diversa, perché contraria alla decenza, apportatrice di corruzione con i suoi ideali edonistici, le sue nudità, i diritti concessi alle donne, la parità formale tra tutti, il riconoscimento dei “diversi”. Riesce intollerabile la nostra esistenza, il nostro modo di vivere.
Del resto Roger Garaudy, prima di tornare in seno all’Occidente lo definì: “il più grande crimine della storia” e quindi siamo tutti criminali o criminalizzati senza speranze, dannati per sempre, autori del colonialismo, della tratta dei negri, del genocidio degli indiani, siamo i peggiori, siamo assassini dei popoli.

Sosteneva nel 1953 Sartre che non vi sono speranze: “L’Europa è fottuta. Una verità che non è bella da dire ma di cui siam tutti, tra pelle e pelle convinti”. Arresosi come tanti ai Tedeschi nel 1940, da aspirante guerriero, in piena guerra algerina, aggiungeva: “Far fuori un europeo è prendere due piccioni con una fava, sopprimere nello stesso tempo un oppressore e un oppresso: restano un uomo morto e un uomo libero”. Sartre è rimasto folgorato da Frantz Fanon, martinicano, psichiatra, filosofo, autore de I dannati della terra, veemente atto di accusa contro l’Europa razzista e capitalista, che riscosse grande successo nella Sinistra culturale degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.
Per inciso, Fanon, dopo un breve ricovero in una clinica dell’Unione Sovietica, terminerà i suoi giorni negli Stati Uniti, “nel paese dei linciatori” ove si recò per curare la sua inguaribile malattia.
All’unisono scendono in campo altri intellettuali. Lo psichiatra Franco Fornari su “Aut Aut” nel 1963 sosteneva che col colonialismo noi abbiamo inoculato nel Terzo Mondo il nostro male più grave la necessità della violenza come mezzo per togliere di mezzo l’aggressore. Allargò il campo Giovanni Giudice che nei “Quaderni Piacentini” del settembre-ottobre dello stesso anno aggiunse che l’uomo che “tira fuori la roncola” con la violenza dei “dannati della terra” secondo l’assunto di Fanon, è lo sfruttato che si batte per una società nuova “senza servi ne padroni”, è il proletario de Il Manifesto di Marx. Eravamo nel 1963, l’Unione Sovietica era ancora il faro al quale guardavano gli intellettuali della Sinistra, ben inseriti nella società capitalistica.

L’espiazione deve continuare nei secoli, ogni mese, ogni giorno un lutto da ricordare, un perdono da chiedere, un delitto da continuare a espiare sostenendo che l’accoglienza di tutti i profughi africani sia un dovere, una semplice restituzione del male fatto dalle nazioni occidentali che pure hanno abolito per prime la schiavitù, schiavitù abolita nello Yemen e nell’Arabia saudita nel 1962, in Mauritania nel 1980, schiavitù di cui è stata
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Ritratto di Khomeini su una moschea
denunciata solo quella occidentale, con successive richieste di risarcimenti venali.
Perentorio è Etemad Bouta nel suo Crimes et réparations. L’Occident face a son passé colonial. La formazione degli imperi coloniali si è fatta con “une bouchée de pain” e rapporta la loro estensione con l’insignificanza del loro costo. Sostiene che i paesi responsabili della schiavitù e della colonizzazione in Africa dovrebbero a titolo di compensazioni da 100.000 miliardi a 777.000 miliardi di dollari.
Le democrazie riconoscono le loro colpe passate, i paesi islamici e ex paesi comunisti le ignorano. Kipling parlava del “pesante fardello dell’uomo bianco” che doveva portare la civiltà nel mondo. Oggi si parla del fardello costituito dal passato dell’uomo bianco, un passato di delitti e atrocità per il quale devono essere scontati i peccati commessi dai nostri bisavoli.
Gli intellettuali di Sinistra accolsero la rivoluzione khomeinista con grande fervore. Quando un inerme vecchio fronteggiò l’orribile Scia, amico degli Americani, con la sua tenebrosa polizia segreta e il suo esercito potente facendo esplodere il paese, molti intellettuali europei plaudirono alla svolta. Quando Khomeini cominciò a impiccare gli oppositori comunisti l’entusiasmo andò scemando.

Dopo le delusioni cocenti del paese del socialismo, l’Unione Sovietica, si passò alla Cina di Mao Zedong. I massimi pensatori europei ignorarono le atrocità della “Rivoluzione culturale”. La giornalista Maria Antonietta Macciocchi, all’epoca corrispondente del quotidiano “L’Unità”, scrisse in proposito: “[La rivoluzione culturale] ha saldato lavoro manuale e lavoro intellettuale, ha ristrutturato l’insegnamento, dalle elementari all’università, in un sistema di educazione che opera la sintesi fra teoria e pratica, facendo sì che l’homo sapiens e l’homo faber formino un essere completo, un uomo totale”.
Passano gli anni e si legge in “Passato e presente”, rivista di sinistra, nel numero del gennaio 2009 (Gli anni di Mao: storia e politica del presente) a firma di Stephen A. Smith: “La simpatia che gli storici degli anni 60’ e 70’ dimostravano nei confronti di Mao derivava in massima parte dalla scarsissima conoscenza dei fatti che si aveva all’epoca, poiché in quella fase non era effettivamente possibile realizzare una ricerca storica indipendente in Cina”.
Sulla miopia di questi pensatori l’antologia è smisurata. Va però riconosciuta loro la straordinaria capacità di rigenerarsi, di trasformarsi rimuovendo il passato. In loro altissimo è il rispetto per tutte le culture, dalle più primitive alle più avanzate, ci si sforza di comprendere il cannibalismo, la lapidazione delle adultere, la violenza per credenti in religioni diverse, il taglio delle mani ai ladri. Va tutto compreso, tutto capito, tutto tollerato. Nulla è immorale, erroneo o anacronistico. Tutte le culture sono apprezzabili e accettabili in nome della tolleranza verso gli altri.

Anche di fronte a problemi che li investono da vicino, gli intellettuali europei tendono a tergiversare, a colloquiare, a prendere le distanze dall’aggressore e dall’aggredito. Basti l’esempio delle stragi jugoslave perpetratesi per anni alle porte di casa nostra. Hanno continuato a discettare, a fare esami di coscienza, a commuoversi sui bambini morti, fino a quando, infastiditi per i massacri loro proposti dai mass media, hanno dato il loro sofferto assenso, pur, “senza se e senza ma”, contrari alla guerra. E allora si sono trasformati con un miracolo ornitologico da colombe in falchi, lamentando però l’assenza dell’ONU, feticcio ecumenico, confortandosi di essere dalla parte della giustizia, chiamando l’uso della forza “conflitto” e non “guerra” e i “soldati”, o meglio i “nostri ragazzi”, “operatori di pace”.
Per concludere, nessun intellettuale di Sinistra ammette che l’Europa abbia vinto i suoi mostri passati. La democrazia ha trionfato, il fascismo e il nazismo sono stati abbattuti, il comunismo è stato spazzato via: “Mormorerà come fogliame sul pavimento e se ne andrà”, scrisse Bruce Chatwin, a metà degli anni Ottanta. Eppure gli intellettuali continuano a lanciare allarmi per il ritorno del fascismo, sono sempre alla ricerca di modelli alternativi al capitalismo del quale, dalla crisi del 1929, annunciano trionfalmente e periodicamente la fine. Si è scritto che denunciano i delitti di quell’albero alla cui ombra stanno comodamente seduti e dei cui frutti si cibano doviziosamente. Sfugge loro una grande verità: siamo responsabili solo di noi stessi, delle nostre azioni, del futuro che riusciremo a costruire.
BIBLIOGRAFIA
  • Hollander, Paul, Pellegrini politici: intellettuali occidentali in Unione Sovietica, Cina e Cuba – il Mulino, Bologna 1988
  • Bruckner, Pascal, Il singhiozzo dell’uomo bianco – Guanda, Milano 2008
  • Fanon, Frantz, I dannati della terra – Einaudi, Torino 1962
  • Bouda, Etemad, Crimes et réparations. L’Occident face a son passé colonial – Versaille, Waterloo 2008
  • Smith Stephen A., Gli anni di Mao: storia e politica del presente – “Passato e presente”, n. 76, 2009